ROMA' DE ROMA (II)

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DI MIGUEL MARTINEZ
Kelebek

Peccato, a volte, non guardare la televisione. Perché mi dicono che a quella trasmissione che la nostra amica e commentatrice Maria chiama “Porca a Porca“, c’era, ieri sera, Gianfranco Fini, che non è Calderoli.

E Gianfranco Fini ha citato con ammirazione il comportamento del sindaco di Bucarest, che avrebbe “spianato” (a suo dire) i “campi nomadi”.

Ora, se i campi di Bucarest sono stati “spianati”, ma i loro abitanti lasciati in vita, logica vorrebbe che queste persone siano andate altrove.

E infatti, da Bucarest sono andate, anche, a Roma. Dove altre ruspe stanno “spianando” di nuovo in questi giorni.

La Romania ha circa 23.000.000 di abitanti. Ufficialmente, 500.000 di questi sono Rom; ma le Nazioni Unite stimano che i Rom con cittadinanza rumena siano in realtà tra gli 1,8 e i 2,5 milioni.

Forse questo fatto era ignoto a quelle masse che inveiscono contro l’ingresso della Turchia in Europa, ma che non hanno mai fatto il più piccolo banner sui loro blog per tenere fuori la Romania, cristiana, bianca e pure latina.

Però questi numeri dovevano conoscerli tutti i politici e gli economisti che hanno deciso che la Romania “entrasse in Europa”.

E se lo sapevano, devono aver valutato che la cosa andava bene per i loro interessi.

Innanzitutto, perché in Romania vivono ben 50.000 italiani.

Perché in Romania operano 14.000 piccole e medie imprese italiane sparse in tutto il paese, nonché la Pirelli, l’Ansaldo, la Finmeccanica e l’Enel.

E perché nella sola città di Bucarest, operano ben 180 (centottanta!) ristoranti italiani.[1]

I soldi si fanno sempre sui dislivelli, sui divieti, sulle differenze.

La nostra ricchezza certamente attira; ma attira anche la loro miseria.

Attira gli italiani verso la Romania; ma rende attraenti anche i rumeni. Perché miseria vuol dire disponibilità, disponibilità vuol dire che si lavora alle condizioni dettate dagli imprenditori.

E ci vuole soprattutto quella forma profonda di miseria, che non è solo economica, ma anche psicologica: la condizione del meteco. La persona che oggi lavora, ma non sa se domani avrà un reddito e quindi una casa; e perciò vive alla mercè. Meglio ancora se quella persona vive nell’incertezza persino della propria esistenza legale, in un mondo ostile sempre pronto a cacciarlo.

E’ nel vivere se stessi come reato potenziale, come oggetto di preoccupazione non del Ministero del Lavoro, ma del Ministero degli Interni, sempre sul filo del controllo e dell’espulsione, che si diventa disponibili.

Sento spesso gente che fa un confronto morale tra l’immigrato legale e quello clandestino.

Dove il primo sarebbe quello “onesto che pensa solo a lavorare“, cioè si annulla umanamente e culturalmente per meglio “integrarsi” e rendersi utile all’Azienda Italia.

Il secondo sarebbe, proprio in quanto clandestino, un criminale.

Nella realtà, cosa distingue il “legale” dal “clandestino”?

Semplicemente, la fortuna di essere arrivati per primi nelle immense file-lotteria per regolarizzarsi, cosa comunque possibile solo si ha – come avevano i meteci ateniesi – un protettore. Che, in tempi di continua trasformazione e precarietà, è un protettore del tutto inaffidabile.

Vuol dire che la clandestinità è utile quanto la legalità. I clandestini non devono essere cacciati, ma ognuno di loro deve sapere di essere cacciabile.

Walter Veltroni, il Messia del Nulla della sinistra, ha appena regalato immense concessioni edilizie a Francesco Caltagirone, il neo-suocero di Pierferdinando Casini. Quei cantieri dove ogni responsabilità si perde nell’infinita catena dei subappalti, non potrebbero nemmeno iniziare se non sfruttando proprio l’illegalità:

Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in un’auto che poi fanno cadere in scarpate o dirupi, non dimenticando di incendiarla prima. La somma che l’assicurazione pagherà verrà girata alla famiglia come liquidazione […]. Quando il mastro è presente il meccanismo funziona bene. Quando è assente spesso il panico attanaglia gli operai. E allora si prende il ferito grave, il quasi cadavere e lo si lascia quasi sempre vicino a una strada che porta all’ospedale. Si passa con la macchina si adagia il corpo e si fugge.”[2]

Chi vive a Carrara, racconta delle strade contorte che devono percorrere i camion che scendono dalla montagna, carichi di enormi lastre di marmo (per i nuovi ricchi della Cina), che talvolta finiscono per travolgere autisti e cavatori. Certo, si può mascherare da incidente anche la morte di un napoletano, ma quanto è più facile farlo, quando si tratta di un moldavo senza apparente dimora né parenti.

Siccome io con gli imprenditori ci vivo, so che è sbagliato fare i moralisti.

L’etica dell’impresa distingue tra successo e fallimento, non tra correttezza e scorrettezza.

Il mercato globale è un posto dove la minima differenza di prezzo fa la differenza proprio tra successo e fallimento.

Quando la concorrenza è sul filo del rasoio, chi osa l’illegalità, rischia poco e può vincere molto; e quindi è dall’illegalità che dipende l’Impresa Italia.

La mano sinistra, dicendoci che la globalizzazione è inevitabile, offre un serbatoio inesauribile di anonimi meteci riducibili in schiavitù; mentre la mano destra, dicendo che occorre salvaguardare i privilegi degli italiani, assicura che si perpetui la condizione di angoscia, di impotenza, di vergogna e di paura che caratterizza l’essere meteci.

Ecco perché l’Emergenza non si deve mai sciogliere. E’ cruciale che abbia natura arbitraria, perché tutto il meccanismo sta in piedi grazie all’incertezza del diritto.

L’ingresso in Europa di paesi poveri apparentemente cambia le cose: per incanto, i rumeni clandestini cessano di essere tali.

Ma il meccanismo della divisione tra legali e clandestini è così importante, che occorre riprodurlo di nuovo. E così, improvvisamente, anche i neo-europei vengono divisi: da una parte, quelli che hanno casa e “mezzi di sostentamento”, dall’altra, quelli che non ce l’hanno.

Disegniamo una piramide.

In alto, ci poniamo gli italiani ricchi. Che hanno ovviamente sia casa che “mezzi di sostentamento”. Giù giù a scendere, la cosa si fa sempre più complessa: il trentacinquenne che fa saltuariamente il commesso e per il resto è mantenuto con la pensione dei genitori ha “casa e lavoro”?

Poi iniziano i meteci. Che sicuramente lavorano, visto che tengono in piedi tutta la costruzione; e da qualche parte dormono. Dieci in una stanza affittata in nero – come tanti senegalesi che mandano avanti le fabbrichette toscane – significa “avere casa”?

E poi sotto… fare il manovale per cooperative che ti mandano di qua e di là, alternare tra il lavoro in regola e quello in nero, dormire in una baracca sotto i ponti, è “avere casa e lavoro”?

E la moglie di quel manovale?

La potenza del ricatto sta proprio nell’incertezza della risposta a tutte queste domande. E nel fatto che verranno rivolte solo agli stranieri, mai agli italiani: per cui anche l’ultimo degli italiani diventa in qualche modo garante dell’ordine/disordine.

Pierferdinando Casini visita un campo Rom a Roma. “E’ incredibile che queste scene si vedano a poche centinaia di metri da un quartiere residenziale“, dice.[1] E quindi, conclude, chi “non ha casa e non ha lavoro” va espulso immediatamente dall’Italia.

Seguite bene la sua logica: lui è cattolico (anche se poligamo seriale), e quindi visita gli ultimi. Ma il suo cuore è nel “quartiere residenziale” (costruito, forse, da suo suocero).

Vedere gli ultimi vicino al quartiere dei non ultimi gli fa lo stesso effetto che gli farebbe vedere una discarica di rifiuti tossici, o una vasta colonia di ratti. I ratti si possono sterminare con trappole ingegnose; ma i rifiuti umani, come quelli tossici, si possono solo spostare altrove.

Magari a Bucarest, dove le ruspe stanno già scaldando i motori.

Miguel Martinez
Fonte: http://kelebek.splinder.com/
6.11.07

Note:

[1] La Repubblica, 6.11.07.

[2] Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori 2006, p. 238.

VEDI ANCHE: ROMA’DE ROMA (I)

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