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La Redazione

 

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STRATEGIA DEL CAPITALISMO E DEBITO PUBBLICO

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A cura di Davide
Il 18 Novembre 2006
92 Views

DI OSKAR
FreeBooter

Dopo il crollo del muro di Berlino ci avevano promesso il ‘dividendo di pace’, un periodo di pace e prosperità grazie alla cosiddetta ‘economia di libero mercato’, un termine soft per capitalismo; quello cui ci troviamo di fronte sono invece una guerra dopo l’altra ed il tentativo di rovesciare le conquiste sociali di un secolo di lotte democratiche e sindacali.

Secondo il settimanale britannico ‘The Economist’ oggi viviamo in un boom; ma è un boom molto strano, accompagnato da alti tassi di disoccupazione in tutti i paesi e l’Italia oggi è il malato del capitalismo in Europa. Infatti, lo stesso Economist un paio di mesi fa aveva spiegato che per sopravvivere il capitalismo italiano dovrebbe licenziare mezzo milione di lavoratori, mentre gli altri dovrebbero accettare una riduzione salariale del 30%. E’ questo è il vero programma del capitalismo italiano.

In ogni paese vi è un attacco al tenore di vita, l’annientamento dello stato sociale, controriforme, la distruzione di tutte le conquiste sociali.In Europa questo attacco è stato portato avanti con il Trattato di Maastricht, il Patto di stabilità, la Direttiva Bolkenstein, la defunta ‘Costituzione europea’ ed in Italia soprattutto con la propaganda sul ‘risanamento’ e l’abbattimento del debito pubblico (peraltro in gran parte frutto della rapina del cosiddetto ‘signoraggio’).

Recentemente, 70 economisti hanno firmato l’appello “Non abbattere il debito pubblico ma stabilizzarlo e rilanciare il paese”. Il documento si trova nel sito: appellodeglieconomisti

Il governo ed i mass media ci dicono che è necessario il cosiddetto ‘risanamento’, dove per risanamento si intende semplicemente il fatto che bisogna abbattere il deficit ed il debito pubblico, attraverso tagli, dismissioni, privatizzazioni e così via dicendo e si dice sostanzialmente che questo risanamento è necessario. Naturalmente, per chiarire cosa significhi questo tipo di intervento di politica economica, tagliare la spesa pubblica significa per es. comprimere la spesa sanitaria, sostanzialmente fare in modo che non vi sia più un quantitativo di servizi e di beni in ambito sanitario sufficiente per poter soddisfare le esigenze dei cittadini e degli utenti. Significa comprimere ulteriormente la spesa per la scuola, per l’istruzione, per la ricerca (del resto già tagliata dal decreto Bersani), per l’università. Significa per es. aumentare con ogni probabilità la quantità di lavoro precario che si trova nel settore pubblico, perché naturalmente se si riducono le risorse del settore pubblico evidentemente ci saranno soldi per poter aumentare il precariato, che costa poco, ma non ce ne saranno per poter aumentare i contratti a tempo indeterminato e così via dicendo. Queste non sono astrazioni teoriche, qui stiamo discutendo di cose che investono direttamente il vissuto quotidiano di milioni e milioni di individui. Allora, il problema è che vi è questa idea secondo cui sarebbe necessario il ‘risanamento’.

Nell’appello dei 70 economisti c’è scritto che la cosiddetta politica di ‘risanamento’, cioè di abbattimento del debito pubblico che il governo vuole portare avanti, non è affatto necessaria. Non vi sono ragioni teorico istituzionali tali per cui questo tipo di politica, con le relative tremende ripercussioni sociali che questa comporterebbe, debba essere necessariamente portata avanti.

Il governo e gli editorialisti che lo sostengono ci dicono sostanzialmente tre cose: che abbattere il debito pubblico conviene, che è necessario perché i mercati (che in realtà sono gli speculatori) ce lo impongono e quando non si appellano ai mercati ci dicono che abbattere il debito pubblico è obbligatorio perché è l’Europa che ce lo impone.

I 70 economisti firmatari dell’appello hanno preso tutti questi tre punti ed hanno dimostrato che sono assolutamente infondati. Il che significa che la politica di restrizione fiscale della L.F. è una politica assolutamente non necessaria, né sul piano tecnico, né sul piano istituzionale. Si può agire diversamente, si possono quindi evitare le restrizioni ed i sacrifici sociali che vorrebbero imporci.

L’esempio del debito pubblico è un caso lampante di perseguimento di una politica economica liberista, secondo la quale occorre ‘risanare’, abbattere il debito, occorre ridurre l’intervento dello stato nell’economia, occorre quindi evidentemente lasciar fare tutto più al mercato da un lato, e invece abbiamo dall’altra parte una posizione teorica robusta che ci dice che le cose non stanno così e che è necessario l’intervento dello stato per poter rilanciare la nostra economia.

L’appello degli economisti sulla stabilizzazione del debito pubblico ci dice proprio questo, cioè che non bisogna raccogliere l’idea dell’abbattimento del debito e della contrazione dell’intervento pubblico nell’economia ma bisogna invece fare un’altra cosa, bisogna stabilizzare il debito rispetto al PIL, cioè tenere il debito pubblico sotto controllo, evitare che questo cresca ulteriormente. Questo tipo di politica libererebbe una quantità enorme di risorse, consentirebbe di fare una L.F. che dia molto più spazio agli interventi per lo sviluppo e per il welfare, quindi interventi per lo sviluppo economico, per la politica industriale, per la ricerca, per l’università e per irrobustire lo stato sociale.

Cosa significa l’idea di abbattere il debito, restituire il debito in questa fase?

Significa che lo stato dovrebbe cominciare a rimborsare i titoli del debito pubblico, non più a vendere sempre nuovi titoli e tenere in vita il debito, ma un poco alla volta rimborsare questi titoli e quindi abbattere il volume complessivo dei titoli del debito pubblico in circolazione. Questo da un lato avrebbe l’effetto che il peso del debito si ridurrebbe, cioè il debito pubblico si ridurrebbe rispetto al PIL, dall’altro lato evidentemente coloro che si vedono rimborsati i titoli del debito pubblico e che ne vedono diminuita l’offerta comincerebbero a comprare azioni, quote di fondi comuni ecc., quindi sostanzialmente è un debito che da pubblico diventa privato, nel senso che non è più lo stato che si indebita verso i propri cittadini, o si indebita meno verso i propri cittadini, e crescerà il volume della domanda di attività finanziarie di altra natura. Concretamente non vi sarebbero grandi benefici per lo stato, nel senso che l’abbattimento del debito non migliora sostanzialmente le condizioni finanziarie dello stato.

Si dice che abbattere il debito pubblico comporterebbe l’abbattimento dell’onere del debito pubblico, degli interessi sul debito, ma questo è assolutamente falso: basta andare a guardare le statistiche sull’onere del debito in Italia e negli altri paesi europei, dove il debito è più basso, per es. in Germania. Si vedrebbe che onere del debito pubblico, cioè gli interessi che gli stati italiano e tedesco pagano sul debito pubblico sono sostanzialmente gli stessi. Quindi, il costo del debito è legato solamente in modo infinitesimale alla sua massa per cui non vi sarebbero grandi vantaggi da una manovra di questo tipo.

Che succederebbe nel momento in cui un flusso consistente di denaro tornasse nelle mani, per scelta dello stato a causa della diminuzione del suo debito, dei privati? Vi sarebbe maggiore sviluppo economico e sociale, oppure il contrario ed accadrebbero molte cose già viste?

Per utilizzare una parafrasi, è il capitalismo che detta ciò. In altri termini, all’interno del sistema capitalistico i flussi monetari e finanziari si muovono lì dove consentono più elevati livelli di profitto, non dove garantiscono più elevati livelli di benessere sociale, non vi è nessuna relazione tra le due cose. Quindi, se si riesce ad ottenere un più alto livello di profitto con delle operazioni speculative sul mercato finanziario o perché si riesce a sfruttare una bolla speculativa nel mercato immobiliare piuttosto che generare produzione, sviluppo ed occupazione, è chiaro che ci si muoverà in ambito speculativo. Quello che conta nel movimento dei flussi monetari e finanziari privati e non pubblici è la massimizzazione del profitto e questa la si può conseguire in numerosissime circostanze in modo speculativo piuttosto che in termini produttivi. E’ questo il funzionamento normale del sistema capitalistico. In condizioni particolari, di elevata conflittualità sociale, di capacità di contrastare la meccanica automatica del sistema capitalistico e quindi di orientarla attraverso il conflitto secondo fini produttivi, di sviluppo e di occupazione, di benessere sociale, le cose cambiano, ma non sono questi i tempi. In questi tempi la tendenza è quella in cui se i grandi capitali si muovono dal settore pubblico a quello privato è molto probabile che aumentino le operazioni di tipo speculativo, di tipo finanziario che in determinate circostanze garantiscono rendimenti molto più elevati di quanto non possa essere l’attivazione di una attività produttiva.

E’chiaro che anche l’entità della manovra della L.F. è importante: una manovra più restrittiva espande il precariato pubblico, una manovra invece meno restrittiva consente di ridurlo, consente di trasformare i contratti a tempo determinato, precari, in contratti a tempo indeterminato. Ciò può creare le condizioni per rinnovare il conflitto. E’ evidente che una delle ragioni per le quali il conflitto oggi non si attiva è che oggi vi è una intera generazione immersa nel precariato, che nei luoghi di lavoro non può avere voce in capitolo, semplicemente perché teme che il contratto non gli venga rinnovato. Dunque, se si creano le condizioni affinché direttamente o indirettamente vi siano risorse perché si possano trasformare i precari in lavoratori stabili si crea qualche condizione in più per generare conflitto. Lo stesso vale per l’occupazione: restringere il debito, cioè fare politica restrittiva, significa creare problemi occupazionali, ma se l’occupazione è bassa, come si fanno a creare le condizioni per il conflitto? Le cose sono legate, modificare la manovra finanziaria, e le future manovre finanziarie, anni e anni di manovre restrittive, significa indebolire il movimento dei lavoratori. Creare condizioni espansive del settore pubblico, della massa di moneta e di finanza che può essere orientata in ambito pubblico piuttosto che privato può creare le condizioni per la riattivazione del conflitto.

Quello che conta è anche la composizione della manovra, perché se la maggior parte di questa è per la riduzione del debito e le spese militari, va chiaramente a scapito dello welfare e degli investimenti per lo sviluppo. Per la stabilizzazione del debito pubblico sarebbero sufficienti poco più di 7 miliardi di euro, il resto potrebbe andare interamente allo sviluppo ed al rilancio dell’economia del paese, cosa irrealizzabile con le misure molto deboli previste dal governo nella L.F. (termine di infrastrutture già in cantiere, cuneo fiscale ecc.).

Se si va verso una L.F. di tagli ed addirittura verso un’intera legislatura di tagli, come ha previsto il governo nel DPEF con un abbattimento complessivo del debito pubblico rispetto al PIL di ben 8 punti, ci troveremo sicuramente di fronte ad una contrazione dello stato sociale. Questo significa una riduzione della spesa pubblica per la sanità, per la scuola, per l’università ed evidentemente aumenterà la spesa privata, cioè saremo costretti a spendere di più per questi servizi. Ciò incide molto poco per le tasche di alcuni, ma moltissimo per le tasche della gran massa dei cittadini.

L’alternativa tra politica di abbattimento, di rigore, e politica di stabilizzazione del debito pubblico è una alternativa molto chiara e netta che ha un effetto molto forte per le tasche dei lavoratori italiani.

Le ‘riforme’ del mercato del lavoro degli ultimi anni in Italia sono state poste in atto perché erano compatibili con un modello di sviluppo, che caratterizza ancora il nostro paese, tutto fondato su tecnologie tradizionali e su una competitività da bassi prezzi, e quindi bassi costi di produzione e cioè bassi salari. Ciò che dovrebbe fare una forza progressista è spingere il nostro paese verso un modello di sviluppo produttivo diverso, fondato sulle nuove tecnologie, sull’alta qualità del lavoro, sulla elevata produttività, su un sistema di infrastrutture adeguato, sulla ricerca ecc. Per fare questa svolta, che poi significa anche una svolta delle condizioni del lavoro, delle condizioni salariali, della forza contrattuale della classe lavoratrice, per fare cioè quello che gli economisti chiamano ‘salto strutturale’, ci vogliono risorse pubbliche, perché non si può immaginare che gli imprenditori dall’oggi al domani facciano compiere questo balzo in avanti al nostro paese. I nostri imprenditori sono stati bravi a chiedere in passato le svalutazioni competitive e sono bravi oggi a chiedere il taglio del cuneo fiscale, cioè abbattimenti di costi, di tasse, ma si guardano bene dall’investire nella ricerca, nell’innovazione. Occorre quindi un massiccio intervento pubblico nell’economia ed a questo scopo occorrono risorse e la battaglia sulla finanza pubblica è perciò un tema assolutamente centrale.

Quando tutto ciò risulta chiaro, è facile comprendere dove vogliono portarci i banchieri ed i grandi industriali, italiani e stranieri (che per ragioni propagandistiche vengono chiamati ‘Europa’) per mezzo dei loro servi di centro, destra, pseudo-sinistra (l’accozzaglia bipartizan) e dei sindacati venduti. Vogliono portarci nel terzo mondo, e per farlo utilizzano le stesse tecnica propagandistiche adottate per le ‘guerre umanitarie’, le ‘missioni di pace’ e la ‘guerra al terrorismo’: il rivolgimento della verità e la menzogna.

Oskar
Fonte: http://freebooter.interfree.it
Link: http://freebooter.interfree.it/scap.htm
07.11.2006

Parte dell’articolo è tratto da brani audio di interviste ad alcuni degli economisti firmatari dell’Appello.

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