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La Redazione

 

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SCONTRO DI CIVILTA': LA VECCHIA STORIA DEL NUOVO TOTALITARISMO

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A cura di Truman
Il 4 Ottobre 2006
196 Views
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DI CEDRIC HOUSEZ
Reseau Voltaire

Inventare il nemico

In occasione del quinto anniversario degli attentati dell’11 Settembre 2001, il presidente degli Stati Uniti ha confermato ai suoi concittadini che la guerra contro il “totalitarismo islamico” era in corso. Ma ad uno sguardo più attento, questo concetto non ha alcuna definizione precisa così da permettere di inquadrare gruppi tra loro eterogenei per demonizzarli e giustificare eventuali attacchi. Cedric Housez rintraccia in questo articolo l’uso che la propaganda statunitense ha fatto del termine “totalitarismo” dalla Guerra fredda fino ad oggi.

“Fascislamismo”, “fascismo islamico”, “nuovo fascismo”, “nuovo totalitarismo”… Sembra che l’ultima moda nella “guerra al terrorismo” stia nel rinnovare la denominazione “fascista” e nel ritorno della retorica anti-totalitaria. Sebbene non molto recente [1], questo fenomeno trova oggi un’eco considerevole, particolarmente incisiva nell’attualità mediatica francese del 2006.
In Francia, nel marzo 2006, è stata lanciata dalle edizioni Denoel una nuova rivista che tratta di politica internazionale: Le meilleur des mondes (Il migliore dei mondi). Essa “rivendica l’eredità politica, intellettuale e morale della corrente anti-totalitaria” [2] e riunisce nel suo comitato editoriale un gran numero di personalità mediatiche americaniste [3]. Nell’editoriale essa amalgama la lotta contro il comunismo ai tempi della Guerra fredda e l’attuale lotta contro l'”islamismo”, deplorando il fatto che la Francia abbia mostrato o mostri compiacenza verso questi movimenti.

Il settimanale satirico francese Charlie Hebdo [4] era uscito qualche settimana prima riprendendo le caricature di Maometto diffuse inizialmente nel Jyllands Posten, ha pubblicato un manifesto intitolato “Insieme contro il nuovo totalitarismo” [6]. Nell’introduzione si legge che: “Dopo aver vinto il fascismo, il nazismo, e lo stalinismo, il mondo si trova di fronte a una nuova minaccia globale di tipo totalitario: l’islamismo”. Questo manifesto è stato ripreso in esteso dal settimanale francese L’Express, dal mensile Toc e dal quotidiano svizzero Le temps e ha avuto una certa eco internazionale.

Tra i firmatari di questo appello si contano Bernard Henry Lévy e Caroline Fourest.

Quest’ultima è autrice di un saggio, ricompensato, come quello di A.Alder, dal Premio del libro politico dell’Assemblea nazionale nel 2006, intitolato La tentazione oscurantista [7]. In quest’opera, apparsa nello stesso momento di altre con problematica equivalente, la Fourest oppone due tradizioni di sinistra: una “antitotalitaria” che dopo aver combattuto lo stalinismo attaccherebbe l’islamismo, e una “terzomondista”, che, per un senso di colpa colonialista, accetterebbe tutto da parte degli islamici, senza discernimento. L’autrice chiamava ovviamente la prima a mobilitarsi contro la seconda.

Bernard Henri Lévy da parte sua, ha popolarizzato, attraverso i suoi editoriali nel settimanale francese Le point e numerosi interventi mediatici, il termine di “fascislamismo”, contrazione di fascismo e islamismo, e presenta regolarmente “l’islamismo” come il “terzo fascismo” al quale il “mondo libero” dovrebbe opporsi [8]. Questa denuncia ha anche acquisito una dimensione centrale nelle sue produzioni recenti poichè quest’estate, in occasione della Guerra al Libano, la totalità delle sue cronache ha trattato questa questione in un modo o nell’altro. Così, l’autore denunciava il “fascislamismo” di Hamas e di Hezbollah manipolato da Damasco e Teheran [9], presentava l’islamismo come un nuovo pericolo totalitario [10] e paragonava la guerra in Libano alla guerra civile spagnola mettendo, senza ironie, Israele nel ruolo dei repubblicani spagnoli [11]. Prendendo per oro colato le dichiarazioni delle autorità britanniche [12] e prima ancora di qualsiasi processo, ha designato come “fascisti” le persone accusate dalla polizia britannica di aver preparato gli attentati contro aerei di linea nell’aeroporto di Londra [13]. E infine, con uno dei suoi strani intrugli di cui solo lui conosce l’ingrediente segreto, ha assimilato la confessione di Gunter Grass del suo impegno in passato nelle Waffen SS, “i suoi slanci sovietofili” e lo sviluppo del “fascislamismo” per presentare questi elementi sparsi come un tutto coerente [14].

blank Questi esempi non sono eccezioni ma illustrano una tendenza generale della stampa francese e non solo. Gli editorialisti neo-conservatori statunitensi, quale, ad esempio, l’influentissimo William Kristol [15], presentano anch’essi l’islamismo come un nuovo pericolo paragonabile allo stalinismo e al nazismo e non bisogna cercare troppo lontano le somiglianze tra il “fascislamista” di Bernard Henry Lévy, il “nazislamista” di Yvan Rioufol del Figaro e l'”islamofascismo” di Frank Gaffney. Quest’assimilazione non tocca soltanto gli editorialisti poichè, a titolo di esempio, l’ex-ministro francese dell’educazione nazionale, Luc Ferry, ha paragonato lo sviluppo dell’islamismo all’ascesa del nazismo (stimando persino che il primo fenomeno fosse forse peggiore del secondo) [16], l’ex-ministro britannico degli Affari esteri, Jack Straw, ha classificato il terrorismo islamico come “nuovo totalitarismo” [17] e il suo omologo tedesco Jochka Fischer ha moltiplicato commenti simili sia nel suo discorso a Princeton nel Novembre 2003 [18] che nell’intervista che ha concesso al giornale Handelsblatt qualche mese dopo. Recentemente, il 10 Agosto 2006, George W. Bush in persona ha anche lui classificato i cittadini britannici, accusati di aver preparato un attentato contro l’aeroporto di Londra, come “fascisti islamici” [20] e il suo segretario alla difesa Donald Rumsfeld ha presentato il “terrorismo islamico” come un “nuovo tipo d fascismo” [21].

Ma, dopo tutto, cosa c’è di sbagliato in questa presentazione dei movimenti musulmani armati? In effetti l’estremismo, di qualsiasi ideologia o religione, non mira a dominare in modo totale la vita dell’individuo? Un sistema politico fondato su un’applicazione stretta dei dogmi religiosi non mirerebbe a dominare l’intera gamma di azioni della vita degli individui, esercitando quindi un controllo totale sulla loro esistenza? E l’immissione dello Stato nella totalità dei campi di azione della vita di un individuo, ivi compreso il campo privato, non è forse l’essenza stessa di un sistema totalitario?
Basandosi su questo ragionamento, si dovrebbe quindi poter affermare che i movimenti musulmani armati sono dei partiti totalitari e che combatterli vuol dire combattere il totalitarismo. Come volevasi dimostrare!

Non è poi così semplice.

Innanzi tutto perchè la parola “totalitarismo” non è mai stato un termine politicamente neutro che si limiti a designare regimi oppressori, ma uno slogan per mobilitare l’Alleanza atlantica contro il patto di Varsavia sulla base di un’amalgama tra comunismo e nazismo. Ritorneremo sull’argomento.

Poi perchè la parola “islamismo”, quando designa movimenti musulmani armati non ha più coerenza: che c’è in comune tra i rivoluzionari iraniani che hanno combattuto la dittatura sanguinosa dello Shah, i salafisti algerini che tentano di imporre il ritorno di un modello pregresso di società, gli Hamas che lottano contro l’Apartheid in Palestina, gli Hezbollah che resistono all’invasione del Libano da parte di Israele, e i presunti autori dei presunti progetti di attentati a Londra? Niente, tranne la loro religione e il pregiudizio secondo cui essa sarebbe intrinsecamente violenta. E se si deve utilizzare questa categorizzazione perchè non vi dovrebbero rientrare i mercenari di Bin Laden che lottano contro i sovietici in Afghanistan, il Movimento di liberazione del Kosovo che organizza attentati con bombe al centro di Pristina, il governo ceceno in esilio a Washington che ordina attentati in Russia, etc?

La parola “islamismo” in sè non ha alcuna base chiara e non è un termine accademico, ma una parola mediatica che ha conosciuto alterne fortune e che si è imposta progressivamente per operare formalmente la distinzione tra l’islam “buono” e l’islam “cattivo”. A proposito della popolarizzazione della parola “islamismo” nei media, e specialmente nella televisione, il giornalista Thomas Deltombe precisa: “A volere assolutamente mantenere una visione morale e binaria che distingua il “buono” dal “cattivo” islam, il giornalismo televisivo – ma non è il solo – si ritrova in una situazione ambigua.

Ha certo avuto un ruolo fondamentale nel far sì che tornasse di moda, oralmente e formalmente, la visione occidentale secolare di un islam intrinsecamente nocivo e straniero, ma continua, al tempo stesso, a trascinare, implicitamente e profondamente, una visione sempre negativa di un fenomeno religioso che percepisce come sospetto e esteriore” [22]. I movimenti musulmani armati che servono gli interessi occidentali devono necessariamente far parte dell’islam “buono” e non possono quindi essere agglomerati nell’islam “cattivo” che è l’islamismo. Va da sè, ma è meglio ribadirlo, che denunciare i concetti vaghi di totalitarismo o di islamismo non mira a negare che alcuni comunisti o alcuni musulmani abbiano sviluppato forme intolleranti, oscurantiste e criminali del loro ideale o della loro fede. E ciò non toglie che, ricordare queste snaturazioni in seno al comunismo e all’Islam non ha il fine di negare che fenomeni simili si producono all’interno di altri movimenti ideologici o religiosi.

Rifiutare l’impiego della retorica del “totalitarismo islamico” o vederne i suoi evidenti limiti non significa abbandonare la laicità, ma al contrario difenderla liberandosi dal discorso dogmatico dei pontefici del nuovo conservatorismo.

Per comprendere bene questa retorica, è importante tornare alle origini dell’impiego della parola “totalitarismo” e al suo passaggio da un concetto al servizio dell’analisi politica a quello di qualificatore morale che serve a stigmatizzare l’avversario. La storia di questo termine ha ancora più importanza dal momento che ha cambiato senso e si è evoluto nel tempo.

Da strumento di analisi ad arma della guerra fredda

Troviamo la prima utilizzazione del termine in un discorso di G. Amendola, un oppositore italiano al regime fascista, pronunciato il 22 maggio 1923, il quale denunciava l’intrusione all’interno delle differenti istituzioni italiane. Mussolini riprenderà poi il termine facendolo suo e rivendicandone la paternità in un discorso pronunciato il 22 giugno 1925 ancora prima che Gentile, teorico del fascismo, non lo chiarisse nella sua opera “La Dottrina fascista“, nel 1932. Parallelamente, il concetto di regime totalitario guadagnerà in popolarità durante gli anni ’30, designando, però, solo il regime fascista e quello nazista. Nel 1939, poi, in seguito alla firma del patto germano-sovietico, il concetto di “regime totalitario” sarà esteso allo stalinismo in quei paesi con una forte tradizione anti-marxista e nell’establishment europeo. In seguito, a partire dal 1941 e dall’attacco del Reich contro l’URSS, tale terminologia globalizzante, cadrà temporaneamente nel dimenticatoio.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli storici e i politologi si dedicheranno al nazismo nel tentativo di spiegare il fenomeno. Ma, sviluppandosi molto rapidamente la Guerra fredda, assisteremo ad una cristalizzazione dei modelli esplicativi a Est come a Ovest, attorno a due approcci agli antipodi. A Est, all’ interno del blocco comunista, sarà, ovviamente, un approccio di tipo marxista a essere privilegiato. La teoria del Komintern definì il fascismo come una reazione della borghesia al fallimento capitalista. Di conseguenza, i regimi fascisti e nazisti hanno una prossimità più marcata con il blocco occidentale che non con l’URSS, visto che il fascismo è un’evoluzione probabile dei regimi vigenti nei paesi avversi. Al contrario, il blocco occidentale, ritroverà il concetto di “regime totalitario” dandogli quindi nuova vita. Concentrandosi sui punti di contatto tra regimi nazisti, fascisti e sovietici, il modello totalitario permetterà di presentare, dal punto di vista politico, il regime stalinista come un riflesso di quello hitleriano e di fare della democrazia liberale il loro contro-modello assoluto.

Questo punto di vista sarà velocemente accettato nell’establishment occidentale. E’ in Germania, punto nevralgico della Guerra fredda, che l’analisi del modello totalitario sarà maggiormente sviluppato. Così questa logica si ritroverà nella legge fondamentale adottata nella Republica federale. Questa costituzione mirerà esplicitamente a impedire un ritorno al regime nazista, ma, al tempo stesso, il suo fine sarà di far sì che il comunismo non si possa mai sviluppare nella Republica federale. Saranno due tedeschi esiliati negli Stati Uniti, Hannah Arendt e Carl Friedrich, i principali ideatori della definizione universitaria del concetto di totalitarismo.

Hannah Arendt publicherà The origins of Totalitarianism nel 1951. In quello scritto si dedicherà ad un’analisi appassionata della crescita del nazismo, della sua radicalizzazione inestirpabile e dalla sua natura intrinsecamente distruttrice. Tuttavia, l’analisi dello stalinismo è assai meno convincente e sarà largamente criticata dagli analisti posteriori (in particolare la sua percezione circa il rimpiazzo di una società di classe da parte di una “società di massa”, o la mancanza di un’analisi storica dell’emergere del nazismo[23]).

Carl Friedrich, da parte sua, svilupperà la propria analisi in un articolo intitolato « The Unique Character of Totalitarian Society », all’interno dell’opera colletiva Totalitarianism apparsa nel 1954. Vi presenta un modello in cinque punti cercando di definire le caratteristiche del totalitarismo.

Per Friedrich, il regime totalitario è contraddistinto da:

– un’ideologia di stampo millenario ufficiale
– un partito unico di massa;
– il monopolio dei mezzi da combattimento
– il monopolio dei mezzi di comunicazione;
– un controllo terroristico della polizia, che definisca essa stessa i suoi avversari in modo del tutto arbitrario.

Friedrich criticherà gli analisti che confondono totalmente regime nazista e regime stalinista, concludendo, ad ogni modo, che le similitudini sono comunque superiori rispetto alle differenze.

Nel 1956, con la destalinizzazione, questo modello pare perdere autorevolezza. Zbigniew Brzezinski, futuro consigliere della sicurezza nazionale del presidente democratico Jimmy Carter, adatterà lo schema d’analisi totalitario a questo avvenimento. Nel suo articolo « Totalitarianism and Rationality » publicato nell’ American Political Science Review, egli stima che le tecniche di manipolazione e di inquadramento, studiate dai suoi predecessori, funzionano al servizio di un obiettivo rivoluzionario, il quale non consiste nè nel congelare una società, nè tantomeno nel cambiare le classi dirigenti, ma piuttosto nel rimpiazzare il pluralismo con l’uniformità. Ora, la “razionalità” tipica delle tecniche di inquadramento può entrare in conflitto con il dinamismo senza freni degli obiettivi, e ciò fornisce alla storia di questi regimi un’andatura piuttosto incerta. Così, la destalinizzazione, altro non sarebbe se non una sorta di “peripezia” in un regime interamente totalitario. Nello stesso anno, Carl Friedrich e Brzezinski, si associeranno al fine di redigere la prima edizione di Totalitarian Dictatorship and Autocracy. In questo libro, Friedrich corregge il suo modello in cinque punti, aggiungendone un sesto: il controllo dell’economia da parte dello Stato.

Ispirandosi ai lavori di Friedrich, Raymond Aron affermerà nel 1958, in Démocratie et totalitarisme, che il totalitarismo possiede cinque caratteristiche:

– un partito avente il monopolio dell’attività politica
– un’ideologia ufficiale di Stato
– il monopolio del controllo dei mezzi di forza e di quelli di comunicazione
– un controllo dell’economia da parte dello Stato
– la messa in atto di un terrore di polizia e ideologico [24].

La sinistra europea rifiuterà la confusione tra nazismo e comunismo che emerge da queste teorie e, a partire dagli anni ’60, gli ambienti universitari si allontaneranno anch’essi da queste analisi giudicandole molto presto obsolete. Effettivamente, a volersi concentrare sulle similitudini, la base sulla quale si fonda l’analisi totalitaria ignora ciò che fa la differenza tra regimi fascisti e regimi comunisti, anche a livello organizzativo, ideologico o dei metodi di presa del potere. Così, piazzando in unico modello nazismo e comunismo, gli analisti perdono di vista l’opposizione tra elitarismo fascista ed egualitarismo comunista oppure il peso concreto della borghesia durante l’ascesa del fascismo. Non vi è nulla di paragonabile dal punto di vista dell’organizzazione, tra il sistema posto in essere dalla Germania di Hitler e dall’URSS di Stalin.

Ma l’analisi totalitaria mantiene intatta la sua attrazione per gli ambienti conservatori e per gli intellettuali atlantici riuniti e stipendiati dalla CIA in seno al congresso per la libertà della cultura[25]. Così, se i dibattiti universitari si allontanano da queste teorie, la base di questa analisi totalitaria continuerà ad essere insegnata e sostenuta presso il grande pubblico. Così, il 5 luglio 1962, nella Germania dell’Est, la conferenza dei ministri dell’Educazione dei Länders conclude: > [26]. La stampa dominante non tiene più conto della rimessa in discussione di tale modello d’analisi. Nel suo studio sulla questione nazista nella stampa tedesca dell’Ovest, nel 1963-1964, Das 3. Reich in der presse des Bundesrepublik, R. Kühnl, osserva che il paragone tra il successo delle SA tra le classi popolari durante gli anni ’30 in Germania e i successi comunisti è assai frequenti, così come le idee di convergenza tra Germania nazista e URSS di allora mentre la complicità della grande borghesia con Hitler viene minimizzata.

La nozione di “totalitarismo”, non di più rispetto a quella di “fascismo”, non è altro che una nozione puramente oggettiva. Da quando l’analisi scientifica del totalitarismo perde di interesse, i suoi promotori insisteranno sempre più sulla dimensione morale e politica del concetto. Così, il totalitarismo cesserà di essere oggetto di studio di politologi e storici, finendo con il diventare il cuore del discorso degli intellettuali atlantici. In Francia, il fenomeno mediatico implicito nei “nuovi filosofi” pone la questione del totalitarismo al centro dell’analisi. E gli intellettuali mediatici, generati da questo movimento, quali Glucksman o Bernard Henri Lévy, utilizzeranno questo nuovo punto di vista per stigmattizzare innanzitutto qualsiasi tipo di regime comunista, e, in seguito, ogni soggetto designato come “avversario dell’Occidente”, arbitrariamente associato alla democrazia liberale. Nei loro lavori, il “totalitarismo” diventerà dunque il nemico assoluto e, rovesciando la prospettiva, ciascun nemico sarà dipinto come una nuova forma di un totalitarismo decisamente proteiforme.

blank La questione del totalitarismo fungerà ugualmente da argomento politico e da guida ufficiale di certi politici. Così, quando alla fine degli anni ’70, Jimmy Carter e il suo consigliere Zbigniew Brzezinski rimettono in causa le alleanze di Kissinger con le dittature militari del Sud-America, Jeane Kirkpatrick criticherà il loro rovesciamento di alleanze nella rivista Commentary in nome della lotta contro i totalitarismi. Nel suo articolo del 1978, « Dictatorships and Double Standards », colei che diverrà l’ambasciatrice all’ ONU di Ronald Reagan, affermerà che gli Stati Uniti hanno tutte le ragioni di sostenere le dittature militari in Sud-America. Tali regimi non sarebbero altro che dei sistemi politici autoritari che comunque lascerebbero più libertà di qualsiasi altro regime comunista. Di conseguenza, gli Stati Uniti devono imparare a fare distinzioni all’interno di questi regimi e, almeno temporaneamente, appoggiare quelle dittature che combattono i movimenti “totalitari”, assicurando, inoltre, la promozione degli interessi statunitensi. L’articolo fece ancora più rumore perchè proveniva da una democratica (la Kirkpatrick aderirà formalmente al partito republicano solo nel 1985) e perchè attaccava la politica straniera concepita da Zbigniew Brzezinski sul suo proprio campo di ricerca e di studio. L’ argomentario della Kirkpatrick servirà da base teorica alla politica straniera di Ronald Reagan.

Proponendo un quadro che permetteva di giustificare la politica straniera del blocco occidentale, di stigmatizzare i nemici in base ad un etica politica e morale e creando un modello assoluto presentato come antitetico rispetto ai valori della democrazia, il “totalitarismo” passerà, in soli cinquant’anni, da concetto esplicativo del fascismo a semplice termine di uso comune che permetterà di mistificare ogni avversario. Non avendo più alcuna pretesa scientifica, questo concetto sarà molto spesso utilizzato come sinonimo di “fascismo” e, secondo il metro di paragone offerto dal totalitarismo che assimila nazismo e comunismo, i comunisti diventeranno, alle volte, i “fascisti rossi” sotto la penna di certi autori occidentali. L'”antitotalitarismo” diventerà il nocciolo centrale dell’ideologia ufficiale della sinistra occidentale europea e uno di quegli aspetti che in Francia rientrerà sotto la terminologia di « pensée unique »(>) [27].

L’adattamento al dopo Guerra fredda

Tuttavia, con la fine della Guerra fredda, il termine “antitotalitarismo” perderà forza. La sua retorica sarà insita negli attacchi contro Cuba, la Corea del Nord, l’Iraq di Saddam Hussein o l’ex-Yugoslavia di Milosevic. In Francia, la ricerca sul comunismo della fine degli anni ’90 sarà nel frattempo marcata da un ritorno dell’assimilazione tra comunismo e nazismo con la pubblicazione di Passé d’une illusion di François Furet [28] e soprattutto l’uscita del Libro Nero del comunismo [29]. Quest’opera collettiva , la cui prefazione doveva essere proprio di F. Furet (il quale morì proprio quell’anno), ebbe invece un’introduzione di Stéphane Courtois. E proprio questa introduzione, moltiplicando le similitudini tra nazismo e comunismo, fece scandalo, provocando un dibattito fino nell’ Assemblea nazionale francese a causa della presenza di ministri comunisti in seno al governo di Lionel Jospin.

blank Oggi, con la “guerra al terrorismo”, assistiamo a una rinascita della retorica antitotalitaria. E, di nuovo, questa retorica viene utilizzata per fondare un’assimilazione tra regimi differenti oppure tra movimenti aventi qualche timido legame. D’altronde, questa volontà di far emergere la classificazione “totalitaria” nella “guerra al terrorismo”, si basa solo sulla connotazione politica o morale dell’epiteto. Si parla di “nuovo terrorismo” al fine di designare l’islamismo o il terrorismo islamico, ma in cosa rientrerebbe l’islamismo nelle definizioni di totalitarismo di Arendt, Aaron, Friedrich o Brzezinski? D’altronde, proprio quest’ultimo ha rifiutato il paragone, giudicandolo tanto inopportuno quanto nefasto a lungo termine per la politica statunitense ridicolizzandola.[30].

Ma checché ne dica Zbigniew Brzezinski, tale retorica presenta dei vantaggi a breve termine. Se ne contano quattro principali.

Innanzi tutto, presentare l’islamismo come un nuovo totalitarismo paragonabile al nazismo o al comunismo, drammatizza la situazione. Assimilando l’islamismo a sistemi politici come quello nazista o come quello comunista (che è poi una delle tesi centrali dell’orientalista Bernard Lewis [31]), si può inventare una minaccia giustificando così spese militari considerevoli. Il moltiplicarsi di parallelismi tra l’11 settembre e Pearl Harbour e il luogo comune degli editorialisti neo-conservatori o americanisti sulla accresciuta pericolosità del mondo di oggi in rapporto ai tempi della Guerra fredda, sostengono ugualmente questo punto di vista. Se l’islamismo è paragonabile al nazismo, è consigliabile essere pronti e disporre di forze militari adatte al futuro conflitto. Se l’islamismo rende il mondo più insicuro rispetto alla Guerra fredda, conviene avere un budget militare superiore rispetto a quei tempi.

D’altronde, assimilare islamismo, comunismo e nazismo permette di presentare i movimenti musulmani armati come unificati e operanti per lo stesso obiettivo. Ora, nulla nei fatti, permette di qualificare questi movimenti come reciprocamente collaboranti. Ma, per mezzo di quest’amalgama dentro un movimento “totalitario” o “fascista” musulmano, gli esperti mediatici trattano l’islamismo come un tutt’uno. E questo ha permesso loro, durante la quinta commemorazione degli attentati dell’11 settembre 2001, di parlare allo stesso modo degli attentati imputati ad Al Qaïda, della violenza “islamista” in Iraq, di Hezbollah “islamista”, e della “islamista” bomba nucleare iraniana. In una parola di “complotto” islamista contro “la” civiltà.

Per di più, presentare il conflitto come un nuovo confronto che oppone il mondo democratico ad un nuovo pericolo totalitario, permette di giustificare l’esistenza di una “naturale” alleanza del blocco occidentale, identificato con il mondo democratico. E portando avanti gli storici paralleli più o meno azzardati, fare degli Stati Uniti i dirigenti “naturali” del “mondo libero” che deve gioco forza organizzare la sua legittima difesa. Questo discorso si fonda sulla presentazione degli Stati Uniti come i grandi vincitori della Seconda Guerra mondiale (sminuendo dunque il ruolo dell’URSS in proposito) e della Guerra fredda.

Per ultimo, assimilare l’islamismo ad un totalitarismo ha pure un interesse volto a delegittimare il discorso di quanti rimettono in causa la vulgata della “guerra al terrorismo”. Se l’islamismo è un totalitarismo, coloro i quali rifiutano di combatterlo o di vedere in lui il più grande pericolo dei nostri tempi, sono forzatamente dei complici del totalitarismo stesso, quindi degli avversari della democrazia, da intendersi come dei potenziali criminali. Così, instaurando il parallelo con lo stalinismo, Caroline Fourest ha qualificato coloro che, in Francia, a sinistra, rifiutano le semplificazioni e le amalgame attorno all’islam e al terrorismo, come degli “inutili idioti” o dei “compagni di strada” dell’islamismo [32]. Da parte sua, Donald Rumsfeld ha accostato, il 29 agosto del 2006, gli avversari politici a quanti, prima della Seconda Guerra mondiale, proponevano l’apaisement con il nazismo [33]. Nè Melle Fourest, nè Rumsfeld sono gli unici a proporre tali paragoni.

Dunque non bisognerebbe più impiegare il termine “totalitarismo”?. Ogni velleità circa l’utilizzo di questa parola sarebbe condannata a servire la propaganda americanista? Certo che no. Tuttavia, come molti altri concetti, e senza dubbio più di tanti altri, la nozione di totalitarismo è da utilizzarsi con precauzione. Conviene conoscerne i limiti e non farsi rinchiudere all’interno della retorica di quanti ne fanno un arma politica per stigmatizzare i loro avversari o per giustificare le politiche colonialiste.

Cedric Housez: Specialista francese in comunicazione politica, redattore capo della rubrica “Tribunes et décryptages”.

Un grande grazie ad Annie Lacroix-Riz, professore di storia contemporanea all’Università di Parigi VII. La parte storica di questo articolo sulla nascita del concetto di “Totalitarisme” e i limiti di questo approccio sono merito suo.

Cedric Housez
Fonte: http://www.voltairenet.net
Link: http://www.voltairenet.org/article143295.html
19.09.06

Tradotto per www.comedonchisciotte.org da LORENZA MORGANTE e GABRIEL TIBALDI

Note:

[1] Qualche mese dopo l’11 settembre, l’editorialista neo-conservatore Alexandree Adler publicò J’ai vu finir le monde ancien (ho visto finire il vecchio mondo), nel quale già parlava di “fascismo musulmano”. « Je prétends donc que l’anti-américanisme d’aujourd’hui, sous des dehors vaguement progressistes, n’est qu’un conglomérat de vieux rêves évanouis sous les décombres du mur de Berlin – un sentiment fascisant qui, de fait, se trouve en sympathie avec le « fascisme musulman » propagé par les islamistes ». J’ai vu finir le monde ancien, Paris, Grasset, 2002 ; Hachette, Pluriel, p. 69. Ce livre avait reçu le Prix du livre politique de l’Assemblée nationale 2003 attribué par un panel d’éditorialiste en vue.

[2] « Koestler, notre contemporain », Michel Laval, Le Meilleur des mondes, n°1, Printemps 2006

[3] Il direttore è Olivier Rubinstein, il redattore in capo è Michel Taubmann e il comitato editoriale è composto da: Mohamed Abdi, Galia Ackerman, Antoine Basbous, Eve Bonnivard, Claire Brière-Blanchet, Pascal Bruckner, Jean Chavidant, Stéphane Courtois, Brice Couturier, Thérèse Delpech, Susanna Dörhage, Antonio Elorza, Myriam Encaoua, Frédéric Encel, Arié Flack, Cecilia Gabizon, Philippe Gaudin, André Glucksmann, Raphaël Glucksmann, Romain Goupil, Gérard Grunberg, Philippe Gumplowicz, David Hazan, Olivier Languepin, Max Lagarrigue, Michel Laval, Jacky Mamou, Barbara Lefebvre, Violaine de Marsangy, Jean-Luc Mouton, Kendal Nezan, Jean-Michel Perraut, Nata Rampazzo, Pierre Rigoulot, Olivier Rolin, Elisabeth Schemla, André Senik, Pierre-André Taguieff, Jacques Tarnero, Florence Taubmann, Bruno Tertrais, Antoine Vitkine, Marc Weitzmann, Ilios Yannakakis. Il capitale della rivista è diviso tra Éditions Denoël e l’associazione « Amis du Meilleur des mondes » il cui preside è André Glucksmann

[4] Vendre le « choc des civilisations » à la gauche », di Cédric Housez, Voltaire, 30 agosto 2005.

[5] Caricatures danoises et hystérie en trompe l’œil », Voltaire, 17 febbraio 2006.

[6] « Ensemble contre le nouveau totalitarisme », Charlie Hebdo, 1 marzo 2006.

[7] «Division » de la gauche : le « double langage » de Caroline Fourest », di Cédric Housez, Voltaire, 25 novembre 2005.

[8] Nel reportage, in cui vi era un forte sostegno per Israele da parte dell’autore, che venne realizzato per Le Monde durante il periodo della Guerra di Tsahal contro il Libano, BHL scrisse : « ce fascisme à visage islamiste, ce troisième fascisme, dont tout indique qu’il est à notre génération ce que furent l’autre fascisme, puis le totalitarisme communiste, à celle de nos aînés… ».( La guerre vue d’Israël », di Bernard Henri Lévy, Le Monde, 27 luglio 2006.)

[9] « Disproportion ? », Le Point, 20 luglio 2006 e « Disproportion, suite », Le Point, 3 agosto 2006

[10] « La guerre vue d’Israël », art. citato

[11] « Hezbollisation », Le Point, 10 agosto 2006

[12] vedi a questo proposito : « Complot terroriste au Royaume-Uni : que se passe-t-il vraiment ? » di Craig Murray ; « Fabriquez vous-mêmes votre bombe au TATP » di Thomas C. Greene « ; Le mensonge des attentats à l’explosif liquide », di James Petras, Voltaire, 18, 21 e 29 agosto 2006.

[13] « Cinq remarques sur le désastre (évité) de Londres », Le Point, 17 agosto 2006

[14] « Günter Grass en sa débâcle », Le Point, 24 agosto 2006.

[15] À titolo di esempio, possiamo far riferimento a ciò che scrisse nell’editoriale del Weekly Standard all’inizio degli attacchi israeliani contro il Libano: « It’s Our War », di William Kristol, Weekly Standard, 15 luglio 2006. Questo testo è stato analizzato nella rubrica di Voltaire Tribunes et décryptage : « Damas, Téhéran et le Hezbollah sur le banc des accusés », Voltaire, 25 luglio 2006.

[16] « Interview de Luc Ferry par Jean-Michel Apathie », RTL, 7 febbraio 2006.

[17] « Terror ’is new totalitarianism’ », BBC, 13 marzo 2004.

[18] « L’Europe et l’avenir des relations transatlantiques », 19 novembre 2003.

[19] « Une intervention de l’OTAN en Iraq ne serait pas une bonne idée », di Joschka Fischer, intervista tradotta in francese dalle agenzie di stampa del ministero tedesco per gli affari stranieri, 28 maggio 2004.

[20] « President Bush Discusses Terror Plot Upon Arrival in Wisconsin », Servizio di stampa della Casa Bianca, 10 agosto 2006.
[21] « Rumsfeld Says Critics Appeasing Fascism », di Julian E. Barnes, Los Angeles Times, 30 agosto 2006.

[22] « Un « islamisme » télégénique », di Thomas Deltombe, articolo publicato nella rivista Actualis poi ripresa dal sito lmsi.net, settembre 2004.

[23] Vedi Ian Kershaw, Qu’est ce que le nazisme ?, Paris, Gallimard, 1992-1999, capitolo 2 : « Le nazisme : un fascisme, un totalitarisme ou un phénomène unique en son genre ? » e Pierre Ayçoberry, La question nazie, Les interprétations du national-socialisme, 1922-1975, Paris, Seuil, 1979, chapitre. 3 « Les armes de la Guerre froide »

[24] Démocratie et totalitarisme, cap. XV : « Du Totalitarisme ».

[25] « Quand la CIA finançait les intellectuels européens », di Denis Boneau, Voltaire, 27 novembre 2003.

[26] Citato in La question nazie, Les interprétations du national-socialisme, 1922-1975, op. citata (p. 185-186)

[27] « La face cachée de la Fondation Saint-Simon », di Denis Boneau, Voltaire, 10 febbraio 2004.

[28] Le Passé d’une illusion, Paris, Laffont/Calmann-Lévy, 1995

[29] Le Livre Noir du communisme, Paris, R. Laffont, 1997.

[30] « Do These Two Have Anything in Common ? », di Zbigniew Brzezinski, Washington Post, 4 dicembre 2005. Questo testo è stato trattato nella rubrica di Voltaire Tribunes et décryptage : « L’OTAN à l’heure du « Choc des civilisations » », Voltaire, 14 dicembre 2005.

[31] Sul lavoro di Bernard Lewis, vedi : « La « Guerre des civilisations » », di Thierry Meyssan, Voltaire, 4 giugno 2004.

[32] La Tentation obscurantiste, Paris, Grasset, 2005. p. 9.

[33] « Rumsfeld Says Critics Appeasing Fascism », di Julian E. Barnes, Los Angeles Times, 30 agosto 2006.

Per la consultazione dei lavori citati nelle note si rimanda ai relativi link presenti nell’articolo originale

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Manifesto antibolscevico, Mano Miltiades, 1919.

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