SEGNALI DI FUMO DA PARIGI

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DI CARLO BERTANI

“Picchia
la pecora, per ammansire la capra”

Proverbio tibetano

Se le parole
sono pietre, quelle del ministro degli Esteri francese Bernard
Kouchner
– che hanno fatto il giro delle principali agenzie
planetarie – sono missili: «Il mondo deve prepararsi al peggio…cioè
alla guerra.»

E ancora: «Ai piani (militari n. d. A.) ci pensano gli Stati Maggiori».
Infine: «Abbiamo già chiesto ad un certo numero di grandi imprese di
non investire in Iran.»

Detto così, sembrerebbe l’avvio di un conto alla rovescia nei
confronti di Teheran: il che, ha stupito qualche commentatore. Ma come,
la Francia
non reggeva il ramoscello d’ulivo europeo in contrapposizione alla
protervia statunitense?

Le
dichiarazioni delle cancellerie internazionali vanno soppesate
attentamente: non sono certo roboanti proclami e nemmeno velate minacce.
La miglior definizione, che potremmo associare a queste dichiarazioni,
è forse quella di “messaggi cifrati”.

Rileggendo attentamente la dichiarazione, salta agli occhi che i
“piani militari” citati da Kouchner non sono – per sua stessa
bocca – «per domani». E allora?

Se non sono per domani, saranno per dopodomani che – nel linguaggio
diplomatico – vuol dire spostare gli eventi di parecchi mesi, più
probabilmente di qualche anno.

In effetti, avrebbe poco senso proporre oggi agli USA una strategia
comune (e fortemente aggressiva) nei confronti dell’Iran, poiché
tutti sanno che Washington – oggi – non si può permettere
d’assalire nemmeno San Marino. E, questo, per due sostanziali motivi.

Il primo è
l’enorme difficoltà che il Pentagono incontra nel reperire nuove
reclute: si ventila l’ipotesi di ripristinare la leva obbligatoria (il
che, comporterebbe un inevitabile aumento dell’opposizione interna
alla guerra) e si cercano rimedi nel sempre più diffuso ricorso alla
Guardia Nazionale ed ai contractors.

Nel suo ultimo discorso, Bush
ha posto l’accento sulla difesa dell’Iraq come “avamposto per
scongiurare possibili attacchi al suolo americano”. A parte la oramai
stantia retorica dell’argomento in sé, questo passaggio è necessario
per evitare possibili attacchi sul fronte costituzionale:

la Guardia
Nazionale
è un istituto di difesa del suolo americano (usata anche come strumento
di protezione civile) per la quale, l’utilizzo “oversea”, è quanto mai dubbio proprio sotto il profilo
costituzionale. Le stesse argomentazioni – ricordiamo – furono usate
durante la guerra del Vietnam: dobbiamo stare là per difendere casa
nostra.

La Corte
Suprema
può accontentarsi.

La cosa, vista dall’Italia, può sembrare di secondaria importanza ma
non dimentichiamo che – nei giorni dell’alluvione di New Orleans –
salirono le polemiche per il mancato utilizzo della Guardia Nazionale
della Louisiana: difatti, era in Iraq.

La seconda
ragione, che ci porta a considerare gli USA come un tigrotto al quale
hanno assai limato le unghie, è di natura interna.

Non dimentichiamo che, fra un anno, George
W. Bush
non sarà più un’anatra zoppa, bensì un’anatra
congelata. A quel tempo, ci sarà dura battaglia fra il candidato/a
democratico e quello repubblicano.

Negli USA, oggi, parlare di guerra in Iraq non è proprio quello che vi
consente d’avere schiere adoranti, buona riuscita con l’altro sesso,
credito politico: sorreggere la guerra irachena, oggi, negli USA, puzza
di morto.

A differenza
del Vietnam – quando c’erano anche considerazioni d’altro genere
(morali, politiche, ecc) – oggi, a muovere il contrasto alla guerra è
la pura e semplice constatazione che, ogni anno che passa, significa
migliaia di ragazzi americani che tornano a casa in un sacco di
plastica.

Non cerchiamo troppi parallelismi con il Vietnam: oggi, negli USA, della
morte degli iracheni non frega quasi niente a nessuno. L’importante,
è il sangue a stelle e strisce.

Di conseguenza, chiunque s’azzardi a gettare in campagna elettorale lo
spauracchio di una nuova avventura oltremare, corre il grosso rischio di
vedere il proprio elettorato volatilizzarsi. L’imperativo, oggi, è:
salvare il salvabile e tornare a casa. Altro che Iran.

E, attenzione, questo vale sia per la parte democratica che per quella
repubblicana: anche i candidati repubblicani stanno prendendo le
distanze da Bush. Una eventuale nuova avventura in Oriente non sarebbe
quindi da “recapitare” all’attuale inquilino del 1600 di
Pennsylvania Avenue, ma al suo successore.

Come
ricordavamo prima, nella dichiarazione del francese Kouchner, quel “dopodomani” potremmo agevolmente collocarlo fra
qualche anno, anche perché l’Iran non sarà in grado di produrre
Uranio sufficientemente arricchito per scopi militari se non fra
parecchi anni, addirittura un decennio, affermano alcune fonti.

Perché
la Francia
sceglie questo momento per lanciare la sfida?

Anche in questo caso, per ragioni interne ed internazionali.

Passata la prima infatuazione, appare oggi evidente che Sarkozy sta un poco “scassando i maroni”, soprattutto in Europa.
Il cancelliere tedesco Angela
Merkel
– sia pure con toni mai sopra le righe – ha fatto capire
di non gradire troppo il protagonismo del collega francese: saranno
entrambi di centro-destra, ma uno è francese e l’altra è tedesca.

L’asse
franco-tedesco funziona a patto che non si assumano protagonismi
eccessivi, che finirebbero per rispolverare vecchie ruggini.
L’equilibrio fu gestito saggiamente da Miterrand
e da Kohl, poi da Chirac e da Schroeder: da parte della Merkel
c’è tutta la volontà di continuare in quel “solco”, mentre
“Sarkò” mostra una veemenza che non è certo gradita a Berlino.
Forse, sarebbe meglio – per il presidente francese – rivedere alcune
parti della storia del ‘900, perché il rapporto franco-tedesco è
sempre stato molto “delicato”.

Ma, si sa, il francese ama un poco mostrarsi “sopra le righe” ed ha
voluto rispolverare – forse più una questione d’immagine che altro
– un po’ della grandeur
che fu del generale De Gaulle:
dovrebbe ricordare, però, che De
Gaulle
aveva accanto
la Germania
stramazzata a terra di Adenauer,
mentre oggi la signora Merkel rappresenta il più potente stato
dell’UE.

Non confondiamo queste riflessioni con chissà quali ipotesi di
“frizioni” fra Parigi e Berlino: il rischio, è (soltanto!) quello
di spaccare l’Europa.
La Germania
, non dimentichiamo, ha all’est un eventuale partner (
la Russia
) con il quale già oggi fa affari d’oro e che domani potrebbe
diventare qualcosa di più di una semplice missione commerciale.

L’aspetto
più interessante della nuova grandeur
francese, però, tocca temi internazionali di maggior spessore. Mio Dio,
quanto è denso il petrolio, quanto è “spesso”.

Se Berlino ha addirittura inviato un ex cancelliere (Schroeder)
a sorvegliare la costruzione del nuovo gasdotto, che porterà il metano
siberiano in Germania passando sul fondo del Baltico (ed abbandonando,
quindi, al loro destino i gemelli polacchi Kwasniewski
e il “terzetto” ucraino Yushchenko,
Tymoshenko
e Yanukovich),
la Francia
ha qualcosa da recriminare per quel maledetto 2003, quando gli USA le
strapparono il tesoro iracheno.

Per Elf-Total-Fina,
quel 2003 è proprio un anno da dimenticare.

Qual era la ripartizione per nazioni dello sfruttamento petrolifero
sotto Saddam Hussein? La
tabella lo mostra:

Giacimento

Stima
(miliardi di barili)

Compagnie

Majnoon

30

Francia

Qurnah

15

Russia

Bin
Uhmar

6

Francia

Halfaya

2.5

Australia

Suba

2.2

Russia

Nassiryah

2

Italia
– Spagna

Gharaf

1

Turchia
– Giappone

Ratawi

1

GB
– Olanda – Canada – Malesia

Tuba

0.5

India
– Algeria – Indonesia

Nord
Rumalia

0.4

Russia

Sud
Rumalia

0.4

Russia

Al
Rafidain

0.3

GB

Amara

0.2

Vietnam

Al
Adhab

0.2

Cina

La Francia poteva far affidamento su 36 miliardi di barili, che al prezzo odierno
(80 $/barile) fanno la rispettabile cifra di 2.880 miliardi di dollari.
La Russia
su 18 miliardi di barili, che equivalgono a 1.440 miliardi di dollari.
Sommando le cifre, arriviamo quasi a 4.320 miliardi di dollari; un bel
gruzzolo, niente da dire, soprattutto se lo raffrontiamo alle
concessioni USA: zero. Sorpresi per la “strenua” contrarietà alla
guerra di Parigi e di Mosca?
La differenza, fra i russi e i francesi, è che i primi sono anche
produttori – petrolio, gas e carbone – mentre Parigi importa energia
dall’estero e compensa con una forte produzione elettrica di fonte
nucleare. In altre parole, la guerra irachena, la crescita cinese e
d’altri paesi “emergenti”, le tensioni con l’Iran e le stime
sulle riserve di petrolio che restano hanno condotto il colosso russo Gazprom
ad essere la seconda realtà industriale del pianeta, alle spalle di
Microsoft.

Ci sarebbe
da riflettere a lungo su questi due colossi: il primo creatore
d’intelligenza artificiale, il secondo dell’energia necessaria per
sorreggerla. Potrebbe essere un argomento interessante per un altro
articolo.
Va da sé che, se volessimo proprio stabilire chi è rimasto con il
classico “cerino” acceso in mano, quella è proprio Parigi: difatti,
da qualche anno a questa parte, i colossi dell’acqua francesi (Vivendi, Perrier, ecc) stanno cercando di creare un nuovo monopolio
per compensare ciò che fu perso nel mercato petrolifero.

Ciò non significa, però, che non si possano inviare segnali
nell’etere che, domani, altri potrebbero raccogliere.

La strana
“uscita” del ministro degli esteri francese – se non può essere
diretta a George Bush, perché
non è più in grado di riceverla – potrebbe diventare interessante
per la prossima amministrazione USA. Non scandalizziamoci troppo: se si
tratta di petrolio e di dominio neocoloniale, non fa poi tanta
differenza fra un Bush ed una Hillary.
Non dimentichiamo che la guerra del Vietnam fu iniziata da un presidente
democratico (Kennedy) e
conclusa da un repubblicano (Nixon): questo, con buona pace di Veltroni
e di tutti i “buonisti” del nuovo PD (che sanno poco di storia,
oppure fanno finta d’averlo dimenticato).
La partita è dunque molto complessa e si giocherà probabilmente su due
tavoli: il primo vedrà gli anglo-americani trattare con Parigi per la
“pacificazione” dell’Iraq (e la re-distribuzione delle risorse
petrolifere), il secondo “galvanizzerà” il tavolo russo-tedesco,
dove – con ogni probabilità – i russi potranno alzare la posta.

Già, ma
quali russi?

Anche Vladimir Putin è in
dirittura d’arrivo ma – a differenza di Bush – non uscirà dalla
porta di servizio dello stadio, bensì farà il giro d’onore prima di
lasciare ad altri. Lascerà Putin? Sarà vero?
Sotto l’aspetto formale, così sarà, ma attendersi che Vladimir – a
55 anni – vada ad “accomodarsi in dacia” non mi sembra
un’ipotesi fra le più gettonate.

Le recenti dimissioni del primo ministro Mikhail
Fradkov
e la repentina elezione – con la benedizione del Cremlino
– dello sconosciuto (e debole) Viktor
Zubkov
, che non ha nascosto di mirare alla presidenza nel 2008,
fanno intendere che il “gruppo di San Pietroburgo” (forse, sarebbe
più corretto dire “di Leningrado”) ha il pieno potere sulla Russia.

Con un
presidente debole per quattro anni – che nel 2012 avrebbe 70 anni, un
matusalemme per la nuova leadership russa – Putin, Ivanov ed i poteri forti del Cremlino hanno tutte le vie
aperte: un ritorno sulla scena di Putin nel
2012, a
59 anni, magari “a furor di popolo”, oppure un discreto manovrare
dietro le quinte.

Il potere russo è tornato, praticamente, ad essere nelle mani del nuovo
“Soviet Supremo” insediato al Cremlino: è mutata solo qualche
sigla. La cosa sembra dar molto fastidio in Occidente, ma non ai russi,
che ricordano invece gli anni di “avvicinamento” all’Occidente –
l’era di Eltsin – come un
incubo.

La mossa francese sembra quindi interlocutoria nei confronti di
Washington: molto probabilmente, si sta già trattando non tanto
sull’Iran – quella è una storia da prendere con le molle, che fa
paura sia a Parigi che a Washington – ma sul futuro assetto
dell’Iraq.

Nonostante
tutti gli sforzi di Halliburton
(Cheney), la produzione di
greggio irachena non decolla: quando giunsero gli americani, era ai
minimi storici a causa del lungo embargo.
In buona sostanza, gli USA ereditarono un apparato petrolifero vecchio e
fatiscente, con pozzi in gran parte insabbiati, trasporti e pipeline
fuori uso.

Per rimettere in sesto un simile disastro, sarebbero stati necessari
anni di lavoro in una situazione tranquilla: si parla poco – in
Occidente – degli attentati contro le strutture petrolifere in Iraq,
ma dal 2003 sono stati uno stillicidio.

Gran parte dei contractors
assunti dall’amministrazione USA servono proprio al controllo delle
installazioni petrolifere, perché sono strutture delicate che, con
poche risorse belliche (semplice esplosivo), sono messe fuori uso per
lungo tempo.

Tutto ruota
perciò intorno alla capacità di controllare il territorio, senza la
quale nessun progetto petrolifero serio può decollare.

La recente uscita dal governo iracheno di Moqtada
al Sadr
fa presagire che gli equilibri interni stiano mutando: dopo
aver appoggiato per anni la fazione sciita (ed aver constatato d’aver
realizzato la profezia di Bush padre, ossia di regalare su un piatto
d’argento l’Iraq a Teheran), forse oggi gli americano tentano un
riavvicinamento con la fazione sunnita.

Per mettere a posto le cose ci vorrebbe un bel Saddam
Hussein
– sciita o sunnita – con tanto d’esercito fedele e
polizia segreta per mantenere stabilità al potere: l’hanno impiccato,
e adesso non è facile trovarne un altro con le sue doti. La
“macchinetta” che sforna i Saddam non replica tutti i giorni: anche
per fare il dittatore, bisogna avere una certa “formazione” –
diremmo in Occidente – e i vari politici iracheni che s’avvicendano
al potere sembrano tante marionette senza spina dorsale.

L’unica
soluzione, allora, per mettere a posto petrolio e stabilità, passa per
il tanto vituperato ONU, che “baffone” Bolton
cercò per anni di delegittimare. Insomma, la solita storia: caschi blu
prelevati da mezzo (terzo) mondo e comandi Occidentali.
Già, ma chi comanda?

Una forza ONU dovrebbe non dover patire lo stillicidio d’attentati che
gli americani stanno subendo, altrimenti non cambierebbe niente.

Per prima cosa, allora, dovrebbe cessare qualsiasi appoggio alla
guerriglia – palese o nascosto – da parte di chi la
rifornisce di armi, denaro, informazioni. A meno di credere che la
guerriglia irachena sia il frutto di quattro scalzacani ben determinati,
i quali – ricevendo soltanto aiuti da qualche povero paese arabo –
tengano in scacco il più potente esercito del mondo.

Liberi di
credere anche a Biancaneve, ma ricordiamo che i vietcong ressero per
molti anni grazie a costanti rifornimenti russi e cinesi.

Terminata la sciagurata avventura di Bush, l’unità degli ex
colonizzatori potrebbe essere ritrovata sulla base di una
re-distribuzione delle ricchezze petrolifere del paese. Il processo è
in atto: i francesi sono tornati in Libano (ancora una volta…) e, da
qui, potrebbe ripartire un secondo “Trattato di Sèvres”, con la
ripartizione d’alcune sfere d’influenza (e i relativi proventi
petroliferi).

E’ presto
per affermare se questo piano sia attuabile, anche perché siamo
soltanto ad una prima fase – interlocutoria – ma la stranissima
affermazione del ministro francese non può, a mio avviso, essere
altrimenti interpretata. Tanto meno, nel senso letterale: dopo lo
sconquasso finanziario causato dalle note vicende americane dei mutui subprime,
con il prezzo del greggio che “vola” verso i 90 $/barile, ci
aggiungiamo un bel attacco all’Iran? Vogliamo proprio veder affondare
l’economia mondiale? Oppure giocare tutto sull’economia di guerra? I
tempi non sono ancora maturi: gli equilibri economici consentono ancora
lauti guadagni.

No, signori miei, saranno pure dei maledetti assassini, ma non sono dei
folli: l’imperativo – oggi – è stabilizzare, non destabilizzare.
La nuova “stabilizzazione” passa proprio per una riunificazione
dell’unità fra le potenze colonizzatrici, ovviamente con rinnovati
equilibri di potenza: come a Suez
nel 1956 – quando gli USA lasciarono al loro destino Francia e Gran
Bretagna, imponendo così il loro primato anche nell’area da sempre
controllata dalle potenze europee – oppure come per l’Iran nel 1953,
quando gli USA giunsero in aiuto della Anglo-Iranian Oil Company, nazionalizzata da Mossadeq, e risolsero
tutto con il classico colpo di stato.

In questa
lunga vicenda, USA, GB e Francia giocano da almeno un secolo una partita
che le vede unite nei loro intenti (sorrette, in questo senso, dalla
sostanziale unità delle borghesie finanziarie) e in competizione fra di
loro (a causa dell’apparente competizione fra le rispettive borghesie
nazionali): la più classica delle contraddizioni del mondo capitalista.
La soglia della guerra – non dimentichiamo – viene oltrepassata
soltanto quando quelle contraddizioni non sono più sanabili e, anche in
piena guerra, le borghesie continuano in qualche modo a lucrare:
l’esempio degli “sporchi affari” fra Thyssen
(grande “elettore” di Hitler)
e Prescott Sheldon Bush (nonno dell’attuale presidente) con il Terzo
Reich lo dimostrano.
Possiamo comprendere meglio la contraddizione se analizziamo alcuni
eventi che stanno accadendo proprio di questi tempi: la recante
“multa” comminata dall’UE a Microsoft
– di là delle motivazioni giuridiche, più o meno plausibili –
testimonia attrito fra le due sponde dell’Atlantico. Altri esempi sono
i frequenti dissidi interni al WTO, come la questione dei dazi sull’acciaio, lo spionaggio
industriale operato mediante Echelon
ed altri mezzi per acquisire posizioni di mercato dominanti: insomma,
fra Washington e Bruxelles c’è sempre lotta per favorire alcuni a
scapito di altri. Sull’altro versante – soprattutto a causa della
sempre maggior internazionalizzazione del capitale – prevalgono le
scelte di conservazione del quadro d’insieme:
la FED
e
la BCE
, per compensare i danni causati dalla nota vicenda dei mutui americani,
hanno immesso nel circuito bancario qualcosa come 350 miliardi di euro
(pressappoco 100
la FED
e 250
la BCE
). Cosa significa?

Vuol dire
che, all’interno di un quadro d’insieme, è permessa la competizione
– e passi pure qualche colpo basso – ma non si deve mettere in
discussione la sostanziale unità dei capitalisti nei confronti dei
lavoratori, dei paesi più poveri, di tutti coloro che non vivono di
finanza.

Le guerre – le vere guerre – scoppiano quando viene messo in
discussione proprio il quadro generale degli scambi all’interno del
capitalismo internazionale
: per ben due volte, fu
la Germania
a mettere in forse il potere commerciale e marittimo degli Angli sul
pianeta.

La storia si ripete – qualcuno afferma – ma sempre con scenari
mutati. Altri teatri di posa stanno nascendo: cosa farà
la Groenlandia
? Si staccherà definitivamente dalla Danimarca? La partita
dell’Artico (ancora petrolio) si giocherà a due (USA e Russia) o a
tre (USA, Russia ed UE)? E con quale unità europea? Con un asse
franco-tedesco o due distinti assi, quello franco-britannico e quello
russo-tedesco?

Come si può
notare, l’apparente “nota stonata” della dichiarazione francese,
assume senso soltanto se la proiettiamo in un palcoscenico dove gli
attori stanno improvvisando una nuova rappresentazione: per ora si
tratta soltanto della classica “battuta ad effetto”, per osservare
l’effetto che fa e verificare se – chi “di dovere” – risponde
al richiamo.
Nel pieno rispetto della sua tradizione storica, l’Italia ondeggia fra
le odierne “Triplici” alleanze ed intese: legata al carro
russo-tedesco – con gli accordi economici concordati fra Putin e Prodi
e la recente dichiarazione di D’Alema,
che sminuisce la boutade
francese – oppure pronta ad un nuovo asservimento verso gli USA,
qualora tornasse a regnare il centro-destra.

Niente, però, di così determinante e di non ritrattabile per entrambi
gli schieramenti: un po’ di Dal
Molin
da un lato e una visita ad Hezbollah dall’altra, tanto per
poter cambiare cavallo quando occorre. La tradizione, anzitutto.

L’unica
cosa che possiamo fare noi italiani è non cascare nell’inganno delle
mille sigle che si celano dietro a fantomatiche “fondazioni” estere,
commentatori dai nomi astrusi e “gole profonde” che, resuscitando
confidenze apocalittiche, cercano di propinarci uno schema, ahimé,
troppo semplice: una sorta di “partita” di calcio con americani da
un lato e tutti gli altri dall’altra, con attacchi all’Iran
imminenti e flotte pronte a prendere il mare. La partita non è
USA-Resto del Mondo: la vera partita è più sfumata, fra più attori,
ma non meno pericolosa. Solo l’analisi storica consente di guardare
oltre l’orizzonte con la certezza di non compiere troppi errori di
valutazione: se ci lasciamo trasportare dall’onda delle notizie,
dimentichiamo che la maggior parte delle news sono lanciate nei circuiti
internazionali per precisi scopi di parte, non per informare.

Fin quando
reggerà la sostanziale unità degli ex colonizzatori, ed accordi
soddisfacenti con lo sterminato pianeta russo, cinese ed indiano,
nessuno si sognerà di dare un calcio a commerci lucrosi, ad una
stabilità che consente ricchezza per l’Occidente e fame per molti.
Nemmeno i danni causati da Bush all’economia americana sono
sufficienti per rischiare il tutto per tutto, gettando il dado della
guerra: combineranno qualche nuova marachella finanziaria, abbasseranno
ulteriormente i salari minimi, aumenteranno le esecuzioni capitali e i
locali di strip-tease. Paradossalmente, nemmeno uno sciagurato come Bush
è riuscito a stramazzare gli USA: molto indeboliti, certo, ma non al
tappeto.

Il peggior rischio corso da Bush – con le sue scelte unipolari – è
stato mettere in dubbio accordi che duravano da almeno un secolo, ma la
meteora-Bush sta oramai svanendo: stiamo attenti, invece, soprattutto
all’Artico, alla questione di Kaliningrad
ed a Taiwan. Quelli sì che sono problemi rischiosi, micce e depositi di
polvere che possono far saltare il mondo: altro che le “di là da
venire” atomiche iraniane…

Carlo
Bertani [email protected]
www.carlobertani.it

http://carlobertani.blogspot.com

20.09.07

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