Di Jacopo D’Alessio, ComeDonChisciotte.org
“After hours” (1985 – “Fuori orario”), di Martin Scorsese, si apre con la scena in cui un impiegato, appena assunto presso un’agenzia stampa di New York, racconta la propria ambizione di aprire una casa editrice creativa e indipendente al collega più anziano, Paul Hackett (Griffin Dunne), mentre quest’ultimo lo sta istruendo su delle banali mansioni giornaliere da svolgere al computer. Poi, con una lenta panoramica in soggettiva che getta lo sguardo su tutto l’ufficio, il punto di vista di Hackett, accompagnato dall’ “Aria sulla 4a corda” di J. S. Bach (https://youtu.be/yEKOx9OHEz8), polverizza in pochi istanti le fantasie velleitarie del nuovo arrivato. Difatti, l’unica prospettiva credibile per entrambi sembra rimanere soltanto quella del lavoro che si trova davanti ai loro occhi, pervasa da una logica alienata, percepita con evidente distacco.
È uno dei pochi momenti del film in cui la consapevolezza del personaggio coincide con quella onnisciente dell’autore nella medesima accettazione dei propri limiti sull’impossibilità di controllare la realtà fuori di Sé, nonostante la quale Hackett, la sera stessa, si lancerà egualmente alla disperata ricerca di una collocazione all’interno di questo grigio mondo quotidiano. Perciò, le questioni che lo assilleranno per il resto del suo viaggio attraverso la notte newyorkese saranno: che cosa vuole da me l’Altro? Potrà capire chi sono e qual è il mio desiderio? E sarà in grado di rispondermi?
Tali domande non possono che scaturire a cominciare dall’incontro fortuito in un fast-food tra il protagonista e una bellissima sconosciuta, Marcy (Rosanna Arquette), che in seguito ad una chiacchierata entusiasmante, lo invita a raggiungerla più tardi nel suo appartamento a SoHo, al centro di Manhattan. Il fatto è che però la donna diverrà per Hackett soltanto la prima di una lunga serie di creature sfuggenti e misteriose, un significante vuoto, incapace di rimandargli indietro le risposte che sta cercando.
Per esempio, i libri di infermieristica che Marcy stava leggendo in camera sua gli suggeriscono che la ragazza, nonostante l’aspetto attraente, stia cercando di nascondergli un corpo sfigurato da gravissime ustioni. Inoltre, le sue continue indecisioni, che si sostituiscono ai gesti di seduzione precedenti, e la telefonata di un presunto fidanzato nel pieno della notte, spingono Paul ad andarsene via all’improvviso, piuttosto infastidito. Questo perché Hackett, semplicemente, non si è reso conto di trovarsi di fronte ad una persona vulnerabile ed insicura. Per l’appunto, Marcy si trova nel mezzo di una crisi relazionale e, sentendosi abbandonata anche dal nuovo amico, ingerisce per sbaglio una dose eccessiva di tranquillanti finendo così col perdere la vita. Solo più tardi, quando Paul ritorna nuovamente per caso in quell’appartamento, e troverà il suo cadavere, scoprirà che, al contrario delle sue paranoie, la pelle di Marcy è in realtà priva di cicatrici, e appare invece liscia come se fosse stata ricoperta di porcellana.
Dunque, l’Altro, incarnato nella fitta rete di uomini e donne incrociati in questo universo notturno, rimarrà sempre indecifrabile, in un susseguirsi di episodi caratterizzati da puntuali rovesciamenti del proprio orizzonte d’attesa. Altrimenti, sarà Hackett ad essere frainteso, quando, in un’altra circostanza, alcuni personaggi persecutori lo scambieranno per un ladro di appartamenti e pertanto, alla guida di una folla inferocita, cominceranno ad inseguirlo per le vie della città col fine di farsi giustizia da soli.
Fino a quando, di fronte a tale persistente alterità muta, Hackett rinuncerà alla pretesa di comprenderla e, con una resa incondizionata, il suo unico scopo diverrà ora quello della mera sopravvivenza: “Io voglio vivere”, sussurra sconfitto all’orecchio di June (Verna Bloom), mentre balla con lei sul palco vuoto di una discoteca in procinto di chiudere a conclusione della serata, dove la donna deciderà di ricoprirlo dalla testa ai piedi di cartapesta per camuffarne le sembianze e metterlo così al riparo dai vigilantes che, nel frattempo, sono entrati prepotentemente nel locale con l’intenzione di linciarlo. Tuttavia, anche June si presenta come l’ennesimo personaggio femminile incapace di rispondergli, che dispiegherà di nuovo la completa indifferenza di un dio del Vecchio Testamento. Difatti, mentre dapprima sembrava aver disposto Hackett all’interno della statua per proteggerlo, successivamente invece, quando ormai il ragazzo è fuori pericolo, si dimentica di lui e lo abbandona da solo, rinchiuso ancora nel guscio di carta.
Ebbene, se il nostro desiderio si realizza nella misura in cui viene riconosciuto dal desiderio di un’altra persona (ovvero, si tratterà sempre del desiderio di un desiderio tra almeno due soggetti), Hackett, al contrario, ha dovuto intraprendere un viaggio per scoprire come tale dialettica tra sé e l’umanità che lo circonda sia stata irrimediabilmente recisa.
Quando però sembra ormai tutto perduto, sopraggiungono nella discoteca anche gli autentici autori dei furti che trovano la statua di cartapesta. E convincendosi che si tratti della tipica opera bizzarra contemporanea, ma d’inestimabile valore, la rubano, tirando fuori così involontariamente di lì anche Paul, senza sapere però che vi si trovi nascosto al suo interno. La conclusione circolare, con l’artificio del ‘deus ex machina’, ricorda ovviamente quella della tragedia greca che, con le prime luci dell’alba, riporta la scena sul luogo dal quale era cominciata tutta la vicenda. Qui, sempre accidentalmente, a causa stavolta di una buca sull’asfalto nella quale inciampa il furgone degli scassinatori, il pupazzo di carta viene scaraventato al di fuori del veicolo e si rompe, lasciando finalmente libero Hackett davanti all’agenzia stampa presso la quale lavora.
Di primo acchito, l’epilogo tautologico sembra escludere in questo modo qualsiasi cambiamento di sorta nella vita del personaggio, lasciando l’impressione che sia rimasto appunto senza risposte, orfano della verità. Viceversa, è solo al termine del suo viaggio che è potuta emergere un’esperienza davvero significativa, proprio nel momento in cui allo spettatore, tuttavia, si è rivelata vuota. Perché è tale contenuto vuoto (cioè, la consapevolezza della mancanza di risposte) l’unica autentica verità che per l’uomo moderno è lecito aspettarsi di ricevere dall’Altro.
E’ questo, in fin dei conti, ciò che sta a testimoniare l’ “Aria sulla 4a corda” all’inizio del film, quando accompagna solennemente il disincanto sul mondo del nostro anti-eroe. Ovvero, che l’arte (incluso lo stesso cinema di Scorsese) riesce ancora a donarci un significato soltanto mentre denuncia paradossalmente il suo venire meno. Nonostante quindi il tedio che divora quell’ufficio, anche nella modernità la forma estetica continua lo stesso a mantenere la funzione di raffigurare un’immagine esemplare ed organica dell’esistenza sia pure quando quest’ultima ne ha smarrito il senso ed appare ora, nel suo contenuto, del tutto assurda.
Di Jacopo D’Alessio, ComeDonChisciotte.org
—
Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org