SUI RIFIUTI E SULLA DECRESCITA

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DI GIUSEPPE GIACCIO
Diorama letterario

1. Rifiuti e criminalità

La crisi dei rifiuti scoppiata a Napoli e in Campania – la regione ne produce annualmente 2.600.000 tonnellate, una piccola parte dei quali (una percentuale oscillante tra il 10-12%) segue la strada della raccolta differenziata, mentre il grosso è destinato a diventare CDR (combustibile derivato dai rifiuti) – è un classico esempio di come un problema in apparenza tecnico (cosa bisogna fare per smaltirli) sia in realtà solo l’epifenomeno di questioni più profonde che investono, tra l’altro, la sfera politica, economica, antropologica, sociologica. Si tratta, inoltre, di un ottimo banco di prova per chi, come noi, sostiene da tempo che l’ambito metapolitico, quello cioè in cui si formano le mentalità, le visioni del mondo, ha un’importanza enormemente maggiore rispetto a quello politico, perché, quando i nodi arrivano al pettine, è da lì che partono gli impulsi decisivi che fanno pendere i piatti della bilancia in un senso o nell’altro.

Le cronache del periodo maggio-giugno 2007, nonché del dicembre 2007-gennaio 2008, cioè dei mesi caldi della crisi – l’ultima in ordine di tempo di una serie di crisi che scoppiano periodicamente dal 1994 – parlano di almeno centotrentamila tonnellate di RSU (rifiuti solidi urbani) che facevano bella mostra di sé per le strade campane (ma la cifra è indubbiamente approssimata per difetto), di incendi appiccati, a volte per autentica disperazione, altre volte per torbidi calcoli criminali (rammentiamo che questo settore è ampiamente inquinato dalla presenza della malavita), ai cumuli di immondizie sprigionanti diossina, di autobus dati alle fiamme, di aggressioni al commissario per l’emergenza Guido Bertolaso (poi sostituito dal prefetto di Napoli, Alessandro Pansa, che ha a sua volta ceduto l’incarico a Umberto Cimmino, cui si è infine aggiunto il commissario straordinario e superpoliziotto Gianni De Gennaro), di un intero quartiere, quello di Pianura, in rivolta, di assalti alle autoambulanze, di binari bloccati sulla linea ferroviaria Napoli-Roma, di camion stracarichi di rifiuti scortati dai carabinieri fino alle discariche, di un duro colpo all’immagine di Napoli e del suo “rinascimento”, in buona parte mediatico, finito letteralmente in discarica ed offerto allo sguardo perplesso del mondo intero, con ingenti danni per il turismo, di umilianti moniti dell’Unione europea, di una totale impotenza delle autorità politiche, sia locali che nazionali, la cui colpa principale è stata di aver lasciato incancrenire il problema senza decidere nulla, senza quindi fare il loro mestiere.

Un uomo politico che non prende decisioni, non importa se giuste o sbagliate, e traccheggia, viene meno al suo più elementare dovere, all’ethos che dovrebbe contrassegnare la sfera del politico. Dal 1994, anno in cui fu istituito il commissariato straordinario, sono stati spesi 1100 milioni di euro, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: la politica è stata in grado solo di produrre 5 milioni di ecoballe, peraltro non a norma, per smaltire le quali occorreranno non meno di 50 anni. L’inerzia, quando non la connivenza, della politica è la causa non ultima dell’infiltrazione malavitosa, che non riguarda solo le regioni a tradizionale presenza camorristico-mafiosa, ma un po’ tutta l’Italia (per qualche misteriosa ragione, o forse è solo un caso, sembra che soltanto il Trentino e la Valle d’Aosta siano finora rimaste indenni dal “contagio”). I mezzi di informazione riferiscono con preoccupante frequenza notizie relative ad operazioni condotte dagli organi di polizia che dimostrano l’inquietante e ingombrante radicamento della malavita in questo settore. Ne citiamo alcune, che si sono svolte nei mesi successivi alla crisi napoletana di maggio-giugno, per dare un’idea del fenomeno.

La prima, denominata “Pseudo-compost”, ha preso avvio nel bolognese per poi toccare la Lombardia, la Toscana, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia, il Veneto e l’Emilia Romagna; la seconda, battezzata sinistramente “Chernobyl”, dal nome della località dell’Ucraina dove si verificò il noto disastro nucleare, ha avuto come teatro il napoletano e altre zone del sud Italia. Ci imbattiamo ancora nel capoluogo campano anche nel caso di una terza inchiesta, scattata nel mese di settembre, che ha accertato la presenza di rifiuti altamente inquinanti (ferro, cemento, asfalto, oli, liquidi di scarico e bitume) seppelliti sotto i binari della linea ferroviaria veloce (Tav) in costruzione in Campania e provenienti dall’aeroporto di Capodichino, dove erano all’epoca in corso lavori di ampliamento – en passant, rileviamo che nel successivo mese di ottobre il Noe, Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, ha scoperto l’esistenza nelle acque del porto di Napoli di percolato, sostanza pericolosissima che si forma a seguito della fermentazione di rifiuti solidi evidentemente smaltiti con una sconcertante disinvoltura. Certamente, queste operazioni non saranno le ultime, dal momento che nel nostro Paese si commettono ogni giorno illeciti collegati in vario modo con lo smaltimento illegale dei rifiuti. Esse hanno però un carattere paradigmatico, nel senso che vi ritroviamo una serie di elementi ricorrenti nei reati di questo tipo, e perciò non è inutile soffermarvisi per cominciare a inquadrare gli aspetti criminali del fenomeno. “Chernobyl” ha portato alla emissione di 38 mandati di cattura, al sequestro di 4 società, ha accertato lo smaltimento illegale di 1 milione di tonnellate di rifiuti, un giro d’affari di 50 milioni di euro, con 7 milioni di tasse evase. Queste invece le cifre dell’inchiesta rifiuti-Tav: i rifiuti speciali illegalmente seppelliti risultano essere 5000 tonnellate, per un valore economico di 4 milioni di euro, importo analogo al ricavo stimato per le attività illegali collegate allo smaltimento. Nell’inchiesta risultano indagate 18 persone, tra cui un sottufficiale dei carabinieri e due della Guardia di finanza; sono state altresì coinvolte 30 società, sequestrati 32 automezzi, nonché alcuni cantieri della Tav e varie discariche. A Bologna, sono stati emessi 15 decreti di perquisizione, 5 ordinanze di custodia cautelare, sono state sequestrate 11 società, 47 sono le persone coinvolte nell’inchiesta, 800.000 le tonnellate di rifiuti tossici. In tutti e tre i casi compaiono figure di intermediari, in genere membri di clan delinquenziali, la cui funzione è quella di procacciarsi i rifiuti a prezzi stracciati, contattando le aziende che debbono disfarsene e che non guardano troppo per il sottile, come invece sarebbero tenute a fare. E questo è un primo, importante livello di complicità, di zona grigia, in cui ambienti malavitosi e ambienti formalmente rispettosi della legge entrano in contatto. In tal modo, vengono messe fuori mercato, o comunque in grave difficoltà, le ditte oneste, che hanno costi molto più alti. Questo fenomeno dovrebbe, in teoria, far inorridire gli apologeti del mercato e delle sue regole, che, nel settore dei rifiuti, sono completamente ribaltate, senza che nessuno si scandalizzi. In un mercato normale, infatti, secondo quanto si insegna nelle scuole e nelle università, vi è un agente, il venditore, che propone una merce, prodotta da lui o da altri, e un altro agente, il compratore, che la acquista pagando un prezzo adeguato, in base alla legge della domanda e dell’offerta. Quando si tratta di “monezza”, invece, è colui che produce il rifiuto, cioè il venditore, a pagare il compratore che dovrà poi preoccuparsi di smaltirla. Evidentemente, il produttore-venditore ha interesse a cedere la sua maleodorante e sovente pericolosa merce al prezzo più basso possibile, ed è altrettanto evidente che a poterlo praticare è spesso un’impresa di smaltimento inquinata dalla criminalità, e quindi esistente unicamente sul piano formale, che si guarderà bene dall’osservare le normative previste per lo smaltimento, limitandosi a sotterrare o scaricare la merce dove capita, con conseguenze facilmente immaginabili. Dopo essere stati così conferiti, i rifiuti vengono a questo punto “declassificati”, ossia perdono, grazie a laboratori di analisi compiacenti e a funzionari e impiegati infedeli, il carattere di pericolosità (secondo livello di complicità). Il terzo tassello del reato prevede il trasporto dei rifiuti in centri di compostaggio nei quali la frazione organica dei rifiuti dovrebbe essere opportunamente trattata in vista della sua riutilizzazione quale ammendante in vari ambiti come l’agricoltura, il giardinaggio, la floricoltura e la vivaistica. Tutto questo, naturalmente, non accade, se non sulla carta, ed i rifiuti, una volta usciti dagli impianti di compostaggio, vengono semplicemente seppelliti in discariche improvvisate, oppure utilizzati come compost, mettendo gravemente a repentaglio la salute pubblica. Le indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Bologna hanno accertato la presenza di questo falso compost in campi destinati alla coltivazione di pere!

Tra i rifiuti illegalmente smaltiti nell’inchiesta “Chernobyl” è stata invece riscontrata la presenza di cromo esavalente, una sostanza cancerogena pericolosissima, che è finita nel circuito dell’agricoltura ed ha inquinato le falde freatiche campane. Con conseguenze innegabilmente gravi, anche se al momento non è possibile quantificarle. Purtroppo, il cromo non è la sola sostanza sepolta illegalmente. Molte altre compaiono infatti nelle inchieste della magistratura: cadmio, piombo, rame, arsenico, mercurio, cromo, nichel, cobalto. Ed ancora: polveri di abbattimento fumi delle acciaierie, fanghi di depuratori industriali e civili, terre di bonifiche contaminate da idrocarburi. L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché in verità si smaltisce illegalmente qualsiasi cosa, finanche, come si legge nel dossier “Rifiuti S.p.a” redatto da “Legambiente” e dal nucleo di tutela ambientale dei carabinieri, “le carte utilizzate per la pulizia delle mammelle delle mucche, le terre e gli inerti provenienti da lavori cimiteriali, fino alle banconote triturate provenienti dalla Banca d’Italia”. Sarebbe quindi riduttivo e fuorviante focalizzare l’attenzione solo sul caso-Napoli. In Italia, il capoluogo campano non è, purtroppo, l’eccezione, ma la regola. Altrove, certo, non vediamo la “monnezza” ai margini delle vie, ma il sistema di smaltimento dei rifiuti presenta ampie crepe e fa acqua da tutte la parti un po’ ovunque nella penisola, come dimostra la sentenza c-135/05 del 26 aprile 2007 della Corte europea di Giustizia che ha condannato l’Italia in quanto “è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi della direttiva 75/442, relativa ai rifiuti pericolosi, della direttiva del Consiglio 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti”. All’origine della sentenza vi è un dettagliato censimento del territorio nazionale operato dal Corpo delle Guardie forestali, iniziato nel 1986 e stando al quale nel Bel Paese erano all’epoca dislocate ben 5978 discariche illegali. A distanza di dieci anni, le discariche abusive censite erano 5422, nel 2002 ammontavano a 4866. Sommando le discariche abusive, si ottiene la strabiliante cifra di 16.519.790 metri quadrati di territorio inquinato da rifiuti pericolosi per la salute pubblica.
Il magistrato Antonino Cordova, quando era procuratore capo della repubblica di Napoli, ebbe a dichiarare, sconsolato, che la giustizia italiana combatteva contro la criminalità con una spada di latta. Questa amara affermazione, se vale per la giustizia nel suo complesso, sembra adattarsi particolarmente al settore dei rifiuti. Fino al marzo 2001, i reati contro l’ambiente erano considerati di tipo contravvenzionale, quindi meno importanti. Gli inquirenti erano perciò costretti a fare lo slalom nel codice penale per cercare di colpire gli autori dei reati con sanzioni che non fossero irrisorie (ad esempio, ricorrevano ad altre fattispecie criminose, come il disastro o la truffa). Con l’adozione dell’articolo 53 bis del decreto Ronchi, poi confluito nell’articolo 260 del Codice ambientale, è stato introdotto, ed adeguatamente sanzionato, il delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti, ma non per questo l’eco-criminalità è stata sconfitta o almeno ridimensionata. Si può dire che proprio l’accresciuto livello di contrasto ha evidenziato ancora di più la gravità della situazione. Le ragioni dell’impasse sono in parte legate all’inefficienza della macchina giudiziaria, afflitta da una perenne mancanza di fondi e di mezzi. Tutto sommato, se si è disposti a correre qualche rischio e non si hanno scrupoli morali o di altro tipo, in Italia delinquere conviene perché o non si è presi – l’80,7% degli autori di reati restano ignoti, percentuale che supera il 90% per il furto (96%), il danneggiamento (91, 9%) e la falsità in monete (94,3%) – oppure, se si viene scoperti, è possibile cavarsela con poco. Le sanzioni, anche quando sulla carta esistono, vengono depotenziate da benefici generosamente concessi dal legislatore in omaggio al principio della risocializzazione del condannato, sorvolando però allegramente sul fatto che la prima misura risocializzante è quella secondo cui chi sbaglia paga, e paga tutto, non qualcosa. Se invece, come purtroppo accade da noi, si applica con larghezza anche all’amministrazione della giustizia la tecnica di marketing, largamente in uso nei supermercati, del 3×2, il messaggio che si veicola è tutt’altro che risocializzante, e cioè che il gioco vale la candela.

Un’altra ragione del vicolo cieco in cui si trova la giustizia è data dalla mole stessa dei rifiuti, che i paesi sviluppati producono in una quantità davvero impressionante. L’Europa ne “partorisce” annualmente 1,3 miliardi di tonnellate, 40 milioni dei quali rientrano nella categoria di quelli considerati pericolosi. Nel 1995, la media europea era di 482 chilogrammi di rifiuti per abitante, nel 2003 di 577. In Gran Bretagna, i rifiuti aumentano annualmente più rapidamente del Pil. Gli “Amici della Terra” britannici hanno calcolato che “nel Regno Unito, il cittadino medio butta via l’equivalente del suo peso corporeo in spazzatura ogni tre mesi […] La maggior parte di questi rifiuti potrebbe essere riciclata, invece finisce nelle discariche e negli inceneritori”. In Italia, stando al “Rapporto rifiuti 2005” dell’APAT, si sono prodotti, nel 2004, 31,1 milioni di tonnellate di rifiuti, il che significa un aumento di oltre il 3,7% rispetto al 2003. Nel 2000, ogni italiano ha prodotto 501 chili di rifiuti, nel 2004, 533. Al nord la media oscilla tra 514 e 530 chilogrammi di rifiuti per abitante all’anno; al centro, tra 557 e 617, al sud tra 454 e 491. Di fronte a numeri così imponenti, e considerando lo sfascio dell’amministrazione della giustizia, non c’è da stupirsi che la malavita si inserisca per trarre lucrosi profitti.

2. Che fare?

Le soluzioni proposte sono sostanzialmente tre: l’incenerimento, la raccolta differenziata e la decrescita dei rifiuti. L’establishment politico, ampiamente sorretto dai mezzi di comunicazione, è, nella sua totalità (destra, centro e sinistra), favorevole alla prima strada: per smaltire i rifiuti bisogna costruire degli inceneritori – anzi, dei termovalorizzatori o termoutilizzatori, come oggi si dice, ricorrendo a termini più neutri e rassicuranti. In questo modo si pensa, tra l’altro, di risolvere la crisi napoletana. Ad Acerra è quasi pronto un inceneritore che dovrebbe entrare in funzione il prossimo anno, magistratura permettendo, poiché la società ex appaltatrice del servizio rifiuti in Campania è sotto inchiesta. Gli inceneritori sarebbero la soluzione migliore perché disponiamo, così almeno ci viene ufficialmente garantito (ma, come vedremo, la realtà è molto diversa), della tecnologia adatta e di tecnici validi capaci di portare a termine felicemente l’opera di smaltimento. I problemi di inquinamento da diossina e da polveri sottili denunciati dagli ambientalisti sono molto meno drammatici di come vengono presentati, e comunque altre soluzioni non sono realistiche. Lo smaltimento di rifiuti tramite termovalorizzatori può addirittura diventare un ottimo business. Con un poco scientifico atto di fede, si pensa che i problemi che la tecnica fa sorgere sarà la stessa tecnica a risolverli. Dietro queste argomentazioni tecniche c’è, con ogni evidenza, la volontà, niente affatto tecnica, di considerare indiscutibile l’ideologia dello sviluppo e l’attuale modello di società consumistica (e di uomo visto solo come homo consumans) in cui il 20% dell’umanità (l’Occidente) produce e butta via, a ritmi sempre più accelerati perché l’industria ha costantemente bisogno di immettere sul mercato altri prodotti, quantità crescenti di merci spesso inutili, appropriandosi dell’80% delle risorse non rinnovabili del pianeta (in primo luogo il petrolio e il gas). E questa è la causa vera del ciclo di guerre scoppiate negli ultimi tempi. Al di là degli slogan (l’esportazione della democrazia, dei diritti umani, la lotta al terrorismo), appare infatti chiaro, almeno a chi non si lascia irretire dalla propaganda o, peggio, ne è complice, che i conflitti contro l’Iraq, la Jugoslavia e l’Afghanistan hanno nella necessità di controllare le fonti e le vie dell’energia indispensabile per sostenere un modello sociale fortemente “energivoro” una delle molle più potenti. George Bush padre fu, del resto, molto esplicito quando dichiarò: “Il nostro tenore di vita non è negoziabile”. E il democratico Clinton espresse un punto di vista non dissimile quando motivò il suo rifiuto di sottoscrivere il protocollo di Kyoto con le seguenti parole: “Non firmerò niente che possa nuocere alla nostra economia”. La scelta per gli inceneritori si inserisce all’interno di questo contesto, è l’opzione di chi vuole continuare a tenere in piedi a qualunque costo la formazione sociale capitalistica e predatoria che da alcuni secoli a questa parte sta letteralmente spogliando il mondo, distruggendo la biodiversità, avvelenando l’atmosfera, producendo l’effetto serra, il buco nell’ozono, il surriscaldamento globale. È la scelta di chi non intende rinunciare nemmeno a un grammo del suo presunto benessere e si illude che, bruciando le tonnellate di “monnezza” prodotta da uno stile di vita che la terra fa ormai fatica a sostenere, brucia anche i problemi che stanno dietro ogni rifiuto.

Proviamo ad esaminarli questi problemi, sia pure in modo sintetico. In primo luogo, l’opzione per gli inceneritori è in palese contrasto con gli orientamenti più volte ribaditi dall’Unione europea che li considera come una sorta di ultima ratio. Secondo l’Ue, bisogna che i paesi membri si impegnino prima a raggiungere livelli di eccellenza nella riduzione dei rifiuti, nella raccolta differenziata e nel riciclo, per poi avviare quel che resta agli inceneritori. Ma se si seguisse questo suggerimento, che nasce da considerazioni di puro buonsenso, non ci sarebbe granché da incenerire e quindi non avrebbe senso battersi per gli inceneritori. Per rendere economicamente conveniente la costruzione di un termovalorizzatore finalizzato al recupero energetico, che richiede notevoli impieghi di capitali, occorrono infatti grandi masse di rifiuti che sarebbero di difficile reperibilità qualora si desse luogo a una cernita dei vari tipi di rifiuti. Basti pensare che l’ammontare di carte e cartoni prodotti nel nostro paese equivale al 55% del potere calorifico dei RSU. Se li si destinasse, grazie alla raccolta differenziata e al riciclo, alle cartiere, si priverebbero gli inceneritori di una essenziale fonte di combustibile. La stessa operazione potrebbe essere fatta con le materie plastiche, che incidono per il 37,5%. “In altri termini – commenta Luigi Mara – togliendo dai RSU le carte e i cartoni e le materie plastiche, si riduce complessivamente il loro potere calorifico intrinseco di oltre il 90%! Questa è la dimostrazione inconfutabile della totale inutilità, ferma restando l’intrinseca pericolosità, degli impianti di incenerimento” (cfr. la sua ampia presentazione al saggio di Marino Ruzzenenti L’Italia sotto i rifiuti, Jaca Book). D’altra parte, anche se li consideriamo come possibile fonte di energia, gli inceneritori appaiono una scelta discutibile dato che, come ha notato Gianni Tamino, “dell’energia contenuta nei rifiuti solo un decimo diventa energia elettrica, mentre con il riciclaggio se ne può recuperare più del 50%”. Per questo, gli inceneritori andrebbero definiti, più che termovalorizzatori, “termodistruttori” (si veda l’intervista pubblicata in Natura & Città, febbraio 2007). Chi vuole gli inceneritori deve, perciò, necessariamente volere, magari senza dirlo apertamente per non rischiare l’impopolarità, pure i rifiuti e le discariche dove sistemarli prima di avviarli all’incenerimento, nonché le discariche in cui seppellire le pericolose ceneri prodotte dalla combustione. Anche i termovalorizzatori tecnologicamente più avanzati, inoltre, pongono il grave problema delle emissioni di sostanze dannose per la salute umana, come le cosiddette particelle ultrasottili, contro le quali non vale appellarsi al concetto di soglia di sicurezza da non superare perché tale soglia, semplicemente, non esiste, dal momento che, ad esempio, il processo di cancerogenesi, secondo quanto affermato da uno dei nostri più noti oncologi, il professor Cesare Maltoni, “è un processo probabilistico stocastico”. Detto più semplicemente, basta anche una sola molecola tossica per attivarlo. Questo discorso è applicabile sia al cosiddetto particolato primario, cioè le polveri direttamente immesse nell’aria dai camini degli inceneritori, sia al particolato secondario, ossia quello che si forma per reazione a contatto con l’aria. Un rapporto di Greenpeace cita, a questo riguardo, una serie di studi scientifici che “non hanno trovato un livello di sicurezza del particolato, in altre parole, una soglia sotto la quale il tasso di morte non aumentava”. Si è calcolato che un inceneritore immette ogni giorno nell’atmosfera milioni di metri cubi di fumi contenenti almeno 250 sostanze inquinanti. Come si può ragionevolmente escludere che queste sostanze producano danni alla salute? Ed infatti, non solo non lo si può escludere, ma esistono, come ha scritto ancora il professor Gianni Tamino, biologo dell’Università di Padova, “innumerevoli ricerche epidemiologiche che correlano un aumento di malattie, e di tumori in particolare, con l’esposizione ai fumi degli inceneritori” (cfr. il suo articolo “Inceneritori: nuovamente ignorato il parere dei cittadini”, in Natura & Città, anno II, n. 10, gennaio 2008). Oltre all’esposizione diretta, bisogna considerare altresì quella indiretta, più difficilmente valutabile ma dall’impatto sicuramente negativo, derivante dall’assunzione di cibi prodotti con materie prime provenienti da zone vicine agli impianti di incenerimento. Probabilmente, è proprio in virtù di questi elementi di criticità insiti nella scelta a favore degli inceneritori che molti paesi europei, dopo un iniziale entusiasmo, hanno deciso di tirare i freni. Mentre l’Italia ha adottato finora una politica di sostegno, mediante contributi, alla costruzione di impianti di incenerimento, in Europa si procede in senso inverso: la Danimarca ha introdotto una tassa sull’incenerimento, negli altri paesi i contributi sono stati ridotti o eliminati.

In materia di rifiuti, occorre tornare a percorrere la strada che tutte le culture hanno sempre percorso, prima dell’avvento del capitalismo e del consumismo, ossia la strada del riciclo e dello “zero rifiuti”. Ma per fare questo, dobbiamo uscire dallo sviluppo e dalla mentalità economicistica. Quanto più ci si sviluppa, infatti, tanto più si producono rifiuti, come ha osservato Nicholas Georgescu-Roegen: “Non possiamo produrre frigoriferi, automobili e aerei a reazione migliori e più grandi senza produrre anche dei rifiuti migliori e più grandi”. Il concetto di rifiuto, del resto, è molto recente. Si potrebbe paradossalmente dire, con Giorgio Nebbia, che la nostra società occidentale, identificata come società dei consumi, sia in realtà una società del rifiuto, e che le vere società “consumistiche” siano quelle pre-capitalistiche, in quanto queste ultime davvero “consumavano” ciò che producevano, nel senso che ne traevano tutto ciò che potevano ricavarne, mentre noi spesso buttiamo via cose (oggetti o cibi) di cui potremmo ancora tranquillamente servirci. Zero rifiuti significa, in pratica, che “se una ditta vuole produrre cucchiai, prima di fabbricarne anche uno solo dovrà aver elaborato un piano su come estrarre il metallo in modo etico, come trasportarlo con mezzi a bassa emissione di anidride carbonica, cosa fare dei trucioli di metallo e come riutilizzare l’acqua di raffreddamento del metallo, oltre ad aver pensato a un imballaggio riutilizzabile. Zero difetti. Zero rifiuti” (si veda l’articolo di Andrew O’Hagan “The things we throw away”, in London Review of Books del 24 maggio 2007).

La seconda soluzione, quella della raccolta differenziata dei rifiuti, è riconducibile all’orizzonte culturale dello sviluppo sostenibile. Essa, infatti, benché sia compatibile anche con altri scenari, non mette in discussione, in ultima analisi, la mercificazione del mondo e degli esseri viventi operata dalla forma capitale, ma propone semplicemente di fare una cernita tra gli innumerevoli scarti del capitalismo, distinguendo, ad esempio, tra secco e umido, materiali riciclabili e non riciclabili, allo scopo di ridurne l’impatto ambientale, ed in particolare evitando di destinare tutti i rifiuti agli inceneritori. Se questo è vero sul piano teorico, a tal punto che i fautori degli inceneritori la presentano, a scopi propagandistici, come una soluzione integrativa e non sostitutiva rispetto ai termovalorizzatori, va però anche aggiunto che, in pratica, laddove la si adottasse in modo serio, sistematico, ovvero, per usare il linguaggio degli ecologisti, qualora si facesse ricorso a una raccolta differenziata “spinta”, si potrebbe assestare, come si è visto precedentemente, un colpo forse mortale agli inceneritori per mancanza di materia prima. E questa è, probabilmente, la ragione vera per cui tale raccolta stenta a decollare. Quella ufficiale è invece un’altra. Si sostiene che la raccolta differenziata è applicabile in piccole realtà locali, ma sarebbe inattuabile in grandi città o metropoli. Effettivamente, almeno in Italia, laddove è stata realizzata con successo, la raccolta differenziata ha riguardato piccoli comuni, ma c’è da chiedersi se ciò sia dipeso da un limite intrinseco a questa modalità di smaltimento dei rifiuti o da una volontà politica di non procedere in questa direzione. Nulla vieta, infatti, di dividere una grande area urbana in piccole zone coordinate in funzione dello smaltimento. Altrove si è già provveduto in questo senso e i risultati sono stati buoni. Friburgo (Germania) e Canberra (Australia) non sono certo modeste realtà urbane, eppure la raccolta porta a porta ha avuto un ottimo esito. In un contesto di tipo democratico, non si dovrebbe poi trascurare un importante effetto positivo di tipo politico della raccolta differenziata, cioè il consolidamento del legame col territorio e del senso di cittadinanza della popolazione interessata, che è indotta a prendersi cura del luogo in cui vive, a considerarlo non con indifferenza, ma con sollecitudine. Il porta a porta consente, infine, di verificare la quantità e il genere di rifiuti prodotto da ciascun cittadino, il che dà la possibilità di personalizzare la tassa sui rifiuti, premiando quelli che ne producono di meno e sanzionando coloro che ne producono di più con una tassa più alta.

La terza soluzione, proveniente dai teorici della decrescita, è quella più radicale. Per costoro, il problema dei rifiuti si risolve riducendo la produzione di merci (destinate in poco tempo alle discariche e agli inceneritori) e incrementando quella dei beni (sottratti al mercato e quindi più duraturi e di qualità migliore, perché quando si produce per sé, per soddisfare propri bisogni, si cerca il meglio e non l’usa e getta). Nella società dei consumi capitalistica, la merce è, come ha osservato Maurizio Pallante, solo la forma transitoria e dalla vita sempre più breve che una risorsa assume prima di diventare rifiuto. Non si tratta di tornare alle candele o all’età della pietra (che peraltro, secondo l’antropologo Marshall Sahlins, fu un’età di abbondanza), ma di ricondurre la mercificazione a dimensioni più accettabili e fisiologiche. Gli esseri umani hanno sempre prodotto merci che sono state poi scambiate al mercato. “Sacche” di mercato, come le ha definite Alain Caillé, sono una costante rinvenibile in tutte le culture. Ma una volta questo tipo di produzione era temperato dalla auto-produzione di beni, destinata all’economia di sussistenza, e da una serie di attività che fino a qualche tempo addietro – prima dello tsunami della globalizzazione – erano svolte dallo Stato sociale e che nelle comunità prestatali rientravano tra le incombenze a carico della comunità, ed erano realizzate a titolo gratuito. Ora è venuto il momento di ristabilire, ovviamente secondo modalità nuove, l’equilibrio infranto, ovvero di “reintrodurre il sociale e il politico nel rapporto di scambio economico, ritrovare l’obiettivo del bene comune e della qualità della vita nel commercio sociale” (cfr. Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, p. 58). Ancora a Latouche dobbiamo un’interessante osservazione, e cioè che le istituzioni che siamo abituati a considerare tipiche del liberalismo e del capitalismo, come il mercato, la moneta, il profitto, sono in realtà rinvenibili in molte altre società (Latouche pensa in particolare all’Africa), il cui immaginario, però, “è così poco colonizzato dall’economia, che esse vivono la loro economia senza saperlo. Uscire dallo sviluppo, dall’economia e dalla crescita non implica dunque il rinunciare a tutte le istituzioni sociali che l’economia ha incorporato, ma il reinserirle in un’altra logica” (cfr. l’articolo “La décroissance: un projet politique”, in Entropia, n. 1, autunno 2006, pp. 9-21).

Ciò che quindi si propone non è un riassetto dell’esistente, ma la costruzione di un nuovo paradigma, di una “società della decrescita” dove la frugalità, la sobrietà, la convivialità, l’austerità, l’auto-limitazione avranno un ruolo centrale e dove il volume dei rifiuti sarà naturalmente molto più ridotto e soprattutto più facilmente smaltibile, in quanto eco-compatibile. La decrescita non è nemica dello sviluppo, ma postula un ritorno all’idea originaria di sviluppo – idea strettamente legata a quella di limite. Crescere va bene, ma non si può crescere all’infinito. Una crescita illimitata è sinonimo di malattia, non di salute, come accade con le cellule cancerogene che si riproducono in modo incontrollato. Gilbert Rist ha acutamente osservato (ne Le développement. Histoire d’une croyance occidentale, Presses de Sciences Po, Paris 1996, pag. 53) che la parola physis usata dai greci per designare la natura deriva dal verbo phuo, che significa “crescere, svilupparsi”. Ma la crescita di cui qui si tratta è, per dirla con Denis de Rougemont, la “crescita vivente, quella dell’erba, degli alberi, degli animali e dell’uomo”, nella quale “troviamo già inscritti il suo fiorire, il suo declino e la sua morte”, e che non va confusa con la “falsa crescita”, quella della modernità, dell’Occidente capitalistico e consumistico, caratterizzata dal fatto di essere “senza programma, teoricamente illimitata” e che “una volta lanciata, va verso l’entropia crescente e non verso morti e rinascite” (cfr. L’avenir est notre affaire, Stock, Paris 1977, pagg. 53-54). La crescita dei rifiuti – cui sarebbe bene opporre uno scenario di decrescita e di crescita zero dei rifiuti – è dunque solo un aspetto, quello più nauseabondo, di una abnorme proliferazione che riguarda l’intera società e alla quale occorrerebbe porre un freno.

3. Destra-sinistra: il vicolo cieco della decrescita

La via della decrescita ci pare la proposta più ragionevole di riorganizzazione della vita collettiva a tutti i livelli e non solo, quindi, in riferimento alla questione dei rifiuti, di cui ci siamo serviti come cartina di tornasole utile per far emergere altre e più vaste problematiche. Il che, beninteso, non significa che tutto ciò che dicono i fautori della decrescita sia vangelo, né che questa strada sia anche quella più facilmente percorribile. Tutt’altro. Sarebbe ragionevole smettere di fumare perché, come si legge sui pacchetti di sigarette, “il fumo uccide”, ma ciò non impedisce a milioni di persone di fumare e morire anzitempo, nonostante le campagne antifumo e il divieto di fumare nei luoghi pubblici. Sarebbe ragionevole, quando si circola in automobile, non superare i limiti di velocità, non passare col rosso e rispettare tutte le altre norme del codice della strada, ma le tante, troppe vittime di incidenti stradali – si pensi alle cosiddette “stragi del sabato sera” – dimostrano che thanatos può avere facilmente e irrazionalmente il sopravvento sull’impulso opposto. Questo ragionamento vale pure per la decrescita. Sembra ragionevole auspicare, in un mondo dalle risorse limitate, una società sobria, ma lo spreco, che poi si traduce anche in rifiuti da smaltire, regna sovrano nel mondo sviluppato. Si direbbe che viviamo in una condizione schizofrenica, non riuscendo a pensare e agire in modo coerente. Facciamo, per dirla con San Paolo, non il bene che diciamo di volere, ma il male che diciamo di non volere. Periodicamente, apprendiamo dagli istituti demoscopici che i cittadini dei paesi più sviluppati e inquinatori sarebbero propensi a larga maggioranza ad assumere comportamenti ecologicamente virtuosi e sostenibili, ma quando si passa dal dire al fare, i loro atteggiamenti concreti smentiscono questa teorica disponibilità. Tocchiamo qui con mano un punto davvero nodale, che un teorico della decrescita come Serge Latouche ha riassunto nella formula della “decolonizzazione dell’immaginario”. Prima di lui, Vandana Shiva aveva parlato delle “monoculture della mente” delle quali ci dobbiamo liberare se vogliamo cominciare seriamente a riflettere sulle alternative allo sviluppo. Siamo addestrati a pensare, fin da quando emettiamo i primi vagiti, che crescere, svilupparsi, progredire – tutte parole che, con sfumature diverse, rimandano a significati abbastanza vicini – sia qualcosa di positivo in sé. E non occorre nemmeno una particolare bravura da parte degli educatori-addestratori per farcelo capire, giacché questo messaggio è nell’aria che respiriamo, nei cibi che mangiamo, negli spettacoli che vediamo, nelle vetrine colme di cose, merci, gadget. Lo abbiamo perciò interiorizzato, e – tornando per un attimo alla questione dello smaltimento dei rifiuti da cui abbiamo preso le mosse – è questo processo di interiorizzazione, e non solo o non tanto l’esistenza di indubbi e consistenti interessi economici, a spingere una serie di soggetti ed enti in direzione della costruzione di mega-inceneritori, malgrado vi siano valide ragioni che lo sconsiglierebbero. Di qui l’oggettiva problematicità di una proposta che vorrebbe scalzare ab imis le fondamenta del vivere in Occidente. Siamo talmente abituati a configurare il nostro rapporto col mondo e con gli esseri umani in termini competitivi e di performance, che ci viene spontaneo pensare che il modo migliore per risolvere i problemi sia quello di spingere il piede a tavoletta sull’acceleratore. Abbiamo ingaggiato con la natura una sorta di match pugilistico, senza capire che, molto probabilmente, se non ci diamo una calmata, sarà la natura a sferrare il pugno del knock-out.

È in grado, la corrente della decrescita, di dare un contributo per evitare un tale esito? Cerchiamo di capirlo. Essa si presenta, per ammissione di alcuni dei suoi stessi sostenitori, in modo niente affatto dogmatico, bensì come un insieme “instabile”, un “incrocio” verso il quale convergono persone con alle spalle un vissuto culturale e politico, nonché delle sensibilità, diverse (si veda l’articolo di Bruno Clémentin “La décroissance se situe-t-elle sur l’axe gauche-droite?”, in Entropia, n. 1, autunno 2006, pp. 34-41). Ciò crea al suo interno un dibattito che riguarda anzitutto le modalità attraverso le quali avviare e condurre in porto il processo di decrescita. A questo proposito, Latouche, occupandosi del saggio di Pallante La decrescita felice (Editori Riuniti, Roma 2007), ne critica, pur apprezzandole, le tesi “dal lato della risposta all’effetto sistemico della crescita nei rapporti di produzione” (cfr. il citato numero di Entropia, p. 219). Detto altrimenti, per Latouche le tesi di Pallante possono avere degli effetti positivi a livello individuale, o di piccoli gruppi, ma sarebbero insufficienti sul piano politico generale. In secondo luogo, la discussione si è incentrata sul posizionamento politico e culturale della corrente lungo il clivage destra-sinistra. Latouche ne riassume così i termini: “Che cosa c’è dietro questo nuovo concetto? Siamo di fronte a un movimento riformista o rivoluzionario? La decrescita è solubile nello sviluppo durevole? Nel capitalismo? Si tratta di una rivendicazione di destra o di sinistra? Il movimento della decrescita costituirà un nuovo partito politico?” (Entropia, art. cit. pag. 10). Questi interrogativi hanno innescato reazioni molto accese sulle quali è necessario soffermarsi perché qui si gioca, a nostro parere, una delle carte decisive per il futuro di questa tendenza culturale. Ci sono, infatti, delle questioni sistemiche sulle quali gli “obiettori della crescita”, come si autodefiniscono, non possono fare nulla, o molto poco, dato il carattere ancora “confidenziale” e “semiclandestino” (usiamo qui due termini adoperati da Latouche) della decrescita che ha finora conosciuto una (molto) relativa diffusione solo in Francia e, in parte, in Italia, coinvolgendo alcuni settori (nemmeno tutti, quindi) variamente ostili alla globalizzazione. Ma ve ne sono altre, come il rapporto con la sfera politica, su cui tocca esclusivamente ai “decrescenti” fare chiarezza, declinare la loro carta di identità, dirci come si auto-percepiscono e si rappresentano. La decrescita si trova in una fase della sua ancora giovane vita che ci ricorda quella attraversata dalla Nuova destra quando si trovò di fronte allo stesso dilemma, poi sciolto privilegiando la scelta metapolitica su quella dell’impegno politico militante. Questo ha comportato scissioni e rotture talvolta dolorose, ma che hanno consentito alla Nd di conservare una coerenza interna (e di evolvere successivamente in direzione delle nuove sintesi di pensiero) che costituisce, data la sua posizione di estrema minoranza, il suo bene più prezioso. Qualcosa di simile è auspicabile anche per la decrescita, al cui interno si sono delineate due correnti, la prima che spinge verso la formazione di un partito politico della decrescita orientato a sinistra o, in subordine, verso un coinvolgimento dei partiti di sinistra già esistenti nella tematica della decrescita, rappresentata da Vincent Cheynet e, nel citato numero di Entropia, da Paul Ariès (“Une pensée sur la crête) e Arthur Mitzman (“Convaincre la gauche européenne”), la seconda, che vorrebbe dare alla decrescita una allure più metapolitica e sfumata rispetto alla politique politicienne (Latouche e Clémentin). Qualora prevalessero i “politici”, la decrescita si trasformerebbe inevitabilmente nella bandiera di un gruppo di ideologi settari affetti da tutte le idiosincrasie della politica che nulla dovrebbero avere a che fare con una seria opera di ricerca intellettuale. Che questo rischio sia reale e non frutto della nostra immaginazione, è d’altronde dimostrato dal contributo di Ariès, tutto incentrato sulla designazione di un nemico, Alain de Benoist e la Nouvelle droite, colpevoli di aver tentato di sporcare la decrescita semplicemente parlandone in termini positivi, e caratterizzato da uno sconcertante e delirante linguaggio patologico, da manuale della medicina. Vi si parla, infatti, di “virus ideologici” da cui bisognerebbe premunirsi “dando la caccia ai concetti equivoci” (mentre un intellettuale dovrebbe piuttosto sviscerarli e capirli) e della necessità di sviluppare “anticorpi” per evitare di finire nelle “paludi nauseabonde degli ambienti più reazionari”. Ariès accosta le tesi di de Benoist al “Manifesto di Unabomber”, alla “Chiesa dell’Eutanasia” e al “Movimento per l’Estinzione Volontaria della Specie Umana” (sic!) e si chiede, in tutta serietà: “È un caso se la Deep ecology di Arne Naess e George Sessions sia stata introdotta in Francia prima da de Benoist e poi ripresa dalla rivista L’Écologiste di Edward Goldsmith?”, dimenticando però di precisare che de Benoist non ne accetta a scatola chiusa le tesi e che una cosa è introdurre queste tesi nel dibattito culturale, altra cosa è condividerle (per i rilievi critici di de Benoist all’ecologia profonda, cfr. Le sfide della postmodernità, Arianna, pp. 231-246, nonché Demain la décroissance!, Édite, pagg. 173-199).

Ci sembra chiaro che con simili, mediocri argomenti, tanto mediocri da risultare addirittura imbarazzanti, la decrescita non può sperare di andare da nessuna parte, qualora prendessero il sopravvento. C’è, tuttavia, un punto su cui è difficile dare torto ad Ariès, ed è quando scrive: “Le polemiche che dividono i ranghi degli obiettori della crescita non sono soltanto dispute locali o fra personalità, ma esprimono scissioni intellettuali le quali mostrano che, molto spesso, i nostri accordi nascondono disaccordi altrettanto fondamentali”. Ariès è dunque consapevole della posta in gioco, così come lo è Vincent Cheynet, che attacca a fondo non solo Alain de Benoist e la Nd, ma anche lo stesso Latouche, preso di mira per le sue presunte relazioni con “autori del tipo Alain de Benoist o altri scagnozzi infrequentabili e tarati” (cfr. l’articolo “Entropia commence très mal. Décroissance et politique: censurons la politique!” sul sito www.decroissance.org). Sullo stesso sito, recensendo l’ultima fatica di Latouche, La scommessa della decrescita (Feltrinelli), Cheynet rincara la dose accusando Latouche di difendere posizioni antiuniversaliste, antiumaniste e relativiste. Siamo ad un passo dall’accusa suprema, quella di fascismo, che peraltro in Italia è già stata formulata. Le repliche di Latouche e Clémentin risultano abbastanza flebili e tremebonde. Essi escludono che la decrescita debba impegnarsi politicamente, ritenendo più proficuo in questa fase un impegno di tipo intellettuale, ma assumono un posizione esitante e contraddittoria quando debbono rispondere al quesito se si considerano o no di sinistra (e quindi se la decrescita debba o no ancorarsi a sinistra, sconfiggendo quelli che agli occhi settari di Cheynet e Ariès appaiono come tentativi di appropriazione indebita ad opera di de Benoist e della Nd). Così, Clémentin risponde al quesito con un altro quesito: non dobbiamo chiederci se la decrescita sta a destra o a sinistra, ma se destra e sinistra sono in grado di farsi carico dei necessari e radicali cambiamenti di cui abbiamo bisogno. Dal contesto, sembra di capire che per Clémentin la risposta debba essere negativa, ma certo sarebbe stato molto meglio assumere una posizione più esplicita e forte proiettata in direzione della creazione di nuovi spartiacque culturali.

La stessa timidezza si ritrova in Latouche, che dopo aver criticato a fondo la sinistra, in un articolo apparso in Italia su “Liberazione” e su “Carta”, conclude inopinatamente: “La nostra lotta si colloca risolutamente a sinistra”. Lo stesso articolo viene riproposto da Latouche nel numero di Entropia di cui ci stiamo occupando, ma qui la conclusione del suo ragionamento è alquanto differente: “Perciò, la nostra lotta si situa risolutamente contro la mondializzazione e il liberalismo economico”. È evidente che le due conclusioni non coincidono, perché non è affatto scontato che chi si situa a sinistra si schiera anche ipso facto contro la mondializzazione e il liberalismo. Questi ondeggiamenti nascono, probabilmente, dal timore di recidere un cordone ombelicale dal quale si spera di trarre linfa e nutrimento, mentre in realtà esso rischia di ostacolare e soffocare il neonato. La sinistra (come, d’altro canto, la destra) è ormai parte integrante di un partito unico occidentalista e sviluppista che si divide sui mezzi ma non sui fini. Quanto poi alla sinistra cosiddetta radicale, anti o altermondialista o in qualunque altro modo la si voglia chiamare, essa può unicamente danneggiare non soltanto la causa della decrescita, ma ogni tentativo volto a creare nuove sintesi di pensiero, avendo mostrato, almeno fino ad oggi, di essere priva di quel minimo di lucidità intellettuale necessaria per riconoscere (traendone poi le conseguenze) la sostanziale divergenza, strategica quindi e non tattica, tra la sua critica dello sviluppo e l’accettazione dello sviluppo e del suo immaginario da parte della componente maggioritaria della sinistra, sia pure sotto forma di sviluppo sostenibile. Basta leggere la Lettera aperta agli economisti (Manifestolibri, 2001) per rendersi conto dell’irriducibilità delle due posizioni e quindi dell’inutilità della ricerca di un impossibile accordo (interessanti panoramiche di queste differenti posizioni si trovano anche nel numero 81, giugno-luglio 2005, di “Manière de voir” e in “Carta etc.”, novembre 2005). Oppure dare uno sguardo al dialogo tra Carla Ravaioli e Bruno Trentin (Processo alla crescita, Editori Riuniti) dove il nocciolo della divisione emerge con ancora maggiore chiarezza. Mentre le argomentazioni della Ravaioli sono tutte svolte seguendo il filo della nozione di equilibrio, della ricerca di un equilibrio tra gli uomini e tra gli uomini e il mondo, quelle di Trentin ruotano implacabilmente intorno al concetto di sviluppo. Ne risulta un dialogo tra sordi. Ma, ciò nonostante, la Ravaioli rifiuta di guardare in faccia questa realtà, che la colloca su un altro versante rispetto al suo interlocutore, e continua imperterrita a ritenere di essere “proiettata verso obiettivi che sono sostanzialmente gli stessi” di quelli di Trentin, il quale, invece, dice chiaro e tondo che non vuole cambiare nulla, che non intende battersi “per un mondo radicalmente diverso” perché ritiene, evidentemente, che l’Occidente sia il migliore dei mondi possibili, che si tratta solo di ritoccare qua e là, facendo peraltro molta attenzione dal momento che il rischio del totalitarismo è sempre in agguato. A Trentin va riconosciuta l’onestà intellettuale di non nascondersi dietro un dito e di dire pane al pane. La decrescita avrà fatto un grosso passo in avanti quando anche i suoi sostenitori acquisiranno la medesima perspicacia.

Giuseppe Giaccio
(Diorama Letterario n.286)
Fonte: www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=17314
dicembre/gennaio 2008

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