QUESTO E' IL TEMPO DI EL CHE

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DI VALERIO LO MONACO

ilribelle.com

[…] Partiamo dalla fine: l’obiezione non è pertinente in sé. Perché parte da un presupposto impossibile, cioè che oggi si possa, mediante una qualche tipo di reazione non meglio specificata, incidere talmente a fondo nella società tanto da tornare a ottenere delle condizioni in qualche caso simili, se non migliori, di qualche decennio addietro, del periodo pre-crisi, per intenderci. E parte da una volontà che è, anche in questo caso, per quanto ci riguarda, ingiusta da perseguire, cioè che sia giusto e che si voglia tornare a come si stava allora.

E allora c’è bisogno di ripeterlo: quel mondo è andato. E non tornerà. Ed è un bene che sia così. Perché anche allora, quando si stava meglio, quando il denaro girava, quando la benzina costava di meno, quando il consumo sfrenato era possibile, era un mondo di merda. Un mondo che stava innescando in maniera irredimibile esattamente quello che si è poi puntualmente verificato. Solo in ordine sparso, e in maniera non esaustiva: le guerre per accaparrarsi le risorse, la competizione tra lavoratori, il definitivo degrado ambientale, e tutto ciò che queste macro aree hanno portato in dote. Anche qui, in ordine sparso: genocidi, suicidi, droghe, calmanti & antidepressivi, riduzione dello stato dei lavoratori, ondate migratorie come mai nella storia, inquinamenti in ogni ordine e grado, distruzione del tessuto sociale e della Terra sulla quale viviamo.

Era già allora un mondo tutto sbagliato, che ha portato immancabilmente al punto nel quale siamo oggi, e che non è il caso di rimpiangere né di anelare.

E allora, si chiede, che fare?

E allora suggeriamo la nostra modesta proposta, sulla quale battiamo praticamente da sempre. Posto che quel mondo già non andava bene; posto che a quello non si tornerà in ogni caso poiché siamo arrivati qui attraverso una traiettoria che è iniziata almeno dalla rivoluzione industriale e che dunque ha impiegato secoli per arrivare al punto nel quale siamo; posto che i problemi innescati dalla logica dello sviluppo infinito in uno spazio finito iniziano a presentarsi nella loro violenza ed evidenza, come ampiamente teorizzato dai pochi inascoltati ai quali peraltro non si è stati ancora in grado di replicare in modo convincente, ma li si è invece bellamente ignorati; posto che i due schieramenti in campo sono talmente diseguali da rendere impossibile qualsiasi tipo di reazione rivoltosa (da una parte l’1% che controlla armi, finanza, governi, denaro e media e dall’altra parte il resto del mondo che non ha quasi più neanche delle scarpe per camminare), ha ancora senso pensare e sperare in una rivoluzione che possa avere una pur minima probabilità di successo non diciamo nel breve ma almeno nel medio periodo? Per non parlare, poi, dei “danni permanenti” di cui sopra.

Certo, nel lungo termine potrà accadere qualsiasi cosa, non abbiamo mica la sfera di cristallo, figuriamoci se siamo così presuntuosi dal pre-vedere cosa accadrà in quel lontano futuro. Ma qui è del nostro tempo che parliamo. Magari di quello delle prossime imminenti generazioni, non certo di un futuro tanto sideralmente lontano dal non riuscire neanche a immaginarlo con la più fervida fantasia.

È di oggi che parliamo, ribadiamolo ancora una volta. Di domani, al massimo di dopodomani. Le carte in tavola sono queste, oggi. E non possiamo cambiarle. Possiamo sperare in qualche cambio in corsa, e parziale, come a poker, ma le carte sono queste. Tutto sta dunque nello scegliere come “fare il proprio gioco”. Le carte non ce le siamo scelte ma il gioco possiamo scegliercelo, almeno in parte, e sempre tenendo a mente – ovvio – le carte che abbiamo in mano.

I più si giocano la strategia dell’attesa e dell’attestarsi a più non posso. Attendono che si torni a stare meglio per non si sa quale artificio (un governo locale migliore, una manifestazione pacifica di piazza, una campagna su facebook, una riforma, un decreto legge di un certo spessore…) e nel frattempo si aggrappano a quello che hanno, a come vivono, cercando inutilmente di evitare ulteriori perdite di posizione. Magari si cercano un secondo lavoro, o accettano il primo sebbene sia a livello di schiavismo salariato ma no, al telefonino non rinunciano e neanche all’abbonamento a sky, figuriamoci all’automobile. Per questi l’obiettivo è tornare agli anni pre-crisi 2007-2008.

Altri – i puri che più puri non si può – sperano, e in qualche raro caso si adoperano anche, per una vera e propria rivoluzione. Sono i romantici, e ne abbiamo massimo rispetto, sul serio, almeno per gli intenti di partenza. Pensano che alla fine si creerà quella scintilla in grado di cambiare tutto, che ci sarà pur qualcuno (sempre gli altri…) che a un certo punto farà gruppo e massa per innescare una sommossa tanto grande dall’incidere sul serio contro i titani che governano e attendono a questo modello di sviluppo.

Altri ancora invece si sono convinti, nell’ordine, che: la battaglia, per il momento, e per quanto attiene la propria storia su questa terra, in senso generale è persa; le forze in campo sono troppo differenti; le menti dei ritornisti hanno ormai dei danni permanenti; le forze rivoluzionarie sono talmente poche, talmente sparpagliate, con intenti talmente differenti dal rendere impossibile qualsiasi tipo di reazione con speranze unitarie. E dunque, posto tutto ciò, capiscono che il solo terreno di azione immediata è su se stessi, sui propri cari, sulla comunità che hanno intorno e della quale fanno parte.

Ecco, questi siamo noi. E diradiamo subito la nebbia su un altro possibile malinteso: noi siamo convinti che sia necessario, anzi indispensabile e imprescindibile anche combattere sui fronti più grandi, ma che subito, immediatamente, l’unica cosa che è sul serio raggiungibile con risultati tangibili sia quella del cambiamento personale. Si arriverà a risultati incompleti e imperfetti – sempre in questo mondo viviamo – ma saranno risultati immediati, che potranno incidere immediatamente sulla nostra vita.

Una cosa non esclude l’altra, questo il punto. Sono entrambe importanti, fondamentali, queste guerre, ma l’una si può giocare unicamente nel lungo periodo, e dunque vale per questo soprattutto ciò che possiamo trasmettere ai posteri con l’esempio di questa nostra vita, gettando semi, magari, l’altra si gioca invece proprio qui e ora.

Non è fuga o accettazione, è invece ingaggio immanente e permanente.

Il punto è voler incidere sulla società nel suo complesso ma a partire da se stessi. E attraverso il cambiamento, non arrancando per inseguire il ritorno a una situazione in cui si ripropongono fatalmente i fondamenti stessi di quel sistema che si vuole rovesciare.

Lo ribadiamo ancora una volta: non sono i tempi, questi, per una rivoluzione. Questo è il tempo della ribellione, del sabotaggio, della guerriglia contro quanti più amuleti è possibile abbattere o aggirare e ridicolizzare dell’esistente. La si può anche chiamare rivoluzione, ma è cosa interiore, è cosa di quei pochi che condividono una visione del genere, è cosa fatalmente personale e al più allargabile alla propria comunità. Cosa replicabile, naturalmente, di persona in persona, di luogo in luogo, a macchia di leopardo e speriamo in quante pi&ugrav
e; parti del mondo sia possibile, ma mentre una riuscita globale è affare di lungo corso, non possiamo perdere di vista i limiti del nostro possibile ora. Il resto è vanagloria.

Questo non è il tempo degli eserciti, è il tempo dei manipoli. Questo è il tempo di “el Che”.

Valerio Lo Monaco

Estratto da: Rivoluzione,Ribellione e “danni permanenti

Fonte: www.ilribelle.com

6.10.2014

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