DI LAMEDUCK (BLOG)
Il 24 marzo 1980, mentre sta dicendo messa e celebrando l’Eucaristia, monsignor Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di El Salvador divenuto il difensore dei diritti dei campesinos, viene ucciso da un colpo di fucile sparato da un uomo appartenente ad uno squadrone della morte agli ordini del maggiore Roberto d’Aubuisson, leader del partito di estrema destra ARENA.
Il percorso che conduce Romero al martirio è quello proprio dei santi, che in principio non immaginano nemmeno di poterlo diventare un giorno.
Di origini umili, è figlio di un telegrafista, da ragazzo lavora come garzone per un falegname. E’ un bravo ed umile seminarista e un prete molto tradizionalista. Anche quando si trasferirà nella capitale El Salvador come segretario della Conferenza episcopale salvadoregna rimarrà assolutamente fedele a Roma. Piace agli oligarchi perché si oppone alla nascente “teologia della liberazione” degli “eretici” Boff e Camara.
E’ un prete comodo che non si oppone e che obbedisce senza discutere. Da direttore del giornale diocesano Orientacion attacca il progressismo e tutti coloro che vogliono opporsi allo status quo. E’ quasi un reazionario.
Nei feroci anni ’70 sudamericani dell’Operazione Condor, la violenza in El Salvador diviene però spietata e selvaggia e colpisce soprattutto i campesinos, che chiedono sempre più ad alta voce giustizia. Il 5 marzo del 1977 Romero è nominato arcivescovo di San Salvador. Lo stesso giorno l’esercito spara su cinquantamila persone riunite in piazza per protestare contro dei brogli elettorali. Un centinaio di persone che si erano rifugiate nella chiesa del Rosario muoiono soffocate dai lacrimogeni lanciati dai militari.
La sempre più frequente vicinanza al lutto, alle tragedie e al dolore dei suoi fratelli scava nell’animo di monsignore, che piano piano, come un Don Abbondio che conquista il coraggio che non si sarebbe mai potuto dare, accetta di mettere in discussione le proprie certezze e di cambiare la propria visione del mondo.
Il punto di non ritorno è l’assassinio del padre gesuita Rutilio Grande, suo amico e parroco di Aguilares, centro agricolo poverissimo. Davanti al cadavere di Padre Rutilio, come un cieco che improvvisamente riacquista la vista, Romero vede in tutta la loro crudezza l’ingiustizia, l’oppressione dei poveri, la violenza sui corpi e sulle menti, le torture e i morti. La luce fa male, e lui non può più tacere nè soffocare il proprio dolore empatico.
Nei tre anni che lo separano dall’appuntamento con una morte preannunciata in vari modi, tanto che una volta dirà: “Se mi uccidono risorgerò nel popolo salvadoregno”, denuncia le torture e gli omicidi, parla alla radio, sostiene attivamente l’opera di Marianella Garcìa Villa, l’avvocato che raccoglie tutte le denunce contro la violazione dei diritti umani. Conforterà Marianella dopo la brutale violenza che i militari le faranno subire.
Va perfino a Roma con un corposo dossier sui crimini contro l’umanità nel suo paese a chiedere al Papa aiuto e comprensione. Ne riceverà solo un paternale rimbrotto: “Lei, signor arcivescovo deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo paese…” e un freddo invito a non opporsi alla lotta contro la sovversione.
Il santo subito negherà al vero santo, ma mai riconosciuto tale, l’aiuto per il suo popolo disperato.
Non solo, ma quando verrà pubblicato il cosiddetto terzo segreto di Fatima, il Papa polacco ruberà la scena e vorrà vedere se stesso nel vescovo vestito di bianco che cade sotto i colpi dei soldati ai piedi della croce e non piuttosto il monsignore sudamericano, morto veramente da martire sull’altare, con il proprio sangue che si mescola nel calice a quello di Cristo.
Il giorno prima di essere assassinato, domenica 23 marzo, nell’ultima omelia diffusa per radio, Romero aveva detto: “Durante la settimana, mentre vado raccogliendo le grida del popolo, il dolore per così grandi delitti, la ignominia di tanta violenza, chiedo al Signore che mi dia la parola opportuna per consolare, denunziare, chiamare a pentimento (…). Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. (…) In nome di Dio, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!”.
Il martirio di monsignor Romero nasce dal suo essersi ribellato all’ordine costituito sia clericale, le gerarchie vaticane, sia secolare, incarnato dal potere dittatoriale allevato e nutrito a pane ed anticomunismo dalla School of the Americas di Fort Benning, USA. Quel potere oligarchico e fascista che doveva a tutti i costi impedire che i popoli sudamericani si emancipassero dalla situazione di sfruttamento e asservimento feudale nel quale avevano sempre vissuto. Un potere a parole difensore dei valori cristiani ma tanto sprezzante nei confronti di Cristo da arrivare a sparare ai preti sull’altare.
Da quell’ultima messa sono trascorsi ventisette anni, durante i quali sono stati nominati 456 santi e 1288 beati ma non Monsignor Romero, non abbastanza santo per un Vaticano timoroso di riconoscere un vero martire dell’anticomunismo.
D’Aubuisson, prima di morire di cancro, impunito per i suoi crimini, nel 1984 ricevette a Washington un’onorificenza da parte di alcune organizzazioni conservatrici per il suo “contributo alla lotta contro il comunismo e per la libertà”.
Qui di seguito due estratti video da una puntata di “La storia siamo noi”:
L’ultima omelia e L’assassinio di Monsignor Romero