I rischi della proposta Frattini che vuole cancellare tutto ciò che ricorda il nazismo
DI FRANCO CARDINI
NEI GIORNI scorsi, il Commissario UE Franco Frattini ha ripetutamente formulato progetti, programmi e propositi in rapporto con la «Giornata della memoria» dello scorso 27 gennaio e che si rifanno a una decisione-quadro già affiorata nel febbraio del 2003 e quindi rimasta per varie ragioni al palo di partenza. Si tratta dell’istanza volta a vietare qualunque uso, in Europa, di simboli in qualche modo collegati con l’ideologia nazista o con i suoi simili, i suoi derivati, i suoi complici. A dir la verità Frattini, dopo essersi affrettato a lanciare una proposta presentata come intransigente, dà l’impressione di non riuscire poi ad articolarla. Nell’intervista rilasciata a Vincenzo Nigro su «La Repubblica» del 25 gennaio scorso dà la netta impressione di annaspare, di non essersi granché preparato e di non saper che pesci prendere. La svastica e gli altri simboli nazisti (quali?) dovrebbero a quanto pare venir vietati sotto qualunque forma, e con rigore, in quanto simboli di un “totalitarismo”, ma soprattutto come segni distintivi del razzismo. «Non si tratta di colpire le idee – fa dire Nigro a Frattini – ma i fatti e le manifestazioni».E che cosa vuol dire? È la reminiscenza d’un brandello di ragionamento liberale classico, che cioè «tutte le idee sono rispettabili?». Evidentemente no: il razzismo non lo è in alcuna forma (non solo quando è antisemita). E allora? Noi crediamo che si tratti proprio di colpire le idee: il che significa appunto colpirne in pratica «i fatti e le manifestazioni». Come altro si potrebbe fare? E, tra quelle manifestazioni, i simboli sono le più immediate ed efficaci.
Che le svastiche debbano sparire non solo dalla simbolica politica di gruppi e gruppuscoli, ma anche dagli stadi e dalle megliette, siamo tutti d’accordo. Ma ciò includerà anche la caccia alle espressioni storiche di essi? Per la svastica e i simboli propriamente nazisti, intendiamoci, siamo già quasi a posto. I nazisti non ebbero poi gran tempo per costruirne espressioni monumentali, e la maggior parte di essi furono cancellati dagli eventi bellici e nell’immediato dopoguerra. Ma qualche osservatore va oltre: chiama in causa anche i simboli fascisti in Italia e quelli di altri paesi: ad esempio quelli d’origine falangista che il regime di Francisco Franco – che in realtà con quel che restava del movimento falangista aveva chiuso nel 1945 – continuò formalmente a lungo ad usare.
Altri, evidentemente contrariati dal vento abolizionista che sta tirando oppure inclini al cerchiobottismo, obiettano che, se si deve dar la caccia ai simboli totalitari, allora bisogna avviare la cancellazione anche di falci e martello, stelle rosse e compagnia bolscevica.
Confesso a questo punto il mio divertito disorientamento. Ho sempre saputo che l’abuso del “politically correct” conduce regolarmente a risultati grotteschi: ma bisognerebbe evitar di esagerare. Si ha in altri termini l’impressione che una ventata di purismo liberaldemocratico voglia liberarci di tutte le memorie in qualche modo ad esso estranee oppure ostili. Vogliamo dar la caccia ai simboli totalitari? Accomodiamoci pure: però, di grazia, “adelante sì, ma con juicio”. Il fascismo, nonostante i suoi capi proclamassero il contrario, non fu propriamente un regime totalitario; né tanto meno lo fu il franchismo. Regime autoritario duro se vogliamo, dittatura in un primo momento anche spietata, senza dubbio: ma totalitarismo, no. Quanto ai simboli comunisti, attenzione. Falce e martello e stella rossa sono, come il sole nascente, il libro aperto e i covoni di spighe, vecchi emblemi del movimento operaio, che vantano una storia anche gloriosa di lotte sindacali e di aspirazione alla giustizia sociale. Al pari dei berretti frigi e dei compassi massonici, possono anche restar antipatici: ma, se la storia ha un senso e la sua memoria va rispettata, parlano il linguaggio dell’utopia e dell’illusione, ma anche quello del lavoro, della sofferenza, dell’aspirazione alla giustizia e alla libertà. Un po’ di rispetto non guasterebbe. È invece alla simbolica razzista che si mira? Ma allora l’adesione del fascismo all’iniquo verbo antisemita, che non può e non dev’essere né dimenticata né sottovalutata o guardata con indulgenza, non può storicamente condurre alla riduzione dell’intera esperienza fascista all’antisemitismo.
Qualcuno auspica una rinnovata campagna di epurazione simbolico-monumentale in Italia, a cominciare da Roma. Cancelleremo i mosaici e gli affreschi dell’Eur, abbatteremo l’obelisco del Foro Italico, bombarderemo la stazione di Giovanni Michelucci a Firenze perché ha la pianta architettonica del fascio littorio? E con quale tipo di logica coerenza pretenderemo dalle giovani generazioni l’approfondimento della memoria storica, se al tempo stesso cancelleremo proprio quei segni la presenza dei quali richiama al passato, con il suo peso e le sue tragedie che fanno, essi stessi, parte di una storia che va conosciuta e ricordata, se non vogliamo che la condanna per gli stessi oprrori del passato si riduca a un conformistico mantra? Anche lo svastica (termine che deriva da una parola sanscrita indicante la fortuna, e che si dovrebbe usare al maschile) è un venerabile antichissimo segno magico-religioso: ma il cattivo genio hitleriano lo ha compromesso per sempre, per quanto in India si continui ad usarlo dato il suo profondo significato tradizionale. Quanto ad altri simboli, se può esser legittimo vietarne un uso politico e reprimerne uno apologetico-gadgettistico, andiamoci piano prima di accanirci su monumenti storici con le ruspe, i martelli pneumatici e la biacca. Non ripetiamo il ridicolo dell’epurazione del Foro Italico per le Olimpiadi del 1960, quella che valse all’allora ministro democristiano Bosco – gran cacciatore di motti fascisti scolpiti o dipinti da far sparire – l’epiteto di “Gran Cancelliere”.
Franco Cardini
Fonte:www.iltempo.it
31.01.05