ROBESPIERRE: ANATOMIA DI UN FUNZIONARIO DELLA RIVOLUZIONE

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DI GIANLUCA FREDA

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“Guerre e rivoluzioni, zar e Robespierre, sono agenti organici della storia, il suo lievito di fermentazione. Le rivoluzioni vengono create da uomini d’azione, fanatici unilaterali, geni dalla mente ristretta”

(Boris Pasternak, “Il dottor Zivago”)

Nel tetro cuore della notte di quel 10 Termidoro anno II, mentre una pioggia scrosciante iniziava a cadere su Parigi e le truppe di Barras marciavano contro l’Hôtel-de-Ville per catturare Maximilien de Robespierre e condurlo alla ghigliottina, l’Incorruttibile stava riluttantemente preparando, insieme al fratello Augustin, a Couthon, a Saint-Just e a Le Bas, un proclama rivolto all’esercito, perché appoggiasse un ormai improbabile assalto alla Convenzione. I gruppi giacobini radunati in place de Grève, dai quali Robespierre si aspettava appoggio, si erano liquefatti uno dopo l’altro.

Nella foto: La ricostruzione del volto di Maximilien Robespierre (1758-1794) ad opera di Philippe Froesch e di Philippe Charlier (medico legale dell’Université Versailles Saint-Quentin),

Alcuni avevano deciso, con apposita votazione, di sostenere l’Assemblea; altri si erano improvvisamente scoperti rispettosi della legge, ricordandosi che un decreto del 4 dicembre proibiva loro di prendere ordini dal Comune e li poneva alle dipendenze del Comitato di Sicurezza generale; altri ancora si erano lasciati convicere a ritirarsi dagli emissari inviati dalle sezioni, dopo la pubblicazione del Messaggio al popolo francese preparato da Bertrand Barère. Lo stesso Robespierre, mentre redigeva con la forza della disperazione proclami che nessuno avrebbe mai letto, era profondamente esitante: lui che aveva sempre affermato di governare nel pieno rispetto delle disposizioni della Convenzione, come poteva adesso chiedere ai giacobini e all’esercito di agire contro di essa?

I gendarmi guidati da Pierre Dulac che fecero irruzione nell’Hôtel-de-Ville, lo trovarono così: titubante, sorpreso, indeciso, tormentato dai rimorsi. Un mediocre avvocato prestato alla rivoluzione posto improvvisamente di fronte alla propria debolezza, alla propria irrilevanza di esecutore.

Meno di quarantott’ore prima, egli aveva tenuto dinanzi alla Convenzione il discorso che gli sarebbe costato il comando della Francia e la testa. Un discorso ingenuo, politicamente folle, degno di un uomo non in grado di valutare né i rapporti di forza né le conseguenze delle proprie azioni. Lo aveva tenuto di propria iniziativa, senza preavvisare nessuno dei membri del suo stato maggiore, i quali, prevedendone l’impatto, lo avrebbero probabilmente sconsigliato. Un discorso che fu un doppio errore politico. In primo luogo, perché poneva sotto accusa e dunque con le spalle al muro alcuni tra gli uomini più potenti di Francia, facendo sentire sulle loro nuche il gelo metallico del rasoio nazionale; uomini come il massone Barère, il comandante in capo delle operazioni militari Lazare Carnot, l’amministratore delle finanze Pierre-Joseph Cambon, il presidente del Comitato di Sicurezza e capo del corpo di polizia Marc Vadier, il braccio destro di quest’ultimo, Jean-Pierre-André Amar, l’ex presidente della Convenzione Jean-Lambert Tallien; quest’ultimo forse meno potente degli altri, ma bramoso del sangue di Robespierre, poiché la sua amante, Thérésa Cabarrus, era stata fatta arrestare dal Comitato di Salute Pubblica.

In secondo luogo, il discorso di Robespierre appariva tanto più minaccioso perché reticente: a parte qualche rara indicazione esplicita (il discorso nominava senza mezzi termini Cambon, Mallarmé, Ramel) esso muoveva un’enorme quantità di accuse senza ricollegarle a specifici deputati, senza fare una vera e propria lista di nomi, al punto che qualunque membro della Convenzione, a questo punto, poteva sentire sul collo la lama di Place de la Révolution. Un saggio uomo politico, dovendo proprio sfidare la sorte, avrebbe fatto una decina di nomi precisi, e avrebbe così evitato di attirare su di sé la furia terrorizzata dell’intera assemblea. Ma Robespierre non era saggio: viveva dei sogni e delle paranoie del leguleio prestato alla politica, non sapeva distinguere tra dissenso e tradimento. Il suo discorso esordiva con le parole: “Io ho bisogno di dar sfogo al mio cuore, voi avete bisogno di sentire la verità…”. E di questo, in effetti, si trattava: dello sfogo rancoroso di un ingenuo, il quale credeva sul serio che una parola come “verità” potesse avere cittadinanza nella melma e nel sangue di un processo rivoluzionario.

Un abisso senza fine separa questo piccolo uomo dalla compiutezza politica, ad esempio, di un Lenin. A differenza del futuro pensatore di Simbirsk, Robespierre non possedeva un modello teoretico rigoroso, cioè un modello in grado di partire dall’analisi dei conflitti in corso per determinare con criteri scientifici le dinamiche dei rapporti economici, politici e sociali e definire, su questa base, la linea d’azione da intraprendere. Era invece un uomo d’intuito, dotato del grande pregio di saper marciare al passo con il meccanismo complesso della rivoluzione, ma totalmente sprovvisto della capacità di comprenderne il funzionamento e dunque di acquisirne il controllo.

A differenza di Lenin, Robespierre teneva in scarsa considerazione i concreti rapporti con gli ambienti di potere, con i vertici dell’economia, dell’esercito, dei servizi segreti, delle massonerie, se non per temerli ed esecrarli nei suoi discorsi. Non seppe sfruttare le pur rilevantissime conoscenze acquisite durante la sua direzione della Regia Accademia di Arras: il suo unico orizzonte politico era il moralismo, l’idealismo roboante delle sue arringhe, del tutto dissociato dalle effettive meccaniche della macchina di uno stato. Egli era l’Incorruttibile: onesto, corretto, pulito, del tutto estraneo allo sport preferito dai deputati della Convenzione, che era quello di approfittare della rivoluzione per arricchirsi. Questa sua pulizia morale, tuttavia, era, nell’habitat rivoluzionario, un grosso limite e non un valore aggiunto: valga in proposito il celebre aforisma machiavelliano: “Colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni”.

Robespierre era così preso dalla propria immagine da trascurare gli strumenti fondamentali della comunicazione e della propaganda. L’inizio del suo declino nell’immaginario popolare fu l’esecuzione della povera Nicole Bouchard, una servetta diciottenne dal viso di bambina, arrestata nel mucchio in casa di Madame de Sainte-Amarante, la quale gestiva una casa equivoca al Palais Royal. Quando se la vide comparire davanti e porgergli i polsi perché le venissero legati, Larivière, uno degli assistenti del celebre boia Charles Henri Sanson, guardò sbigottito il suo collega Desmorets e poi gli chiese: “E’ uno scherzo, vero?”. Quando gli fu risposto che non lo era, Larivière gettò a terra le corde, urlando: “Che la leghi qualcun altro! Non rientra nel mio mestiere giustiziare i bambini!”. Lo stesso boia Sanson, pallido come un morto, scese dal patibolo e se ne tornò a casa, lasciando ai suoi assistenti il compito di completare l’esecuzione. Scriverà quella sera nel suo diario: “I miei assistenti l’hanno spinta verso la lama; io mi sono girato dall’altra parte; mi tremavano le gambe e mi sentivo male. Martin, che era a capo di questa esecuzione, mi ha detto: “Lei non si sente bene. Vada a casa e lasci a me il resto”. Non ho risposto e sono sceso dal patibolo. Ero febbricitante e così spaventato che all’angolo di Rue Saintonge, quando una donna mi ha fermato per chiedere l’elemosina, ho creduto di vedere quella ragazzina davanti a me. Stasera ho avuto l’impressione di vedere macchie di sangue sul tovagliolo mentre ero seduto a cena”. Quando Nicole, sistemata sull’asse basculante che doveva spingerla sotto la lama, chiese a Martin: “Va bene così, signor carnefice?”, sulla folla che assisteva alle esecuzioni calò un silenzo di ghiaccio, orripilato, disgustato. L’aura di divinità che circondava Robespierre cessò di esistere in quel momento. Si iniziò a vociferare, a torto o a ragione, di una vendetta contro Madame de Saint-Amarante, dovuta alla gelosia. Lenin, nel gestire la repressione, pur feroce, contro indipendentisti, “bianchi” e anarchici, seppe salvaguardare molto meglio, tramite la propaganda, l’immagine della rivoluzione e dei suoi leader. Robespierre non capiva l’importanza dell’immagine: la sua vanità morbosa gli impediva di osservare se stesso con gli occhi degli altri, di valutare l’idea di giustizia dal punto di vista di un operaio che vede cadere nel cesto la testa di una bambina dai capelli insanguinati.

Anche nell’oratoria Robespierre non era abile quanto lo sarà Lenin. Quest’ultimo sapeva essere preciso, incisivo, tagliente; prima elettrizzava l’uditorio con una logica poderosa, poi se ne impadroniva completamente, trasfigurando il linguaggio pratico in linguaggio poetico. I discorsi di Robespierre si dividevano in due categorie: alcuni erano scritti in stato di grazia e possedevano la potenza e allo stesso tempo l’incisività della frase lapidaria. Emblematico, in questo senso, il suo Discorso per la condanna di Luigi Capeto del 3 dicembre 1792: “I popoli non giudicano come le corti giudiziarie, non emettono sentenze: lanciano la loro folgore; non condannano i re: li piombano nel nulla”. Per una buona metà, tuttavia, i discorsi di Robespierre erano prolissi, noiosi, zeppi di luoghi comuni. Alcuni erano di altissimo livello retorico e intellettuale, ma proprio per questo si situavano ben al di sopra della cultura del suo uditorio, strutturati com’erano su una logica che richiedeva una specifica preparazione filosofica per poter essere seguita. Lo salvava l’enfasi declamatoria, che rendeva spesso trascinanti le sue argomentazioni anche quando non risultavano comprensibili al pubblico. “Quando Robespierre parla”, scriveva Desmoulins sul giornale “Les Révolutions de France et de Brabant, egli non è un oratore ma “è il libro della legge che si apre: non sempre quello della legge scritta, ma quello della legge innata e scolpita nei cuori”.

Lenin era un rivoluzionario completo, scientifico nelle sue analisi, dotato di profondo senso pratico, conoscitore dell’arte oratoria, come dell’economia, come dell’organizzazione militare, perfettamente consapevole dell’importanza di una strategia e della necessità di sostenerla intessendo reti di conoscenze e relazioni, nonché procurandosi informazioni di prima mano direttamente dai centri di potere. Robespierre fu, tutt’al più, un rivoluzionario “di fase”: un uomo mediocre, dotato di intelligenza non analitica ma grossolanamente istintiva, manovrato da centri di potere più elevati, ossessionato da astrazioni intellettuali, piazzato temporaneamente alla guida della Repubblica al solo scopo di consentirle di assestarsi, di dotarsi di solide istituzioni, di impedirle di disgregarsi sotto la pressione della guerra esterna e delle insurrezioni interne.

Eppure l’abisso che separa Robespierre da Lenin è lo stesso che divide gli attuali apologeti della “ribellione al sistema” da un uomo pur mediocre come Robespierre. Perfino un personaggio di dubbio valore, un mediocre, un travet della rivoluzione come l’uomo di Arras, possedeva alcune doti irrinunciabili che sono del tutto sconosciute ai cialtroni che oggi s’improvvisano “antagonisti” e “critici dell’esistente”. Se questi idioti si prendessero la briga di annotare le qualità “minime” di un rivoluzionario pur modesto come Robespierre, forse una rivoluzione sarebbe oggi ancora pensabile, se non proprio possibile.

Punto primo: non si diventa rivoluzionari senza una ferrea capacità di autodisciplina. Penso ai moderni relitti di balera o di birreria che nel weekend, ubriachi fradici, si danno aria da “ribelli” tirando sampietrini contro vetrine di bar o contro gruppuscoli avversari. Costoro, in una rivoluzione vera, non avrebbero neppure il ruolo, scomodo ma utile, di carne da cannone, bensì soltanto quello di insignificanti vittime non registrate. Per poter essere a capo di qualunque cosa, da un circolo del cucito a un comitato rivoluzionario, occorre innanzitutto essere a capo di se stessi. Robespierre aveva acquisito la propria capacità di autocontrollo nella solitudine di orfano: sua madre era morta quando lui aveva sei anni, il padre lo aveva abbandonato presso alcuni parenti insieme al fratello Augustin e alle due sorelle Charlotte e Henriette, lasciando la professione forense e rendendosi irreperibile. Furono la sofferenza derivante dall’abbandono e la precarietà economica, sua e dei fratelli, a cui sentiva la responsabilità di porre rimedio, che lo portarono a modellare se stesso in quell’inflessibile archetipo comportamentale che conferì forza alle sue azioni e che ispirò l’intera sua vita. Contribuirono allo sviluppo della sua autodisciplina gli anni trascorsi presso il Collegio dei padri oratoriani di Arras, i quali imponevano ai propri studenti una rigida regola di vita e di studio.

Secondo: non si diventa rivoluzionari se si è analfabeti. Fanno ridere certi “ribelli” da forum telematico, con un lessico composto da 100 vocaboli scarsi, incapaci di esprimersi nel rispetto delle regole minime della grammatica e della sintassi. Le parole sono idee e chi possiede poche parole possiede poche idee. Grammatica e sintassi sono logica: la capacità di strutturare le idee in una sequenza chiara, coerente ed efficace, in modo da metterle in grado di interagire con la realtà, di diventare realtà. Robespierre, cresciuto in una famiglia di lunga tradizione legale e avvocatizia, comprendeva bene il potere delle parole e la loro capacità di dare forma al mondo. Aveva partecipato al suo primo concorso letterario a undici anni, quando studiava presso il collegio di Arras diretto dai padri oratoriani; aveva vinto a undici anni la sua prima borsa di studio, la quale gli aveva spalancato le porte del prestigioso Collegio Louis-le-Grand di Parigi. Qui aveva partecipato ad altri concorsi letterari, ottenendo “soltanto” tre secondi premi e sei menzioni d’onore. Era un mediocre, come si è detto, non un genio. Ma la capacità di manipolare la parola a suo piacimento gli aveva comunque conferito l’abilità di conoscere l’animo degli uomini e di giocare con le loro passioni, qualità essenziale per un rivoluzionario. I massoni chiamano “arte regale” questa dote: quella di saper manipolare i simboli – parole o immagini – per ottenere trasformazioni nella coscienza. Gli antichi la chiamavano con un altro nome: magia. Robespierre possedeva il magico talento, tipico di ogni trascinatore di folle, di catturare i suoi ascoltatori uno per uno, facendo leva sul loro desiderio di essere come gli altri, sulla loro paura di sentirsi isolati dal gruppo. I suoi discorsi erano a un tempo generalisti e colpevolizzanti: prima si crea, attraverso le parole, una generica realtà da abitare; poi, attraverso il senso di colpa, si spinge chi non ne fa ancora parte a sentirsi escluso, dunque debole. E’ la magia praticata dai “pubblicitari” di ogni epoca. Il mondo, da sempre, si divide in due: coloro che, sapendo gestire tale magia, acquisiscono capacità di dominio e coloro che, non conoscendo il potere delle parole, possono solo subirle.

Terzo: un rivoluzionario deve essere eclettico. Robespierre era cresciuto nel culto del pensiero scientifico, tipico dell’Illuminismo, ma aveva anche saputo comprendere che esistono altre forme di pensiero altrettanto essenziali. Una delle cause più celebri che egli perorò da avvocato, fu quella in difesa di un certo signor de Vissery, di Saint-Omer, il quale aveva fatto sistemare sul tetto della sua casa un enorme parafulmine, coronato da una raggiera di dardi metallici. I vicini, spaventati da quell’immenso apparato, lo avevano fatto rimuovere dagli scabini. Robespierre aveva chiesto in tribunale che il parafulmine venisse rimesso al suo posto, invocando la forza dei lumi e la superiorità della scienza, tuonando contro l’ignoranza del volgo che misconosceva la ragione. Eppure egli, che si era dedicato allo studio delle arti umanistiche, sapeva bene che il pensiero scientifico è solo una delle possibili modalità d’interazione col mondo. Se l’analisi scientifica del particolare permette di conoscere più approfonditamente la realtà, lo studio di modelli globali (l’antica Grecia, la Roma imperiale, la loro letteratura…) fornisce la flessibilità di pensiero necessaria ad agire in funzione del contesto in cui ci si trova di volta in volta ad operare. E’ difficile trovare personalità in grado di dar vita a profondi ripensamenti della realtà umana tra coloro che hanno compiuto studi specialistici: costoro hanno il grande merito di produrre le innovazioni tecniche che presiedono alla trasformazione, ma la loro applicazione concreta ad un progetto d’innovazione politico-sociale è quasi sempre rimessa alla duttilità di pensiero e all’ampiezza visuale di chi ha compiuto studi non specialistici. Robespierre, il paladino dei lumi, seppe comprendere l’importanza del pensiero religioso; seppe rendersi conto che il materialismo ateo della rivoluzione, propugnato con la devastazione dei luoghi di culto, la messa a morte dei sacerdoti, l’oblio imposto per legge sulle celebrazioni, la sostituzione delle effigi dei santi con quelle di Marat, Chalier e Lepeletier, avrebbe svuotato la Francia di tutto ciò che, pur non essendo materiale, era altrettanto essenziale alla vita, conducendola verso il baratro della degradazione sociale e umana. Tentò pertanto di restituire alla sua nazione la vitale sostanza metafisica che la ragione aveva colpito col suo anatema, elaborando quel pallido e carnevalesco riflesso della devozione che fu il “culto dell’Essere Supremo”. Era un mediocre, come si è detto. Ma “mediocre” e “stupido” non sono affatto sinonimi.

Quarto: pur non essendo un genio, Robespierre non era neppure un totale sprovveduto. Aveva pur sempre frequentato ambienti politici, non luppolerie; e questo gli permetteva di subodorare i tranelli, almeno quelli più tradizionali. Il suo limite era che ne subodorava troppi, anche dove non ce n’erano: forse perché trascorreva nel suo mondo mentale più tempo di quanto ne passasse a contatto con le sezioni. Comunque, quando gli hébertisti tentarono di “infiltrare” i club giacobini, creando apposite sezioni che chiedevano l’affiliazione ad essi, ma in realtà rispondevano ad un diverso comitato centrale situato all’Hôtel-de-Ville, Robespierre si accorse dell’inghippo e lo stroncò rapidamente. Essere rivoluzionari richiede un minimo di astuzia e di conoscenza dei trucchi del mestiere. Non è un lavoro per sciampiste o per degustatori di cocktail.

Quinto: perché una rivoluzione sia possibile, occorre in parte controllare, in parte infiltrare, in parte corrompere, in parte ricattare, in parte fidelizzare, gli uomini situati in posizioni chiave dell’apparato dello stato. Occorre cioè intessere una rete di relazioni di vario tipo con i punti nevralgici della nazione: l’esercito, la polizia, i servizi segreti, gli apparati produttivi, i centri finanziari, i mezzi di comunicazione, eventualmente i capi religiosi, eccetera. In questo Robespierre non era bravo. Tendeva a trascurare la gestione della guerra, della marina, della finanza, dei rifornimenti, rinchiudendosi nelle sue astrazioni universali. Lasciava che fossero altri a gestire i rapporti con i gangli vitali dello stato. In una cosa, però, le sue capacità relazionali eccellevano davvero: nel selezionare i membri e controllare l’attività del Comitato di corrispondenza, cioè dell’organo che, a sua volta, teneva le relazioni con i club giacobini periferici, imponeva loro le normative a cui attenersi, stabiliva le azioni da intraprendere e i comportamenti da tenere rispetto ad ogni problematica. Controllare il Comitato di corrispondenza significava controllare l’intero club dei giacobini: e Robespierre, da esperto burocrate, da politicante consumato, era un maestro in questo settore. Anche questa è intelligenza politica che viene solo dalla pratica, non dalle chiacchiere: la dote d’individuare il punto di manovra di un organismo complesso e imparare poi a gestirlo, allo scopo di dirigere l’insieme nella direzione desiderata.

Ultimo ma non meno importante: un rivoluzionario ha bisogno di quantità massicce di spregiudicatezza e pelo sullo stomaco. I “ribelli” piagnucolosi che invocano i “diritti umani”, la “coerenza”, il “rispetto delle opinioni altrui”, la “non violenza”, il “restiamo umani” e altre simili fesserie si dedichino al missionariato e lascino le rivoluzioni ai professionisti. La venerazione, certamente sincera, che Robespierre nutriva per la giustizia, l’eguaglianza, l’amicizia, la coerenza, non gli impedirono di mandare alla ghigliottina i suoi più fedeli collaboratori ed ex compagni di partito (o perfino di scuola, come Desmoulins) quando le ragioni dello stato lo resero necessario. Sottolineo: le ragioni dello stato, non semplicemente quelle della sopravvivenza politica personale. Gli uomini che facevano capo a Danton (Fabre d’Eglantine, Delaunay, Chabot, Thuriot, Delacroix, Julien e altri) avevano organizzato, a scopo di arricchimento personale, un sistema di speculazioni finanziarie al ribasso, di mazzette, di ricatti, che non solo coinvolgeva il cuore degli apparati commerciali e finanziari francesi, dalla Compagnia delle Indie, alla Cassa di Sconto, fino alla compagnia d’assicurazioni Incendie et Vie, ma forniva agli emissari dell’Inghilterra le chiavi per sabotare gli arsenali e gli impianti militari francesi. L’eliminazione di Danton e dei suoi amici era una questione di sicurezza nazionale, non semplice sete di potere. Il 15 febbraio 1793, Robespierre scriveva a Danton, il quale aveva appena perso la prima moglie, Antoinette: “Se, nel solo dolore che possa scuotere un animo come il tuo, la certezza di avere un amico tenero e devoto può offrirti qualche consolazione, io te la offro. Ti voglio bene più che mai e fino alla morte”. Poco più di un anno dopo, sarebbe stato proprio l’amico tenero e devoto a mettere il collo di Danton sotto la lama. Non si trattò, ripeto, di malvagità, ma di padronanza dell’arte della politica, la quale richiede sempre, a tempo debito, di mettere da parte il sentimentalismo per lasciare il posto alla ragion di stato.

Robespierre arrivò alla ghigliottina alle ore 17.00 del 10 Termidoro anno II (28 luglio 1794). Aveva la mascella frantumata da un colpo di pistola, forse sparato da lui stesso, in un maldestro tentativo di suicidarsi per non cadere vivo nelle mani dei nemici, forse esploso, come vuole la tradizione, dal gendarme Charles-André Merda, dal profetico cognome. Quando il boia gli sciolse il fazzoletto che teneva legato intorno alla testa, la mascella gli si staccò e cadde letteralmente a terra, in un’atroce eppure ironica parodia fumettistica dello sbigottimento. E’ ciò che spesso accade ai filosofi e agli animi nobili che si ritrovano di fronte alla tangibile bestialità della pratica politica. Dovendo dunque parlare di rivoluzione (solo parlarne, perché non ne scorgo, per adesso, la possibilità concreta), sarebbe meglio farlo avendo cognizione delle reali qualità che essa richiede ai suoi protagonisti; per non ritrovarsi un giorno, allibiti come Robespierre, a veder crollare al suolo mandibole che non potremo più raccattare.

Gianluca Freda

Fonte: www.comedonchisciotte.org

15.06.2016

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