Di Alceste
Roma, 8 luglio 2024
Piange il Salmone Ottimo Massimo, piangono i turiferari dell’altruismo, i legislatori della marchetta ecumenica, i capitifosi del poppolo bue con l’arco di pavone istituzionale spiegato a 180°, il paracarro della CGIL, i body builder del centrosocialismo, i parassiti meritori, i grassatori a fin di bene, le merdaiole in tailleur, i Katanga dei CAF; lacrimano le madonne di Civitavecchia dell’equità, i peltasti dell’anima bella, strimpellatori, blogger, attorucoli sovrappeso, intere medjugorje dell’appacificamento più spietato, uranisti accalorati dalla stagione degli amori universali; le Caifa svizzere alzano i toni, stropicciandosi le vesti (a brandelli no, si ragiona: i capi firmati, in fondo, costano) mentre, alle antilopi, gli antisemiti col copyright assentono: e con loro i reazionari da cappuccino: siamo tutti fratelli o no? Singh è morto, i particolari fanno rabbrividire la platea: un braccio mutilato, come in uno splatter di terz’ordine, posato su una cassetta di frutta, in plastica, evidenza simbolica dello s-fruttamento. Legioni di Sikh dalla barba d’ebano protestano: basta, per quattro soldi! Inumano! Terribile! Inciviltà! Sì, l’Italia, culla della civiltà, è ormai avvertita per quello in cui l’hanno trasformata decenni di propaganda ovvero in una frontiera ove ogni diritto è negato. Un impasto di barbarie ferina, evasione fiscale, schiavismo littorio, collusione criminale, sanguinosa omissione di soccorso. Ah, i cuordipietra italiani! Come siano andate le cose è impossibile dirlo. Quando parte la locomotiva delle salse lacrime ogni scemenza si accomoda nel proprio cantuccio ad avvalorare le più formidabili panzane. Da subito gli anti italiani, i dissolvitori del Paese, si rendono conto della ghiottoneria: un immigrato, il braccio tranciato, il caporalato. Cotta a puntino la torta lievita sino a ciò che interessa: la denigrazione dell’Italia, sempre ben accolta, avvertita ormai quale sentina d’ogni reazione, e la distruzione del residuo tessuto economico che ancora muove una nazione, questa sì, dissanguata ed eviscerata da un ignobile patriziato di ascari. Singh è una vittima e, allo stesso tempo, il mezzo perfetto per ridurre a zero ogni mobilità economica. In nome di Singh arriveranno controlli, balzelli, arresti, indagini; magistrati, politicanti, e le altissime istituzioni, continuamente in fregola per avversare il Paese ch’esse dovrebbero rappresentare e che, invece, hanno messo all’incanto, a libbre sanguinose, sugli uncini della globalizzazione. Dell’Italia non deve restare nulla, nulla deve muoversi; i pomodori te li faranno arrivare col contagocce dalla Tripolitania Inferiore, gestiti dalla multinazionale di fiducia, a emissioni zero e bontà rimoltiplicata sette volte sette: biologici, carissimi, ma col sorriso sul picciolo: noi siamo i pomidoro senza difetto, altruisti, rotondi e insapori per elezione.
Perché il banchiere Emmanuel Macron si è sbrigato a inscenare questa ennesima farsa? Cosa c’è sotto? La coltre di fumo (la repubblica; la destra estrema: sempre estrema, quella normale non esiste; la sinistra; i moderati; i populisti) avvolge il Vero Problema, Ciò che Davvero Preoccupa: l’astensione. I risultati, infatti, sono indifferenti poiché pilotati con mestiere. Marine Le Pen, così come il padre, vantano un alto indice di affidabilità attoriale … ma l’astensione, signori miei, equivale al principio del disprezzo della democrazia ovvero dell’inganno. Rifiutare la democrazia, falsa come una banconota da tre euro, è la condizione non sufficiente, ma assolutamente necessaria a far saltare il banco. E allora? E allora l’astensione, in Francia, culla della democrazia progressista e liberale, è stata sconfitta: 70% alle urne. Ovviamente il dato è falso, come spesso accade nei momenti di crisi. Però questo premeva, questo è stato ribadito, anche se in tono forzato, visibilmente posticcio. Il resto (le migliaia di analisi geopolitiche, antipolitiche, apolitiche e socioculturali su negri che votano e bianchi che tornano al voto) contano zero; a governare la Francia può essere una ex finta fascista oppure un giovane uranista dai denti gialli e dall’incisivo storto, perché no? Potrebbe essere anche un pupazzo della Marvel, il pilota automatico de
L’aereo più pazzo del mondo o la consueta figurina seriale pescata fra i simulacri del femminismo efficientista in tailleur: va tutto bene. I Francesi hanno scelto; anzi: la stragrande maggioranza dei Francesi ha scelto: la democrazia tiene. Questo il succo delle giravolte costituzionali, delle manifestazioni isteriche, dei proclami. Una sequela di candidati-attori, di raro squallore, nemmeno così convinti del ruolo come lo si era un tempo, sciatti, bolsi, servili … la giostrina, però, ideologicamente, protrae i suoi giri. La democrazia! Un elettore non riesce nemmeno a decidere dove installare un semaforo eppure è convinto di deviare i destini della Francia! Quanta fede ci vuole per questo? Pardon: quanta mancanza di fede occorre per ridursi a tale impasto di miccaggine? Fatti salvi i brogli, oramai una pratica rodata e senza pericoli: il bianchetto digitale è a prova di bomba avendo eliminato persino la più labile prova oggettiva. E al ballottaggio, un sistema truffaldino ideato per modellare convenientemente eventuali risultati sgraditi, cosa accade? Ma addirittura il record! Affluenza mai così alta dal 1981! Non solo, ma vedete come l’affluenza e la partecipazione si configurino come le Stalingrado della democrazia! Il nemico è in fuga! Vive le République!
Una vittoria di Pirro, la Francia è ingovernabile! Se fosse governata dai partiti che escono dalle legislative, certo, sarebbe ingovernabile. Poiché viene governata da Qualcosa d’Altro, la situazione, per chi governa davvero, è eccellente. Governabilità, stabilità, coesione … le superstizioni da cornetto rosso del democratico.
Le ripercussioni saranno inevitabili, in tutta Europa, figuriamoci da noi. Avete visto, ragionerà il miccame italiano, a non votare non ci si guadagna nulla, allora tanto vale andarci nei loculi a segnare la x da analfabeti! Non gli passa per la testa che rifiutare il voto equivale a rifiutare la democrazia che li sta eviscerando e spossessando di tutto ciò avevano e sono stati … non gli sfiora la capoccia che in migliaia d’anni di storia costituzionale la volontà dei popoli è stata organizzata in modo assai più razionale … sono prigionieri dell’incanto … Sul TG3 Lucia Goracci è in trincea contro il pericolo fascista: intervista uno due tre quattro allocchi nei pressi dei seggi: due negri gay, a quel che capisco, una musulmana, un’altra meticcia, una ragazzetta occhialuta … tutti meno i Francesi che, almeno a Parigi, sembrano essersi estinti. Gli ultimi, forse, sono davvero schiattati in Algeria, a Dien Bien Phu o a Kolwezi … la pagliacciata, messa su con effetti speciali da B-movie di fantascienza, è assai scoperta, da avanspettacolo messo su in fretta, ma nessuno nota i rammendi dei fondali o il fatto, inequivocabile, cristallino, che la compagnia pagherà, a sipario chiuso, sia i buoni che i cattivi …
Il quartier generale della resistenza democratica è sito in piazza della Battaglia di Stalingrado … come a dire: invece degli innominabili russi a contrastare il pericolo della deriva destrorsa ci siamo noi … Le Pen dovrà tenersi la bocca con la mano per non scoppiare a ridere di fronte a tutti … ogni cosa è predisposta … si danno di gomito … presto andranno a cena insieme, resistenti e fascisti … a delibare escargot à la Bourguignonne sulla credulità del popolame.
Quale prova vogliamo ancora? Proprio la contraddizione insanabile (la demo-crazia quale maschera del dominio oligarchico) conferma l’analisi che si va ripetendo da decenni. Persino il Papa, re e governatore di un territorio smisurato quanto privo di democrazia, si dice preoccupato: “È evidente che nel mondo di oggi la democrazia non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo … a me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare … C’è l’indifferenza, e l’indifferenza è un cancro della democrazia, un non partecipare … La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale”. Ecologia integrale, certo, e anche nuove soluzioni, creative (serve creatività per il futuro!) … chissà a cosa andrà pensando il Trippone Argentino … forse a una Figura di Riferimento Ecumenica, in cui i miliardi potranno riconoscersi? Alla sparizione del Cristianesimo, della residua nobiltà di sangue, della Democrazia stessa?
Cosa spinge l’homunculus italiano, quindi, a fronte a tale panorama, a non spararsi nel cervello? Una prima risposta sale alle labbra: il tifo. Il tifo salva la baracca istituzionale dall’implodere su sé stessa. Se c’è una categoria che incute ribrezzo è proprio quella del tifoso che compensa l’inconscia sua frustrazione per la mancanza di verità, impossibile ad attingere, con la delega mafiosa a rappresentanti della propria parte.
Quando il gioco più non funziona si eccitano le masse su questioni marginali, risibili, elevate fraudolentemente a duelli d’importanza capitale. S’induriscono gli inutili bicipiti sull’Islam cattivo, gli uranisti senza diritti, le galline del gender gap, il fascismo che torna, poiché eterno, sulla droga che travia i giovani e via sbocconcellando il rancido panino del luogo comune più vieto. Si lamentano d’essere massa poi si fanno imbonire da volgari criminali di periferia, dalle più false e smielate serenate al SuperIo coglione. Tutti partecipano, prima o poi, al massacro: intellettuali, dissidenti, integrati, mafiosi, statali, partite IVA, fumettari, cascami dell’OAS … rarissimi si sottraggono al tavolo da gioco ché ognuno, in cuor suo, crede di poter spennare il pollo che gli è davanti. Le carte truccate, e gestite da prestigiatori, e l’evidenza accecante che il micco e il baro si ritrovino sotto le stesse bandiere da una vita non gli smuove nemmeno il residuo dell’indignazione.
Abbiamo avuto tempi di riposo e tempi di guerra; tempi di costruzione e tempi infernali, i migliori. Oggi non abbiamo più tempo, letteralmente, poiché di autentiche utopie, o mire o di sol dell’avvenire non se ne vedono, figuriamoci l’epica, l’ideale o la trascendenza. Si vivacchia, insomma, sempre sull’orlo della crisi di nervi, privi di tempo (“Non ho tempo!” è il motto à la page degli sfaccendati) poiché il tempo concesso ai mortali si è gradatamente frammentato in sciocchezze: conversazioni fàtiche, messaggistica insulsa, allarmi, giochi, videochiamate, pasti catatonici, ronfate nervose. A ciò si aggiunge la burocratizzazione dell’intera nostra esistenza che oramai regola le più riposte e inessenziali quisquilie della vita: modulistica minatoria, intimidazioni, equivoci reiterati, atti di ripicca, manomissioni contributive, mancato riconoscimento di attestati, ammende, false cartelle esattoriali in cui si esige per la quarta volta, fraudolentemente, ciò che non fu, non è e non sarà mai dovuto. E però il micco, lasciato solo di fronte al moloch statale, non può ribellarsi; cerca di parare i colpi, scantona, si appella mafiosamente a qualche conoscente, scende a patti, transa, rateizza, scarica, insulta, si acconcia. La grandinata di pinzellacchere formali inventate dal potere sbriciola il tempo costringendolo a cercare riparo in una esistenza ancor più miserevole e inetta: l’omarino postmoderno, privo di orizzonte, sfinito nell’animo, anela a farsi turisticus, vuole emigrare, espatriare, rendersi remoto, dimenticare; i rimasugli della cultura e dell’impegno, inevitabilmente, hanno da essere liofilizzati, in maniera da di-vertire, obliare, obnubilare, meglio se consigliati dai poveri guitti calati giù dalla distruzione della terza pagina. Scrittorucoli di regime, che una volta ci si vergognava persino a mostrare tra i banchi delle salamelle alla Festa dell’Unità, viventi Gadda, Morselli e Moravia, oggi assurgono a eroi civili; starnazzatori locali si atteggiano a divi del bel canto, mignotte a suffraggette, attrici deformi a vamp, uranisti da cesso di stazione (ben pagati) a paladini della libertà, cleptomani (in realtà ladri fatti e finiti, da sempre, in comunanza d’arraffo con la totalità dell’arco costituzionale e oltre) a segretari di partito, cicoriari a ministri.
Non scrivi, non parli, cosa sei diventato? Ma, rispondo, per chi dovrei scrivere? A chi parlare? I punti di riferimento che ci accomunavano sono stati scientificamente eliminati. Provo spesso un doloroso senso di smarrimento, fisico, umano, a parlare con chicchessia. Quali idee condividiamo, oramai? Quali parole ci legano? Quali intuizioni, prive di parole, accendono l’anima, lo sdegno, la pietà, la comprensione? Persino le pietre miliari del divertimento popolare, le locuzioni, le espressioni proverbiali, più non dicono nulla. Si vaga in uno spiazzo assolato, deserto, usando un vocabolario di cento parole, sempre le stesse, dietro cui si cela il nulla. Perché dovremmo essere gioiosi, malvagi, disperati o felici? Quale ricchezza interiore possediamo per potere esprimere le sfumature di tali sentimenti fondanti? Cicaliamo, con aliti di voce, le sciocchezzuole innestate dal Potere direttamente nella corteccia prefrontale; bisbigli; risatine; scegliamo noi? E cosa? Un pallido edonismo, un godimento sempre più cialtrone. Ognuno è il punto di riferimento di sé stesso. La sapienza eclissata, persino la conoscenza va in second’ordine, di cosa dovremmo parlare?
Sono animato quasi esclusivamente dal disgusto. Scatto per un nonnulla, insulto, rovescio tegami e tazzine. È un incubo a occhi aperti, ragazzi. L’onda è arrivata, insospettata dai più, terribile, e ha spazzato via tutto. Nel mio mezzo secolo, e poco più, ho quindi assistito, in diretta, al più fantastico crollo della civiltà mai registrato in qualsiasi annale conosciuto. Siamo noi Atlantide, e in meno d’una notte! Il digitale ha preso il posto della realtà e l’ha cancellata. Interi comparti dello scibile umano sono scomparsi quali pietre di miliazione: l’apprezzamento per l’arte, la musica, la poesia, la complessità folgorante della storia; anche le materie scientifiche sono state attaccate e derubricate ad amorali sentenze tecniche. Una volta c’erano i medici, ora esperti finissimi di fegati, articolazioni e cellule: estranei l’uno all’altro, gonfi d’albagia, privi di colpo d’occhio, edaci, fondamentalmente ottusi. Stiamo entrando trionfalmente nel
regno universale del cretino 2.0, com’era facilmente preconizzabile. Una volta i cretini compivano gaffes, s’intestardivano sulle minuzie, volgari e iattanti, ora presiedono i consigli d’amministrazione. La mancanza di cultura li inorgoglisce a tal punto da ingenerare in loro la fregola del progresso inutile: ciarpame tecnologico, innovazioni dell’amore ecumenico, svilimento d’ogni istituzione, dalla scuola alla giustizia, delega a una non meglio definita intelligenza oltreumana. Un CEO qualunque, dilavato dall’apparire (i soldi, questa falsa pista), è quel che è: una macchina per l’autoannientamento dell’umanità.
Tessuto essenziale del sacrificio è il consenso della vittima. La pecora recata al coltello non deve essere renitente: pena l’invalidazione del sacrificio stesso. Ma c’è di più. Esempio: al sacrificio di massa ordito sotto forma di pandemia (e non parlo degli infartuati: non solo, almeno) occorreva il consenso: e così fu. Un consenso estorto con l’inganno? Può darsi, ma solo se lo si riguarda dalla nostra parte. In terra avversa l’inganno è sentito come del tutto naturale poiché agli eretici si può anche mentire. Ciò che avviene continuamente sotto i nostri occhi, in questi ultimi anni, non è che il dispiegamento delle norme insite in quel paradigma sacrificale di un mondo al contrario. Solo il “no” può sovvertire la sovversione ripristinando il giusto andamento degli eventi.
Soccorre, a tal proposito, il mito del re egiziano Busiride. Narra Apollodoro (Biblioteca, II, 5): “Costui [Busiride], obbedendo a un oracolo, sacrificava gli stranieri sull’altare di Zeus: per nove anni infatti la carestia aveva colpito l’Egitto, e Frasio, un indovino venuto da Cipro, aveva detto che sarebbe cessata se ogni anno avessero sacrificato a Zeus uno straniero. E Busiride uccise l’indovino per primo, e poi sacrificava tutti gli stranieri di passaggio”.
Gli atti di Busiride sono atti di sovversione dell’ordine naturale delle cose. Lo stesso Zeus è disgustato da tali sacrifici. E allora manda una vittima renitente, inadatta: Eracle. Il nuovo straniero da sacrificare è la fine di quell’orrenda inversione. “Anche Eracle fu preso e portato sull’altare, ma spezzò i legami e uccise Busiride e anche suo figlio, Anfidamante”.
La raffigurazioni ceramiche di tale mito sono ancor più chiare. Eracle reca il caos dov’era il caos ripristinando l’ordine. La scena raffigurata lascia intravedere la giusta furia del semidio e l’orrore dei carnefici: “L’ascia, il coltello, gli spiedi per arrostire gli splanchna sono accostati e confusi agli arredi sottosopra, al canestro per i grani (kanoun), ai vasi per l’acqua (hydria, chernips), per il vino (oinochoe) o per il sangue (sphageion), alla trapeza rovesciata: essi costellano una scena in cui la dimensione solenne dell’altare, con la pompe degli addetti al sacrificio e della vittima consenziente, ha lasciato il campo ad uno spazio concitato e caotico, costruito per associazioni incongrue, dove infuria la bie di Eracle, Busiride da officiante si trasforma in vittima immolata sul bomos schizzato di sangue e i sacerdoti egizi, come in una processione impazzita, scappano, gesticolando a perdifiato, lontano dall’altare”; e infatti “rilevante è il sistema di allusioni visuali imperniato sull’omologazione tra Eracle e l’animale da sacrificare, attraverso il quale si gioca su uno degli aspetti cruciali della thysia, rappresentato dal ruolo paradossale rivestito dalla vittima, da cui occorre ricevere il consenso di essere immolata” (Cerchiai).
Siamo qui a un punto fondamentale della postmodernità.
I rituali che ci impongono ogni giorno, tesi all’instaurazione del nuovo culto innaturale e universale, non possono che venire rovesciati da un atto esattamente contrario: Eracle si lascia recare bendato all’altare, quindi scatena la sua furia. Nessuno sfugge. É un massacro. Il sangue versato, però, ora macchia di nuovo un altare sacro. Eracle è il santo, recato dal dio a ripristinare il kosmos.
Chi crede di venirne fuori con le mani pulite s’inganna.
Alcuni bersagli più bersagliati dall’ultima controinformazione: Ilaria Salis, Carola Rackete, Mimmo Lucano, guardano i poveri diavoli dell’ultima controinformazione con indifferenza casual; eletti, ovviamente, neanche sanno loro davvero perché, eppure vincenti, e pronti al sontuoso andirivieni presso le inesistenti istituzioni europee. Anche
l’accabadora Elly Schlein, che vedevamo indurirsi e fare le scarpe ai caporioni pesaculo del proprio partito, è lanciatissima: a scorno dei controinformatori medesimi che vaticinavano una sua veloce dipartita. Forse nemmeno lei conosce intimamente la causa di tale successo, e però i motori del mondo hanno deciso di far girare queste girelle multicolori.
Il fallimento della controinformazione data non da oggi: nasce già bacata, infiltrata, sostanzialmente edonista e ridanciana. La devozione al “fatterello” in luogo di una rivendicazione di ciò che si è stati ha prodotto miliardi di post inutili la cui forza, soppesata sul bilancino della storia, è pari alla fuffa rinvenuta sotto letti e divanetti di casa. Combattere l’irrealtà del digitale che tutto falsifica e rende fungibile con i mezzi altrettanti fallibili del digitale non ha recato granché alla causa. Forse si dovevano analizzare le linee di tendenza fondamentali dello Spirito dei Tempi, di cui i fatti sono inessenziali germogli; forse occorreva preservare l’antico, la continuità storica, il nulla di troppo; sicuramente bisognava selezionare poiché il numero mai è forza, in tal caso. Uno dei maggiori malintesi giace proprio in tali pressi. Non sarà un caso che i social invoglino a fare l’esatto contrario? A estendere, cioè, la popolarità con continui ammicchi e like e calembour da osteria? Annacquando, così, la convinzione profonda a maggior forza di una fama meschina quanto fuggevole? Quante volte abbiamo visto, durante il manicomio dello svolgersi storico, un popolo spegnere la propria linea di sangue per le continue concessioni al nemico? Se il nemico ti sovrasta nessun compromesso ti basterà. Viceversa, rimanere fedeli al mito fondativo di un Paese, pur se questo appare risibile o sciocco, predispone a una resistenza accanita. Meno si è meglio si sta.
Tre studentesse veneziane fanno scena muta all’orale della maturità. Il gesto delle diciottenni avviene, ovviamente, in segno di protesta. Spiega la frontwoman della rivolta, una biondina dall’occhio ceruleo: “Ho deciso che non mi sottoporrò all’esame orale, non certo perché io ne abbia paura o perché non abbia studiato, ma perché non voglio accettare il vostro giudizio che non rispecchia il mio lavoro“. Le compagne Virginia e Lucrezia hanno poi seguito il suo esempio. Pare ch’Ella, la mutina intendiamo, da studentessa modello con la media dell’8 in greco, sia stata bastonata con un 3. Come tutta la classe. Pare. Voti umilianti. Cose che accadono. Anche quando si giochicchiava a pallone nell’ambito cittadino ci sembrava di spaccare il mondo. Poi la squadra scavallava fuori regione e si prendevano imbarcate da quattro a zero. Ma qui il singh singh nasconde tutt’altro: la scuola-coccodé, sviluppo penultimo e fondativo dell’estrema concessione al Nulla: l’abolizione tout court dell’educazione. Le apocalissi si compongono sempre di migliaia di ordinati e minuscoli disastri, in sé ridicoli.
“Hsiao-shuo” ovvero “discorsi da poco”, così leggo in un simpatico volumetto d’altri tempi, del giudizio riservato dai Cinesi alla narrativa. Compitata per svago e subito negletta, com’è giusto che sia. Invece qui siamo alluvionati dalla narrativa, fantastica o saggistica o moraleggiante; dalla prosa, in effetti, dacché tutto è prosaico, didascalico, pronto a essere facilmente trangugiato. Le serie TV angloamericane hanno intossicato il rapporto che alcuni uomini di buon gusto intrattenevano con l’arte; spiegano ogni passo, continuamente; riassumono, particolareggiano, ritornano sui passi già compiuti, con fare inesausto quando, invece, l’elevazione estetica è proporzionale al non-detto poiché la scrittura brucia fieramente i rapporti di causa-effetto giocando su suggestioni abissali: spesso celando tale allusività sotto un costume formale assai semplice o di preziosità apparentemente stucchevole.
Il Nuovo Ordine nasce con l’abolizione graduale della poesia e l’istituzione del romanzo. Tramontano gli eroi, l’epica, la metafisica, il simbolo che lega la terra all’infinito, la cesellatura concettuale dell’amore: incipit dissolutio. Irrompe il realismo, ancora, però, soggiogato dai caratteri della commedia universale: l’avaro, il ricco, l’Arlecchino, la fanciulla indifesa; quindi la lingua si sfilaccia rinunciando gradatamente al ritmo e alla profondità verbale per farsi dialetto autoreferenziale; seguono i personaggi, macerati nell’aceto di un quotidiano sempre più trito. Si addiviene a una nuova universalità, piatta, squallida, coprolalica oppure goffamente sperimentale. Saltano i piani temporali, si ripudia anche l’accenno all’euritmia. Per la prima volta ci si pone il problema dell’originalità: se prima il mito era un calco inesauribile su cui modellare l’identica storia infinite volte, ora, definitivamente allontanate quelle matrici, per smuovere il pubblico e la trama si deve continuamente rilanciare lo scandalo, l’inversione, lo sciocco controsenso. La satira diviene dileggio, la tragedia una serie di incidenti sfortunati, la commedia una sequela di battute più o meno di spirito.
Il mito o il simbolo sono la vita. Nel tempo tutte le disperazioni del mondo, la gioia, la sottile malinconia hanno formato tali concrezioni vertiginose: a esse si doveva pur sempre riandare per creare, universalmente. Ora, invece, l’ispirazione è sempre solitaria. L’artista è solo. Per questo istintivamente egli non piace, o addirittura fa ribrezzo; deve condannarsi a un épater le bourgeoise sfiancante oppure assoldare e delegare a legioni di critici la bontà delle sfiatate sue stravaganze: a forza di chiacchiere pubblicitarie, mascherate da saggi, interviste, marchette. “
Un’opera digitale di crypto art, intitolata ‘The last 5000 days’, e costituita da monumentale file jpg, è andata all’asta da Christie’s. Il martello del battitore della celebre casa d’aste si è fermato a a oltre 60 milioni di dollari, una cifra da primato che fa del suo autore il terzo artista vivente più valutato del mondo dopo Jeff Koons e David Hockney. Il prezzo supera quello di dipinti di Frida Kahlo, Salvador Dalí o Paul Gauguin. Circa 22 milioni di persone si sono collegate al sito di Christie’s nei momenti finali dell’asta, cui partecipavano potenziali acquirenti da undici paesi diversi. Il compratore ancora anonimo che l’ha acquistata ha finito per pagare 69,3 milioni di dollari compresi i diritti d’asta per l’opera di Beeple, (vero nome Mike Winkelmann), un 39enne illustratore del Wisconsin che si è costruito milioni di seguaci sui social grazie a progetti commerciali per pop star come Justin Bieber e marchi come Louis Vuitton e Nike. L’opera in questione è interamente digitale: un collage di 5.000 immagini create e postate dal 2007 al 2021, con scene surreali e disegni di politici come Donald Trump e Mao Tse Tung accanto a personaggi dei cartoni da Topolino ai Pokemon. La vendita segna l’apice della crescente frenesia per i Nft (non fungible token), una forma di opera digitale registrata su blockchain con un token che verifica il legittimo proprietario e l’autenticità della creazione”. Ovviamente nessuno mai dirà spontaneamente che tale opera è “bella”; qualcuno ripeterà, forse, la stupida idiozia dell’arte quale investimento; qui, però, non esistono compratori, spettatori o sponsor né tantomeno dazioni di danaro; Pokemon, Louis Vuitton, token, blockchain … la frode non teme più l’esagerazione ridicola, a quanto pare … sono indotto a credere, peraltro, che non esista nemmeno Beeple. La verità è che tutto viene orchestrato
unicamente per distruggere, per sdilinquire la forza del gusto … per far sì che menti, occhi e lingue apprezzino l’inapprezzabile; così come il McDonalds’ esiste solo per togliere all’umanità il discernimento dei sapori: fichi e ciliegie, carne e uova fresche, frutta di stagione; e per liberarsi di quelle sovrastrutture civili che da sempre hanno accompagnano il desinare, dalle stoffe alle posate sin al piacere della conversazione. Magari un giorno verrà fuori che il McDonalds’ altro non fu che un’operazione psicologica su larga scala. Il Nulla ama nascondersi; la natura della distruzione si cela agli
“ochi nostri tenebrosi“.
A cosa abbiamo rinunciato? A comprendere intimamente tale chiusa, a esempio:
All days are nights to see till I see thee
And nights bright days when dreams do show thee me
(Tutti i giorni sono notti finché non vedo te
e le notti giorni luminosi quando in sogno mi appari)
Pappus, maschera della commedia atellana pre-plautina, riserva verità inossidabili. Di tale genere teatrale rimangono a noi solo frammenti e schegge. L’ambito è sicuramente popolaresco, a volte grassoccio. Pappus si presenta alle elezioni, è bocciato. Allora sentenzia: “É questo il costume del popolo, oggi ti va contro, ma t’appoggerà domani”. Non si butta mai via niente. Lionel Jospin, qualcuno lo ricorda? Boris Johnson, idem? Illusero gli elettori, poi scomparvero. Eppure son sempre lì, a calibrare da decani dell’inganno le oscillazioni della finta alternativa. Una volta si vince, un’altra si perde, oggi tocca a me, domani a te, l’importante è tenere la barra al centro, l’unico centro, sentiero segreto e fatale per il popolicchio.
Sinistra e destra non esistono se quali indicazioni topografiche. “Dov’è via Claudio Regeni?” “Prosegua sino alla piazzetta, poi la seconda a sinistra”. “La toilette, per favore”. “Il corridoio, prima porta a destra”. Così va bene. Già per i personaggi novecenteschi le categorie risultano fuorvianti. Mussolini era di destra? O socialista? Era di destra, ci ha portati in guerra! Come Obama e Clinton. Lasciamo stare. San Pio V ordì le flotte di Lepanto contro gl’Infedeli. Era di sinistra o di destra? Oriana Fallaci si ispira a lui? Erdogan è di destra? Assurbanipal fu nazista? Annibale Barca un migrante?
Qualcuno si chiede ancora cosa sia stata l’America. Nient’altro che un golem per annientare le civiltà. Gli Europei più bellicosi e vitali sono stati precettati e poi minchionati da una serie di precetti che colavano giù dall’Illuminismo: quasi tutti reinterpretati in senso pedestre e sciocco, da mercatino dell’usato delle migliori sorti e progressive. La libertà, il self made men, l’avvenire … ché se vuoi intortare qualcuno gli devi far balenare il ghiribizzo della crescita continua … del limite fichtiano da superare costantemente … per arrivare sempre più lontani, nel West, nelle Americhe del Sud, a Cuba, nell’Europa decadente, sulla Luna … a inghiottire ogni cosa, a triturarla … e abbattere finalmente la fastidiosa civiltà, italiana, ungarica, mesopotamica, afghana, qualunque essa fosse … per riprogrammare il mondo su basi meschine: il diritto alla felicità, nientemeno … quando è noto che l’uomo che anela alla felicità e alla pace prepara inevitabilmente ecatombi e inferni senza scampo. Gli Europei vennero risucchiati da questa landa vergine, accecati dal sangue e dall’oro e poi rivolti alla distruzione delle proprie radici … se non ci fosse da stracciarsi le vesti ci sarebbe da ridere amaramente, per intere giornate. E pensare che c’è ancora qualcuno che riconosce a tali poveretti la nobiltà della democrazia … una serie di cianfrusaglie edoniste e libertine equivocate fra strepiti biblici.
I giovani, i giovani. S’intenda: gli Eloy oggi sui trenta. Anche coloro che escono da una famiglia ancor integra sono destinati al ruolo di carnefice. Delle generazioni successive, di sé stessi. Alcuni sono educati, persino gentili. Eviscerati, però, d’ogni moto e irruenza e, in fondo, di qualsiasi anelito d’empatia. Hanno persino paura delle passioni, riguardate quale sentimenti estremi e nocivi. Privati del rapporto con la sfera celeste, impossibilitati alla metafisica, non possono che guazzare nel sottobosco dell’esistenza. Meno intelligenti, quindi, poiché privi della capacità d’astrazione somma, forse più tecnicamente scaltri, essi rivelano, a ben interrogarli, un sottofondo di freddezza che equivocano come cinismo. È proprio quest’ultimo elemento, forse un residuo degenerato dell’accorto familismo italiano, a perderli del tutto sino a relegarli nei bassifondi dell’anima. Qualsiasi gesto di magnanimità o larghezza, quel sacrificio spesso gratuito con cui si sferzava il volto di Mammona, per loro è impossibile. Non riescono a concepirlo. Anche i più poveri Cristi delle epoche passate passeggiavano arditi per gli ambulacri d’un tempio morale da cui potevano riguardare le stelle; e oggi? Nell’era dell’infinita libertà, i cosiddetti giovani sono costretti entro spazi fisici e spirituali sempre più ridotti, come il prigioniero di Edgar Allan Poe ne Il pozzo e il pendolo: in alto le oscillazioni della mezzaluna d’acciaio, poi un tetto e pareti mobili e istoriate di ferro incandescente che si restringono per indurre la vittima a cadere nel centro del cubicolo, ov’è il pozzo fatale: “Mi ritrassi dal metallo rovente verso il centro del carcere. Di fronte al pensiero della morte per fuoco che incombeva, la frescura del pozzo mi venne incontro come un balsamo … Se prima la stanza era quadrata … adesso era una losanga … [che] si appiattiva sempre più a una velocità che non mi dava tempo di riflettere. Che stupido! Non avevo capito che lo scopo del ferro arroventato era appunto di spingermi lì dentro … la losanga si appiattiva sempre più, a una velocità che non mi dava tempo di riflettere …. Il centro, punto di maggiore ampiezza , corrispondeva al baratro …”. Chiediamoci cos’è questa censura PolCor se non pareti e tetti incandescenti che inducono a negare il giusto e ritrarsi verso il pozzo della dissoluzione. Alle generazioni Z hanno apparecchiato la miseria spirituale, il cubicolo e il suicidio, ed essi vanno incontro al coltello incoronati di edere profumate, il manto candido, cantando le litanie funebri col sorriso sulle labbra: nulla turba la scena sacrificale.
I filmini hot svedesi: con le donnine discinte. I giornalini per le prime masturbazioni adolescenziali: Sukia o Corna vissute. I proto-pornomovies, popolati da casalinghe col ventre flaccido e idraulici irsuti. E via via spostando i limiti, sino alle superprestazioni degli attori più leggendari: membri di trenta centimetri, vagine disposte ad accogliere l’oggettistica più fantasiosa; ancora organi di pertinenza umana, tuttavia: d’un proprietario identificabile, chiunque esso sia. E poi? La dissoluzione reclama sempre l’estremo: depilazioni, snaturamenti d’ogni ordine e degrado, umiliazioni sadomasochistiche, sodomizzazioni cavalline, compenetrazioni di carni indifferenti come nell’orgia finale di Society. Vade ultra: pezzi di corpo completamente svincolati dall’unità vitruviana e usati quale fonte di piacere bestiale, a rinvigorire un’eccitazione che si anima solo col delitto.
La pornografia in questi decenni non s’è limitata a educare un pubblico sempre più ottusamente lascivo nei propri recinti, ma (questo è il punto centrale) ha ceduto lentamente, per una dolosa osmosi regolata dall’alto, parte del proprio immaginario a campi apparentemente innocui del vivere quotidiano, a partire dalle pubblicità, invasive e deliranti. Le menti sono state riprogrammate secondo un’estetica posticcia e inumana che deride la ritenutezza, le convenienze e ogni spirito di altruismo: momenti oramai intesi dai più quale superata e trita consuetudine. L’effetto è stato quello di rendere impossibili i rapporti fra uomo e donna, e ogni sorta di rispetto reciproco. Le donne sognano Rocco Siffredi, magari in Lamborghini, stomacate dai brevi amplessi matrimoniali; i maschi, specie i più giovani, anelano addominali piatti e quarte misure; i risultati di tale rincorsa all’efficientismo sessuale e al giovanilismo più idiota e volgare consistono nella foia ginnastica, a volte addirittura polimorfa, o nella solitudine oppure nel refugium cinaedorum, per maschi e femmine, in cui ci si illude di trovar requie e anime gemelle. Il digitale, poi, incitando alla deformazione della persona, dissolve ogni limite aprendo alla parodia morale ed estetica in cui sono istericamente dileggiati il riserbo e un pur pallida severità di costumi. Per tutti il suicidio è dietro l’angolo, sotto forma di chirurgia deviante, autosoppressione, edonismo nerd da cubicolo.
“Quanto sei bella!
Mi metti soggezione, mi fai battere il cuore come un collegiale.
Che rispetto vero, profondo, comunichi.
Claudia!
Di chi sei innamorata? Con chi stai? A chi vuoi bene?“
E Claudia risponde: “A te!“
Così il dialogo tra Guido Anselmi-Mastroianni e Claudia Cardinale nell’eccezionale scena notturna di 8 1\2.
Ancora Anselmi: “Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo? Di scegliere una cosa, una cosa sola, e di essere fedele a quella. Riuscire a farla diventare la ragione della tua vita. Una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto, proprio perché è la tua fedeltà a farla diventare infinita“.
La devozione, l’amore. Giusto.
L’agape.
Ma Guido, come ripeterà poi Claudia per ben tre volte, non sa voler bene. Egli, infatti, avido di giustificazioni basate sul cinismo e la scepsi (di sé stesso afferma che vuole arraffare tutto, e che più non crede a nulla), rifiuterà la donna salvifica. Reificato, incapace di larghezza d’animo, piccolo, intrappolato in vane fantasie sessuali di dominio, immemore; il senso di colpa si scarica nella nostalgia, i tempi dell’anomia lo conducono al massacro.
Scomparsi i codici di comportamento secolari, gli amori più perfetti paiono ancora quelli non corrisposti; o quelli impossibili, che fa lo stesso. L’incompiutezza preserva dai prosaici andirivieni, e dal ribrezzo che instilla il quotidiano, oggi addirittura impervio per un cuore semplice. L’amore di tal fatta sbiadisce dolcemente nel ricordo eppure continua a scorrere come un fiume carsico. A volte riappare in superficie; stupisce, con l’intatta sua ansia bruciante. Un volto, un gesto. La memoria cancella alcuni tratti, ne magnifica altri. L’oggetto amato così viene a depurarsi ancor più dalle scorie della contingenza. Si avvera, cioè, la mirabile metafora dei trovatori per cui l’amante, dopo essersi dissetato a pozze d’acqua sempre più alte e pure, arriva alla fonte perfetta, che reca vita immortale. La sublimazione è compiuta. I maggiori canzonieri europei sono popolati di tali fantasmi esistenziali.
Il vermocane, causa climate change, insidia le calcagna dei bagnanti italiani. E sarà sempre peggio, commenta il solito competente trovato chissà dove, eppure esperto, espertissimo, gonfio di scienza infusa in qualche postribolo universitario che fa la bella vita coi fondi delle multinazionali. Aliis verbis: inconfutabile. Ovviamente sono tutte panzane. Mi piacerebbe sapere quale venduto escogita questi ballon d’essai: cretini, insensati, volgari e, perciò, efficacissimi. L’assonnata Hermodice carunculata, trasformata in immanis belua, acquatica e mutante: verme, poiché striscia nell’ombra, alla stregua d’un assassino, viscida come il patriarcato; cane, e per di più rabbioso, dacché morde, con le setole sue capaci di iniettare una micidiale neurotossina. La cretina col tatuaggio, il trippone dall’occhio torbido non hanno nemmeno bisogno di comprendere: il flatus vocis “vermocane” aggredisce da subito il micco impressionandolo profondamente. “Stai attento al vermocane!”, “Sharon, tieniti vicino alla spiaggia che potrebbe esserci il vermocane” oppure “Madonna, e chi si bagna più, non hai letto del vermocane?”; i media, specie quelli che fanno finta d’essere outsider, son ridotti a sequele di tali provocazioni puerili. Decine, centinaia, migliaia. E la suggestione agisce, come un tarlo, poiché ognuno ha abolito il passato e ogni altro ammortizzatore tradizionale e psicologico in grado di relegare la notizia a spazzatura. Chiunque abbia frequentato le spiagge in tempi ancora umani, ricorda un conoscente toccato da una medusa, un riccio o un’attinia: mal di testa, gonfiori, e si tornava nuovi. E però ormai il popolicchio si controlla così.
Riprogrammazione. Sostituire un ventaglio di credenze e comportamenti millenari con regolette da asporto: mission accomplished. Titola una gazzetta ingannevolmente populista: “Badanti e famigliari degli anziani bisognosi: arriva a Treviso un corso per ‘imparare’ l’empatia”. E poi: “Un corso per creare empatia tra badanti e famigliari degli anziani. A proporre questo originale iniziativa di formazione è l’associazione ‘Famiglie Rurali’ di Vittorio Veneto … presieduta da Alessandro Toffoli con il finanziamento di Banca Prealpi San Biagio (l’istituto di credito cooperativo con sede a Tarzo, parte del Gruppo Cassa Centrale) in partnership con la Caritas, la cooperativa sociale ‘Assixto Prealpi Assistenza’ e l’Ulss 2 del distretto di Pieve di Soligo”.
L’empatia, par di capire, si insegna; dopo un corso in cui il candidato potrà mettere alcune crocette su questionari a quadratino e addivenire a una maggiore comprensione della merda nel pannolone. La ridda stregonesca è completa: una banca, il cascame rinsecchito d’un cattolicesimo defunto, la cooperativa “sociale” e l’immancabile “azienda di stato”: ASL o ULSS, quella che conteggia femori, pancreas e mazzette ordinandoli secondo la partita doppia. Carità e compassione li inventano loro, a Pieve di Soligo e Vittorio Veneto, prima non esistevano. Quel sentimento inestirpabile e sorgivo che fa disprezzare l’utile, in ogni sua forma, per un atto che nulla chiede in cambio, la carità, era – secondo loro – sentimento sconosciuto nei secoli addietro; ora, modellata per non essere sconveniente coi tempi apocalittici, è finalmente fra noi e si fa chiamare Caritas. In tal modo viene a salvarsi sia il relitto di Dio che la grassa Mammona; un bel pernacchio di sfregio a Luca 16,13 è nell’aria, ma pazienza.
Una gazzetta qualsiasi: “L’episodio surreale è avvenuto lunedì mattina davanti al Muro della Gentilezza, gestito dal Tempio del Futuro Perduto. Questo centro culturale, vincitore nel 2023 del bando comunale per l’uso degli spazi abbandonati dell’ex Fabbrica del Vapore, distribuisce quotidianamente abiti e generi alimentari ai bisognosi”. Pare che alcuni crucchi abbiano dato un paio di schiaffi omofobi ai soci di tal “Muro della Gentilezza”. Esamino la questione dal punto di vista psicostorico, sociale, sociostorico, psicosociostorico e non trovo risposte. L’unico elemento degno di analisi in tale ulteriore Singh Singh è questo: “bando comunale”. Protocolli di collaborazione, bandi comunali, bandi regionali, finanziamenti … nulla si dà via gratis, e la bontà, in fondo, è solo merce come un’altra, stipata in comode confezioni lacrimevoli; sottovuoto.
Mi reco a vedere i ruderi degli acquedotti romani, su via Tuscolana, nella parte prossima a Santa Maria Ausiliatrice. Il filare di venti metri d’altezza (il ciclopico tracciato dell’Aqua Claudia cui si sovrappongono il più modesto Anio Novus e il cinquecentesco Acquedotto Felice) è tuttora imponente, ben conservato nella struttura che, da lontano, con il sole di luglio che ne scialba i contorni, illude di una propria intima, omogenea, consistenza. Ma, a riguardare da vicino, quella massa si scompone in parti e stratificazioni che ne fanno un composito prodotto dell’affaccendarsi dei secoli. Goethe di fronte a essi poteva esclamare, superficialmente: “
Questi uomini lavoravano per l’eternità. Quale grande e nobile scopo è quello di abbeverare un popolo mediante un monumento così grandioso!”. Questo poteva valere per l’Aqua Claudia, maestosa nell’armonia delle arcuazioni, nei possenti piloni che affondano per metri nel terreno, negli squadrati blocchi di tufo chiaro; nella forza che infonde la semplice idea di trasportare acqua in tale modo, dissanguando una serie di fonti lontane sessanta chilometri da Roma. Sessanta! Eppure tale età dell’oro si rinviene qui solo a tratti. In più punti gli originali blocchi di tufo sono sostituiti dai restauri in peperino grigio; in altri la luce degli archi si riduce a causa dei sottarchi in laterizio di epoca adrianea; la raffinata linea dell’acquedotto, poi, è rovinata da goffe tamponature in mattoni e opera listata, forse del V secolo. Il rozzo impianto dell’Acquedotto Felice, che buca le intelaiature claudie al livello dei sottarchi, reca ulteriore declino estetico. Ingegneri e operai del 52 d.C. costruirono una meraviglia, i posteri rappezzarono alla meglio. Nonostante la reverenza che inevitabilmente sento di tributargli, avverto nel monumento la sensazione d’una decadenza, inarrestabile. Esso rassomiglia alla gigantesca statua del Veglio di Creta di cui narra Dante, “
metafora del regresso universale, di cui rimane, in oro, la sola testa; il resto si consuma lentamente trasformandosi in materia sempre più vile: argento, a modellare braccia e petto, rame sino all’inguine e, quindi, ferro; il piede destro è, invece, di volgare terracotta, instabile fermo su cui poggia l’immane colosso”.
Perché tale la verità.
Non siamo migliori, siamo ben peggiori di ieri, addirittura caricaturali rispetto all’altro ieri. Illuderci di progredire, d’essere avanzati sino alla felicità dopo aver liquidato la civiltà, questo il velo di Maya da cui liberarsi. Nessuno, dico nessuno, può arrogarsi il diritto, su nessuna base logica, di ritenersi “migliore”. Un vasaio di Corinto o un tabulario etrusco vantavano un’esistenza più compiuta e piena della nostra, inservibile, disperante e meschina. Per tacere dell’intelligenza. Sempre ebbero ragione i reazionari, come Leopardi, o Gomez Davila, a dileggiare l’attualità e le anime belle o le sovrumane utopie: che oggi ci restituiscono la cenere delle proprie ambizioni spacciandola per successo. Si è bruciato tanto, distrutto quasi tutto, umiliata la nostra parte migliore. Ci resta poco, qualche traccia, e la Natura Indifferente, nostra amica, fra cui s’agita benigna la Morte.
Nell’ora perfetta, la luce dell’estate si strugge dolcissima nella sera. Cinque falchetti rigano il cielo sopra di me, ora dell’azzurro più intenso.
Nulla turba la perfezione irriflessa delle loro traiettorie.
Di Alceste