DI GIULIETTO CHIESA
La decisione di ieri sera della Corte suprema ucraina che fissa già il voto per un nuovo ballottaggio al 26 dicembre annullando i risultati del secondo turno del 21 novembre scorso – solo di quello, non già delle presidenziali al completo – sposta l’equilibrio verso la vittoria politica dell’opposizione guidata da Yushenko. Il duo Kuchma-Putin risulta sconfessato. E con esso, a quanto pare, un’ipotesi di compromesso in un paese che resta ancora più spaccato. Nell’Europarlamento mi trovo seduto accanto a un deputato polacco. «Come pensa che vada a finire in Ucraina?», gli chiedo. Lui sorride, alza le spalle: «E’ tutto come dev’essere. Ogni volta che un impero crolla provoca spasimi. Non si può essere condiscendenti verso la Russia. Avrà quello che si merita». Questo è stato l’atteggiamento di questa Europa molto «americana» verso la crisi in Ucraina. E il recente dibattito nel parlamento europeo lo ha confermato. Il tutto all’insegna del sostegno alla volontà del popolo, alla libertà, alla democrazia, ai «nostri valori» che – come insiste il deputato polacco – «sono così ovvi che non occorre neppure spiegarli».
«Elezioni falsificate», hanno dichiarato gli osservatori dell’Osce. E’ certo che lo siano state, e ci sarebbe da stupirsi del contrario dato che gran parte di quelle effettuate in questi anni nello spazio post-sovietico hanno seguito la stessa sorte. Solo che non è affatto evidente che i falsificatori siano tutti da una parte sola. Yanukovich ha avuto risultati oltre il 90% in due regioni, Yushenko in tre.In ogni caso, gli osservatori Osce sono i meno credibili di tutto il circo Barnum che celebra televisivamente la «rivoluzione arancione», mostrando le masse che manifestano per «il candidato pro-occidente» e non mostrando quelle che manifestano per il «candidato filo-russo». Due anni fa gli osservatori Osce, molto disattenti, dichiararono del tutto valide le elezioni parlamentari in Ucraina. E a gennaio di quest’anno nessuno di loro si stupì del fatto che Mikhail Saakasvili era divenuto presidente della Georgia con un plebiscito di oltre il 96% dei suffragi. Improntitudine da tempi sovietici che non impedì agli osservatori Osce – ricorda John Laughland sul Guardian – di concludere che «il paese si era avvicinato agli standards internazionali».
La tesi propinata dai media, quas tutti, è che Mosca «ha influito pesantemente» dall’esterno. Il che è vero, prima, durante e dopo, ma tutti o quasi trascurano che il gruppo Pora non è una congrega di volontari entusiasti e – esattamente come lo furono Otpor in Serbia e Kmara in Georgia – è stato creato e finanziato da fondazioni di Washington, a partire dal National democratic Institut di Madeleine Albright. La differenza è stata che le pressioni di Mosca sono state, come al solito, rudi e plateali. Quelle dell’Europa e degli Stati Uniti sono state fatte sotto forma di «aiuti», scambi culturali, «grants» generosi a istituti di ricerca e culturali. Molto più efficaci, ma non meno pervasive.
Viktor Yanukovic è stato capo del governo con Kuchma, come lo è stato Viktor Yushenko: stessa banda, stesse élites oligarchiche che hanno già addentato la torta ucraina esattamente come hanno fatto le loro sorelle russe con la torta russa.
L’Occidente – e l’Europa è parte in causa in questa commedia che minaccia di trasformarsi in tragedia – applaude Viktor Yushenko, la cui pasionaria Julia Timoshenko è una miliardaria grazie ai favori di un primo ministro ucraino, Pavlo Lazarenko, suo protettore, finito in carcere negli Stati Uniti per riciclaggio ed estorsione; e il cui mentore è il ricco magnate della tv Piotr Poroshenko, patron di Canale 5 ucraino.
Quanto basta per misurare all’ingrosso di che qualità saranno i futuri dirigenti della nuova Galizia, che avrà per capitale la Kiev in cui nacque la Russia. L’Occidente sceglie questi , come applaudì Boris Eltsin mentre bombardava il parlamento russo. In mezzo ci sono 49 milioni di ucraini, una cui metà è fatta di cittadini che parlano russo, pregano ortodosso, e hanno già visto – per esempio nel Baltico – che fine farebbero se l’Ucraina scivolasse tutta intera verso questa Europa e l’America. Nel 1991 votarono quasi tutti (oltre il 92%) per l’indipendenza dalla Russia, ma qualcosa hanno imparato nel frattempo. Certo che la Russia non è democratica affatto e non li entusiasma, ma temono di diventare cittadini di seconda classe nel loro paese, avviliti, negletti. Quanto al tenore di vita, Yushenko non promette niente di più di Yanukovich (e di Putin).
Tenerli tutti dentro la nuova Galizia sarà oltremodo difficile e può diventare impresa sanguinosa. George Bush, e la commissaria europea Ferrero-Waldner, con eguali parole, affermano ora perentoriamente che occorre che «la volontà del popolo ucraino sia rispettata» e che «non devono esserci interferenze esterne». Non c’è nulla da contrapporre a questa richiesta. Ma esse ci sono, e pesanti, da est e da ovest. E, inoltre, perché quella volontà sia accertata, è indispensabile che essa tenga conto della maggioranza e della minoranza degli ucraini, altrimenti si andrà a uno scontro dalle proporzioni incalcolabili.
Se si auspica – come era scritto fino all’ultimo momento, ed è stato tolto solo in extremis nella mozione approvata a larga maggioranza dal parlamento europeo – che l’Ucraina «trovi il suo giusto posto nella comunità Euro-Atlantica», si cerca faziosamente la rissa e si vuole imporre una soluzione di forza. E l’Europa si consegna di nuovo nelle mani di Washington, come fece nella crisi jugoslava – salvo poi trovarsi la nuova Europa dell’est schierata in armi nell’ultima guerra preventiva dell’Impero americano. Poi è passata, al suo posto, insieme ad affermazioni inaccettabili sulle responsabilità della sola Russia nella crisi a Kiev, la frase in cui almeno si auspica che l’Ucraina «occupi il posto che gli spetta nella comunità delle nazioni democratiche».
E’ ancora possibile a questo punto un compromesso? Un compromesso è sempre possibile, se le parti lo vogliono. E le parti non sono soltanto i sostenitori di Yushenko e di Yanukovic. Ci sono anche le parti esterne. Se si punta a una soluzione netta, che preveda una collocazione inequivocabile dell’Ucraina o da una parte o dall’altra, dalla parte della Russia o da quella dell’Europa (e della Nato), la probabilità di uno scontro e di una divisione del paese saranno altissime.
Se ci si muove come pensa il deputato polacco (scelto come paradigma di una opinione largamente maggioritaria a Bruxelles), e si vuole infliggere alla Russia una «salutare punizione», allora bisognerà valutare le conseguenze. Le ultime dichiarazioni di Putin, dopo l’incontro con Kuchma a Mosca, dicono che la Russia non ha molte carte da giocare, ma non è disposta ad abbandonare la sua influenza nel proprio «cortile di casa». Il presidente russo ha un progetto: ricostruire gradualmente una Grande Russia attraverso l’avvicinamento di Russia, Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e Armenia. E’ una strategia che andrebbe irrimediabilmente in frantumi senza l’Ucraina. E non è ragionevole, né saggio, credere che vi rinunci. Questa per lui è l’ultima trincea, oltre la quale lo stesso destino di Putin verrebbe messo in causa.
C’è, in Europa e negli Stati Uniti, chi pensa di potervelo costringere. Neanche questo è ragionevole e saggio, perchè implica gravi, forse gravissime conseguenze: nei rapporti tra Europa e Russia e tra Russia e Stati Uniti.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.ilmanifesto.it
4.12.04