DI MARK WEISBROT
guardian.co.uk
Agli economisti piace ripetere che nessun pasto è gratis – era perfino il titolo di un libro di Milton Friedman del 1975. Ma talvolta i pasti gratis esistono – in un’accezione particolarmente significativa – e questa è una di quelle volte, per tanti paesi che soffrono a causa di una disoccupazione non necessaria e, in alcuni casi, per la recessione.
Adam Posen si rifiuta di riconoscere che è quel che accade nel Giappone di oggi. Posen è il presidente del Peterson Institute for International Economics, che è probabilmente il think tank più influente di Washington riguardo l’economia internazionale. Posen non è un economista “austriaco” – nella seconda metà degli anni 90 era favorevole a una politica fiscale espansiva in Giappone [1], e più di recente, come membro del Monetary Policy Committee della Banca d’Inghilterra dal 2009 al 2012, a una politica monetaria espansiva, incluso l’alleggerimento quantitativo e tassi di interesse molto bassi.
Vale quindi la pena di esaminare i suoi argomenti, perché potrebbero aiutarci a capire come a volte il pensiero dominante tra gli economisti possa risultare un ostacolo a una ripresa economica globale, così come per importanti obbiettivi sociali quali la riduzione di disoccupazione e indigenza.
Il governo giapponese, presieduto da Shinzo Abe, ha annunciato di recente un ampio programma di stimolo per l’economia; non è chiara la sua esatta portata, ma quello che il governo cerca di ottenere è un aumento del tasso di crescita del PIL di circa il 2%. Sembrerebbe una buona idea, dato che l’economia giapponese si trova attualmente in fase di recessione, e l’economia mondiale, destinataria delle sue esportazioni, è anch’essa in cattive acque. In Giappone l’inflazione è attualmente negativa, il che vuol dire che il governo può creare la valuta destinata allo stimolo senza doversi preoccupare di incrementare l’inflazione. Di fatto è la deflazione a essere seriamente preoccupante, e il governo desidera che la banca centrale miri a un tasso di inflazione del 2%. (La deflazione tende a scoraggiare i consumi, perché ci si aspetta che i prezzi siano più bassi in futuro; e scoraggia gli investimenti, perché gli investitori prevedono per il futuro una domanda incerta, soprattutto con un’economia già in recessione).
È questo che intendo per pasto gratis. Per dirla tutta, è un pranzo gratis di cinque portate, incluso il dessert. Alla banca centrale creare il denaro per i piani di spesa del governo non costa nulla; e qualsiasi aumento dell’inflazione ne dovesse derivare, in realtà sarebbe di aiuto per tirare fuori dalla crisi l’economia giapponese. Significa anche che il governo non dovrebbe aggiungere nulla al suo debito netto – per cui non ci sarebbe alcun futuro aumento del debito pubblico.
Ma Posen sostiene che il momento di applicare simili idee è ormai passato. Ecco il cuore della sua argomentazione:
“Riempire i bilanci delle banche di buoni del tesoro ha inibito i prestiti commerciali da parte di quelle stesse banche – perfino durante la ripresa del 2003-2008 – il che ha danneggiato lo sviluppo di imprese nuove e di piccole dimensioni. Gli interessi sui titoli giapponesi, costantemente bassi, hanno ulteriormente deteriorato le opportunità di investimento, generando di conseguenza un circolo vizioso insieme alla deflazione e all’ostilità nei confronti del rischio [di investimento] dei risparmiatori tradizionali. La mancanza di pressioni esterne ha alimentato la sinergia tra il diuturno apprezzamento dello yen e la stagnazione dei profitti nella Borsa giapponese, entrambi portatori di pessimi influssi sull’economia. I necessari investimenti pubblici e i fondi per la sanità e le [recenti] calamità sono stati messi da parte in favore del pagamento del debito (…)”
Trovo difficile da credere che i pagamenti del debito giapponese stiano emarginando la spesa pubblica, tanto meno gli investimenti nel settore privato. Al netto, gli interessi pagati sul debito pubblico giapponese equivalgono a meno dell’1% del PIL (incidentalmente, questo vale anche per gli Stati Uniti, lo dico per i miei concittadini afflitti da debito-fobia). È una percentuale alquanto minuscola. Mi trovano scettico anche gli altri problemi che Posen attribuisce all’aumento del debito, cioè il continuo apprezzamento dello yen e i bassi profitti di borsa. Per questi fenomeni le cause sono molteplici, il che vale anche per la quantità dei prestiti commerciali irrogati dalle banche – che verrebbe più probabilmente limitata da un’economia debole piuttosto che dalla spesa pubblica.
Sia come sia, è difficile capire come un nuovo programma di stimolo, finanziato dalla creazione di valuta, possa esacerbare alcuno di questi problemi – perfino se un simile effetto potenziale fosse possibile – dato che non si sommerebbe al debito netto del paese e non ridurrebbe la capacità delle banche di irrogare prestiti.
E una parte importante dello stimolo è diretta ai “necessari investimenti pubblici” e alla ricostruzione post-calamità, cose che Posen teme vengano accantonate a causa del debito pubblico.
Dal punto di vista del pubblico interesse, l’unica preoccupazione che un simile programma di stimolo dovrebbe suscitare è l’eventualità che il denaro venga speso male, ad esempio per attività che distruggano il territorio invece che ripristinarlo; oppure, secondariamente, se il governo volesse finanziare lo stimolo con denaro pubblico [già in circolazione], invece che per mezzo della Banca Centrale (cioè il pasto gratis).
Posen sostiene inoltre che lo stimolo non rimedierà al “vero problema” del Giappone, che consiste in “un ritorno alla deflazione e a una valuta sopravvalutata”. Ma è più probabile che questi problemi vengano attenuati dallo stimolo, piuttosto che il contrario. In effetti, come sottolineano alcuni reportage:
“Le attese per un aggressivo alleggerimento quantitativo e una Banca del Giappone più intraprendente da quando Abe, che è stato primo ministro nel 2006-2007, è tornato al potere, hanno scatenato nei mercati giapponesi una corsa al rialzo.
L’indice nipponico dei titoli, il Nikkei 225, è salito di più del 20% da metà novembre, mentre lo yen è calato grosso modo dell’11% per via dell’annuncio del massiccio alleggerimento quantitativo. Il venerdì successivo alla messa in opera del pacchetto di stimolo il Nikkei ha raggiunto un nuovo record mensile del 23% di aumento.”
Vorrei inoltre manifestare il mio dissenso di fronte a una particolare “falsa equivalenza” riguardo ai pretesi pericoli dello stimolo fiscale (che in questo caso riguarda un’economia in deflazione conclamata) contrapposti all’austerità, in un momento in cui non solo il Giappone ma anche l’Europa è in recessione, e gran parte dell’economia mondiale è debole e suscettibile di peggioramento. Posen scrive:
“Insistere su politiche fiscali che non riescono ad adattarsi alle condizioni cicliche di cambiamento, comporta danni a lungo termine. La cosa rimane vera sia che un governo sbagli per un eccesso di austerità, come fa ultimamente l’Europa, sia per un’ingiustificata mancanza di disciplina, come fa il Giappone dai tempi della sua ripresa di dieci anni fa. (…) L’Italia, il Regno Unito e gli Stati Uniti dovrebbero guardare con timore ai danni strutturali che subirebbero seguendo l’esempio giapponese, se la fine dell’ ‘espansione fiscale
non viene sincronizzata con la ripresa.”
Ma la ripresa statunitense è troppo tenue; al ritmo odierno ci vorranno più di dieci anni per ritornare alla piena occupazione. Questo è inaccettabile. Quest’anno si prevede una crescita dell’economia mondiale del 3,6%, rispetto al 5,1% del 2010. L’esempio del Giappone dovrebbe essere imitato da qualunque paese abbia la capacità economica di farlo, inclusi gli Stati Uniti e l’Eurozona.
Mark Weisbrot è economista e co-direttore del Center for Economic and Policiy Research. È autore, insieme a Dean Baker, di Social Security: the Phony Crisis.
Fonte: www.guardian.co.uk
Link: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/jan/22/shinzo-abe-quantitative-easing-japan
22.012014
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DOMENICO D’AMICO
Nota del traduttore
[1] Grosso modo, una politica fiscale espansiva comporta l’aumento della spesa pubblica per stimolare l’economia. Nelle righe successive si parla di “politica monetaria espansiva”, che mira allo stesso scopo aumentando la disponibilità di risorse finanziarie (tramite l’alleggerimento quantitativo, cioè l’emissione di ulteriore valuta, o prestiti meno onerosi). La cosiddetta “scuola austriaca” cui si accenna poco più sopra è radicalmente contraria, non per motivi empirici ma per principio, a qualsiasi intervento “esterno” sul sistema economico.