REPUBBLICA: LA PARTE E IL TUTTO

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DI MIGUEL CANDEL, prof. Filosofia Univ. Barcellona

El viejo topo/Rebelión

Il moderno revival (impieghiamo l’inglesismo con tutta la -cattiva- intenzione) del repubblicanesimo sarebbe confortante se non venisse da dove proviene: dal mondo anglosassone. In effetti, in questo universo culturale ha predominato sempre – nel migliore dei casi- l’ideologia liberale, la quale mette al primo posto, non solo giuridicamente ma ontologicamente, questa astrazione che chiamiamo individuo (ci potrebbero richiedere di giustificare immediatamente perché qualifichiamo l’individuo come astrazione, quando nell’uso del linguaggio corrente lo si considera sinonimo della massima concretezza: questa giustificazione però si può dare solo come conclusione e non come premessa
del presente testo).
Il liberalismo, pensiero progressista per antonomasia nel secolo XVII, quando ciò che stava all’ordine del giorno era liberare il popolo dalla dominazione asfissiante della monarchia assoluta, raddoppiata in Inghilterra, per di più, dalla autorità religiosa, smise di compiere questa funzione a partire, come minimo, dalla Rivoluzione Francese.
Fu così proprio perché si trattava di una concezione politica pensata per società non industriali, nelle quali la distanza fra il produttore e il processo completo di produzione-distribuzione era minima, cosa che permetteva di parlare di una certa “autonomia” degli agenti sociali, capaci di controllare le mutue relazioni se non interveniva alcun meccanismo coercitivo esterno al congiunto economico. Era proprio questo meccanismo imposto alla società civile dall’alto che il liberalismo combatteva e che la Rivoluzione Francese fece saltare in aria.

Però nella nuova società che si andava creando a partire dalla metà del secolo XVIII, quella della grande manifattura, della grande azienda commerciale e, finalmente, l’industria e la banca a grande scala, il liberalismo era inutile, poiché già non rispondeva più agli interessi della grande massa lavoratrice alienata, ma solo a quelli degli strati sociali che conservavano o erano in procinto di conquistarsi un ampio margine di autonomia nel nuovo ordinamento, cioè la borghesia che gestiva e/o era beneficiaria del modo di produzione capitalista.

Nelle nuove condizioni sociali di atomizzazione e mutuo allontanamento degli agenti produttivi, inghiottiti tutti insieme dal Leviatano-Capitale, un programma politico che presupponesse, come era quello liberale, l’esistenza di cittadini liberi alla stregua degli artigiani e dei commercianti delle repubbliche italiane del Rinascimento o della Grecia e della Roma antiche, smetteva d’essere valido per la grande maggioranza della popolazione la quale non corrispondeva assolutamente più a questo archetipo.

Erano delle condizioni (ben poco corrette e altresì ben ampliate ai giorni nostri) per le quali risultava pertinente, più che nell’epoca remota in cui venne formulata, la sentenza aristotelica:

Naturalmente, orbene, la città è anteriore alla casa e a ognuno di noi, perché il tutto è necessariamente anteriore alla parte. Infatti, distrutto il tutto, già non ci sarà né il piede né la mano, se non con un nome equivoco, come si può dire una mano di pietra: comunque sarà una mano morta. Tutte le cose si definiscono per la loro funzione e le loro facoltà, ne consegue che quando queste già non sono tali non si può dire che le cose sono le stesse, se non dello stesso nome . Così ne consegue che è evidente che la città è per naturalezza anteriore all’individuo; perché se nessuno da solo è autosufficiente si troverà nelle stesse condizioni delle altre parti rispetto al tutto. Colui che non può vivere in comunità, o non ha bisogno di nulla per la sua propria sufficienza, non è membro della città, oppure è una bestia o un dio. (Nota 1)

In effetti, il moderno lavoratore salariato, privato di qualunque controllo sui mezzi di produzione, dipende dalla comunità, da tutto l’insieme di quella, in grado molto maggiore che qualunque dei suoi predecessori nella base della scala sociale.
E’ meno individuo che mai, di conseguenza il tentativo di determinare la sua natura ci obbliga a cercare nei remoti centri del potere l’origine delle linee di forza che convergono su di lui, centri di potere dei quali il presunto individuo ignora non solo l’essenza ma addirittura la stessa esistenza. A differenza però da ciò che occorreva nelle antiche monarchie, l’esercizio di questo potere non prende le forme di una intromissione esterna, ma sgorga dall’interno dello stesso processo di produzione.

Perciò nel capitalismo, da una parte, perde senso la distinzione fra società civile e Stato, mentre prende, in cambio, pieno significato la tesi aristotelica della anteriorità ontologica della città rispetto al cittadino. Un servo della gleba poteva sopravvivere e continuare a svolgere la sua funzione produttiva anche supponendo che scomparisse la sovrastruttura feudale nella quale era inserita la sua attività. Un salariato moderno scompare come tale e probabilmente perisce come essere vivente qualora crolli l’ordine capitalista di cui è un insignificante pezzo sostituibile ( a meno che, è chiaro, la scomparsa di questo sistema venga immediatamente seguita dall’apparizione di un sistema alternativo.)

A questo punto, il sospetto che si anticipava all’inizio di questa riflessione, cioè che il nuovo repubblicanesimo di origine anglosassone (esemplificato, fra altri, da Pettit) è una misera imitazione del vecchio liberalismo, viene confermato constatando che la “nuova” teoria politica premette, come criterio decisivo di qualunque società giusta, la cosiddetta “assenza di dominazione”. Non è altro, a mio parere, che una semplice riformulazione della concezione negativa della libertà, tipica del liberalismo, tanto politico come economico: lo Stato deve limitarsi a difendere l’autonomia degli individui. Però che senso ha quando la maggioranza dei presunti individui non sono realmente tali, perché mancano completamente di autonomia? Ha senso evidentemente, come abbiamo detto in precedenza, solo per l’elite. Però già Platone riteneva inaccettabile un’organizzazione sociale duale, che lui giustamente considerava non come una città, bensì come due città. Una teoria come quella pseudo-repubblicana, che pone dogmaticamente e antidialetticamente l’individuo prima della comunità, quando la sfera propriamente individuale si riduce, nella grande maggioranza dei casi, alla semplice unità biologica, finisce per giustificare e rafforzare questa dualità propria di ogni società di classi.

Una repubblica nel senso forte, classico, deve essere un tutto integrato, non la semplice somma delle parti. Un tutto in costante interazione dialettica con le sue parti, generatore di libertà positiva, che permetta giustamente che nel suo seno si costituiscano e crescano vere individualità.

Miguel Candel

30.06.2007

Nota 1: Aristotele, Politica, I 2, 1253ª18-29.

Fonte:rebelion.org

Link: http://rebelion.org/noticia.php?id=52697

Traduzione per Comedonchisciotte.org a cura di L.F.

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