di ALESCO
È una giornata grigia e piovosa; mio figlio è a scuola, e la nostra giornata seguirà la solita routine. Sessant’anni fa, qui a Milano, c’era parecchia gente che pensava la stessa cosa. A torto.
La calda estate del 1944 aveva portato i suoi frutti: dopo l’attentato gappista del 9 agosto, a Milano la situazione si era fatta, se possibile, ancora più delicata. La tensione era alle stelle: lo scontro tra fascisti e partigiani si limitava a un sanguinoso stillicidio in periferia e in provincia, ma la città era oggetto di ripetuti attacchi aerei anbgloamericani che impedivano lo svolgimento di una quotidianità accettabile benché segnata dalle contingenze belliche. Milano, infatti, era sede delle maggiori industrie metalmeccaniche dell’epoca — Breda, Falck, Marelli, Alfa Romeo —, e questo ne faceva il bersaglio privilegiato dell’offensiva alleata. Va da sé che i bombardamenti non colpivano soltanto gli insediamenti produttivi: all’epoca le bombe intelligenti non erano ancora state inventate, e gli aggressori dovevano fare affidamento unicamente sulla perizia dei piloti e sull’attendibilità delle mappe militari. Così, nel mirino dei bombardieri caddero anche la Galleria Vittorio Emanuele, il teatro alla Scala, scuole, ospizi e un cospicuo numero di edifici residenziali.
In questo panorama d’incertezza e di angoscia, la giornata di venerdì 20 ottobre 1944 segna l’apice della brutalità terroristica messa in atto dagli angloamericani: quel giorno la criminale leggerezza di un pilota americano fece una strage di bambini — un eccidio gratuito, o forse un altro tassello nella politica genocida che gli Stati Uniti perseguono da sempre.
Nonostante la guerra, infatti, ci si sforzava di proseguire una vita il più possibile simile alla normalità: le scuole funzionavano regolarmente e l’anno scolastico era iniziato secondo le modalità consuete. E in quella bella mattina di sole, nell’autunno milanese che sa essere così dolce, la scuola elementare “Francesco Crispi” a Gorla era gremita di scolaretti. Tutti i bambini del quartiere erano in classe: ma nessuno di loro avrebbe più fatto ritorno a casa.
Perché nelle prime ore di quella mattina — esattamente alle 7.58, mentre i primi allievi della “Crispi” arrivavano a scuola, dove già si trovava il personale docente e non docente —, tre squadre di bombardieri angloamericani B24 e B27 erano partite da Foggia alla volta di Milano: la loro missione consisteva nell’attaccare gli stabilimenti Breda, al confine tra la città e Sesto San Giovanni, sulla direttrice del viale Monza, e la stazione ferroviaria di Greco, nelle immediate vicinanze. Gli apparecchi procedevano senza scorta — non ce n’era bisogno: a Milano la contraerea taceva, e la Germania di Hitler aveva deciso di ritirare le proprie unità aeree dai cieli italiani già dall’estate del 1943, come prima e diretta conseguenza dell’arresto di Mussolini (25 luglio) e dell’armistizio separato voluto da Badoglio e firmato a Cassibile l’8 settembre di quell’anno. Anche i caccia italiani dell’ANR (Aviazione Nazionale Repubblicana) erano troppo pochi per allarmare i piloti del “bomb group” incaricato di compiere la sua missione criminale su Milano. Dopo un largo giro, alle 11.20 gli aerei si trovarono sulla verticale di Saronno, dove la prima squadra dovette liberarsi del suo carico prima del previsto, per un “inconveniente tecnico”: le sue bombe finirono in aperta campagna, senza provocare danni, e il team finì fuori gioco.
Le altre due squadre, intanto, erano arrivate in prossimità del bersaglio: la prima, seguendo la rotta esattamente calcolata di 118 gradi, colpì le officine Breda; contemporaneamente, il comandante della seconda si rese conto di essere su una rotta di 140 gradi, con un divario di 22 gradi ormai impossibile da correggere. A questo punto, si trovò di fronte a una sola alternativa: proseguire sulla rotta di 140 gradi, il che lo avrebbe portato a raggiungere la campagna del Cremonese, dove avrebbe potuto sganciare il suo carico di morte nei campi; oppure liberarsene subito facendolo cadere sul centro abitato, anche se sotto di lui non c’erano obiettivi militari ma solo strutture civili, perfettamente visibili grazie alle favorevoli condizioni meteorologiche — niente foschia e niente nubi. Con leggerezza criminale, si diceva, o forse con la consapevolezza di creare ugualmente un danno gravissimo (secondo recenti ricostruzioni), optò per la seconda soluzione.
Dopo tre minuti, alle 11.24 esatte, Gorla — un quartiere popolare, densamente abitato — divenne un inferno: case, negozi, officine vennero devastate dalle esplosioni, che causarono in tutto 703 morti e 481 feriti, nonché la distruzione di oltre 300 stabili adibiti ad abitazione.
Ma una bomba più delle altre provocò una straziante carneficina che avrebbe cambiato per sempre la vita del quartiere, svuotandolo del suo futuro e delle sue promesse di giovinezza: un ordigno del peso di almeno 250 chili centrò in pieno la scuola elementare “Francesco Crispi” proprio mentre tutti gli scolaretti stavano scendendo nel rifugio; la spaventosa deflagrazione sventrò completamente l’edificio, seppellendo sotto le macerie 232 bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni e il personale scolastico. Nel crollo morirono 174 bambini, la direttrice, 14 insegnanti, 4 bidelli e un’assistente sanitaria.
Immediata fu l’azione di soccorso, messa in opera da squadre di militari e civili coadiuvate dai superstiti fra il personale scolastico: si scavò freneticamente fra le macerie nel tentativo di riportare alla luce quanti più bambini possibile, ma ben presto ci si dovette arrendere alla tragica evidenza — esattamente il 75% dei piccoli alunni di Gorla non c’era più, cancellato nel giro di pochi attimi, in una tranquilla giornata di sole, dalla furia distruttiva della guerra. Lo sgomento e lo sdegno dei milanesi di fronte alla strage così brutale nella sua mancanza di senso produsse un momentaneo riavvicinamento fra la popolazione civile e il governo della Repubblica Sociale Italiana: l’inverno avrebbe spazzato via ogni sentimento di umanità, e la primavera sarebbe stata rossa di sangue.
Anche dopo la guerra, Gorla non tornò più come prima. Di quell’assurdo massacro oggi restano soltanto i nomi e un monumento, eretto nel 1952 (otto anni dopo quei drammatici fatti), che sorge nella piazza dedicata ai Piccoli Martiri di Gorla. Resta anche il ricordo, un po’ sommesso perché “non sta bene” dire che quei bambini furono ammazzati dagli americani, dai liberatori, dai guerrieri del bene. E invece dovremmo tutti alzare la voce, per ridare un senso alla storia del secolo passato e a quelle vite spezzate: soprattutto oggi, che di vite gli americani e i loro complici ne spezzano ancora parecchie — basta guardare la televisione.
alesco
Fonte:http://alphakappa.splinder.com/
20.10.04