Le bombe e gli afghani
DI MASSIMO FINI
Nei giorni scorsi gli americani hanno bombardato il villaggio pakistano di Damadola, al confine con l’Afghanistan, pensando che vi si fossero rifugiati il cosiddetto “numero due” di Al Qaida, il medico egiziano Ayman al Zawahri e il mullah Omar, il leader spirituale e comandante in capo dei Talebani che governò a Kabul per sei anni. Risultato del raid: 18 morti, tutti civili, di cui 8 donne e 5 bambini. Di Al Zawahri e del mullah Omar, naturalmente, nessuna traccia. Com’è stato possibile un simile errore? Il fatto è che gli americani utilizzano aerei Predator senza pilota, armati di missili Hellfire teleguidati attraverso satelliti e sensori, dalla base di Nellis nel Nevada a diecimila chilometri di distanza. Il pilota e il suo secondo stanno comodamente seduti a una consolle, uno guida la telecamera, l’altro attiva i missili. Ma per quanto questi mezzi tecnologici siano sofisticati, le telecamere non sono la stessa cosa degli occhi umani che avrebbero visto che in quel povero villaggio non c’era nulla di sospetto (al Zawahri e il mullah Omar non sono tipi da andare in giro da soli). Ma a parte ciò, l’episodio di Damadola pone tre ordini di questioni.
1) È leale questo modo di combattere dove chi colpisce sta comodamente seduto a diecimila chilometri di distanza, irraggiungibile? Dice: “a la guerre comme a la guerre”. Ma lo stesso ragionamento possono farlo allora gli avversari e utilizzare il terrorismo contro i civili.
Se, come è scritto nella sentenza di Giuseppina Forleo, poi confermata dalla Corte d’Appello di Milano, la differenza fra guerriglia e terrorismo sta nel fatto che nella prima l’atto violento è diretto contro obiettivi militari mentre il secondo “colpisce indiscriminatamente militari e civili”, allora il bombardamento con i Predator del villaggio di Damadola è un atto terroristico, anzi è esclusivamente terroristico perché ha colpito solo civili. Si è sparato nel mucchio, alla cieca (c’è da sottolineare che ad organizzare il bombardamento di Damadola non è stato l’esercito regolare americano, in divisa, ma la Cia, quindi dei paramilitari). Non diversamente da quello che fa il kamikaze quando si fa esplodere in mezzo alla gente. Con la differenza che il kamikaze ci mette almeno la sua vita, noi solo le macchine.
2) Che si fa di fronte a un nemico invisibile e imprendibile? O si subisce senza reagire oppure la risposta non può essere che quella terroristica (e non è un caso che dall’inizio del 2006 anche gli afghani si siano dati, soprattutto nella zona di Kandahar, tradizionale roccaforte talebana, ad atti di terrorismo, completamente estranei, a differenza degli arabi, alla loro cultura – nei dieci lunghi anni dell’occupazione sovietica non c’è stato, da parte dei combattenti afghani, nonostante la loro inferiorità bellica, un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, nè dentro nè fuori il Paese – eppure un ufficio Aeroflot, non particolarmente difeso, si poteva trovare facilmente ovunque, nè atti di terrorismo ci sono stati nel conflitto che ha opposto i Talebani ai “signori della guerra” locali, i Dostum, gli Heckmatiar, gli Ismaili Khan, i Massud, gli afghani sono tradizionalmente dei combattenti non dei terroristi).
3) Di molte delle guerre combattute dagli occidentali negli ultimi quindici anni (quella del Golfo del 1990, guerra alla Jugoslavia del 1999, guerra all’Afghanistan del 2001-2002 e guerra all’Iraq finché il conflitto si è svolto fra Stati, prima che il Paese si dissolvesse e desse spazio alla guerriglia e al terrorismo) si può persino dubitare che siano, tecnicamente, delle guerre. Vi manca infatti l’essenziale: il combattimento. In virtù dell’enorme superiorità tecnologica e militare degli occidentali, e degli americani in particolare, in queste guerre uno solo può colpire, l’altro solo subire. In tal modo questo tipo di guerra, che Edward Luttwak con indovinata intuizione ha chiamato “post eroica” perde non solo ogni epica ma anche ogni etica e la propria stessa legittimità e dentro di essa la perde il combattente che non combatte (i due alla consolle, in Nevada). Infatti l’eccezionale legittimità, negata in tempo di pace, di uccidere in guerra deriva dall’altrettale possibilità di essere uccisi. Nella guerra “post eroica” o “asimmetrica” tale possibilità, per una delle parti, è ridotta ai minimi termini. È, come dice ancora Luttwak, una partita a “costo zero”.
Si esce quindi dall’ambito della guerra e si entra in quello dell’assassinio. Caratteristica che la guerra “post eroica” condivide col terrorismo globale col quale ha anche molte altre affinità che non ho lo spazio di sviluppare qui (chi lo vuole si veda il mio libro “Il Ribelle” in uscita a metà aprile). Ne citerò una sola: la mancanza di qualsiasi, anche minimo, “ius belli”, di regole, di condici di lealtà e di onore, di rispetto della dignità altrui e propria.
Ed è tutto molto conseguente. Poiché entrambi i contendenti non considerano, schmittianamente, il nemico uno “justus hostis” ma un criminale, la personificazione stessa del Male, se ne può fare carne di porco senza porsi alcuno scrupolo.
Mai nella Storia, credo, si è assistito a qualcosa di più schifoso di questa immonda guerra fra guerra “post eroica” occidentale e terrorismo globale, dove ogni codice è saltato.
Non è un caso che questa guerra “post eroica” noi non osiamo più nemmeno dichiararla e la chiamiamo con altri nomi (“operazione di peacekeeping”, “intervento umanitario”, eccetera). E in questa ipocrisia, o pudore, pare di avvertire la consapevolezza, o quantomeno il sospetto, che non di guerre si tratta, le care, vecchie, oneste guerre di una volta, ma di qualcosa di molto più laido e ripugnante che disonora chi le fa e umilia chi le subisce.
Massimo Fini
(www.massimofini.it)
Fonte: www.gazzettino.it
18.01.05