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DI PAOLO BARNARD
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“Quella sera di dicembre del 1981 le truppe d’elite salvadoregne del battaglione Atlacatl si trovano impegnate in manovre di contro insurrezione nella provincia di Morazàn, di cui il villaggio di El Mozote fa parte; ufficialmente la mira era di stanare alcuni membri del FMNL dai loro covi montani. Rufina Amaya era nella sua casa, con i suoi figli, molti altri stavano tornando dalla chiesetta edificata su un lato del piazzale al centro di quello sperduto borgo contadino, faceva freddo. L’irruzione dei soldati fu improvvisa: “Dapprima i militari ci tennero tutti distesi a pancia in giù, poi le donne furono portate in due case diverse, quella di Marques e quella di Benita Dias; gli uomini furono portati in chiesa, e così ci fecero passare la notte”, inizia questa donna che proprio non ha nulla nell’apparenza che possa tornarmi utile per descriverla. E’ ordinaria, lunghi capelli ancora neri raccolti in una coda di cavallo, volto tondeggiante, bassa, sovrappeso, occhi che esprimono nulla. Ed è questo che colpisce: gli occhi di chi ha vissuto l’inimmaginabile forse sono sempre così, uccisi da ciò che hanno visto.

Rufina continua, la voce in una sorta di cantilena: “La mattina seguente arrivò un elicottero e cominciarono a torturare gli uomini. Poi a mezzogiorno cominciarono con le donne e lì iniziò la strage.”  Dapprima i soldati fecero fuoco all’impazzata su qualsiasi cosa si muovesse, e infatti ancora oggi quella parte di El Mozote è rimasta così, congelata nel tempo, con i muri crivellati di proiettili, le rovine delle abitazione bruciate, persino gli oggetti di casa ancora sparsi, derelitti e arrugginiti, nelle aie abbandonate; un luogo plumbeo, morto anch’esso e che nessuno da allora ha mai più voluto riabitare. Poi tacquero le mitraglie e fu la volta dell’orgia di violenza all’arma bianca. Rufina: “Io avevo i miei tre figli intorno, tra cui una bimba che ancora allattavo, me li strapparono, così come fecero con le altre madri, e li portarono tutti nella chiesa. Io li sentivo urlare… ‘mamma, mammina aiutaci, ci stanno uccidendo con i coltelli…’”.

Furono sgozzati tutti, quattrocento bambini sgozzati dentro una chiesa. I filmati del ritrovamento dei corpi mesi dopo, che ho ottenuto, mostrano i volontari in guanti di lattice e mascherine sollevare dal terreno minuscole vesti, magliette e calzini come fossero rigidi cartoni incrostati di nero, il sangue rappreso, e lascio ai lettori immaginare cosa mostravano le fotografie del pavimento della chiesa scattate dai primi testimoni giunti sul luogo. Fra loro Santiago Consalvi, un giornalista oppositore del regime, che commentando quelle scene una sera a cena con me e con sua moglie ha solo sussurrato “Dantesche…”, senza aggiungere altro.

Rufina Amaya a quel punto si trova ultima nella fila delle donne inginocchiate che vengono uccise una a una con colpi alla nuca o semplicemente accoltellate. Intorno a lei cadaveri, grida, esplosioni, il fuoco della case cosparse di kerosene, animali domestici che galoppano col pelo in fiamme, il terrore che non si può immaginare.

“Ancora potevo udire le grida di qualche bambino, forse i miei bambini, ma che potevo fare? Pregavo Dio che mi perdonasse, o che mi salvasse, pregavo e piangevo. Poi vidi dietro di me del bestiame misto ai cani, raggruppati fra le piante lungo quel sentiero lì” e me lo indica, una stradina che costeggia un rudere delimitata da una vegetazione cespugliosa, caotica e assai alta, “e approfittai del buio per nascondermici arrancando a gattoni. Rimasi laggiù non so per quanto, ma i singhiozzi che mi uscivano erano troppo acuti, mi avrebbero sentita prima o poi, e allora scavai con le mani un buco nella terra, vi ficcai la testa, e iniziai a urlare.”

Quando molte ore dopo Rufina Amaya tentò di uscire dai cespugli fu immediatamente vista. Le spararono addosso, ma lei si gettò di nuovo nel verde e iniziò a correre nel fitto della boscaglia. Per sei giorni rimase a vagare come un animale, poi fu raccolta da una contadina che viveva con i figli in una grotta in condizioni poco migliori delle sue, ma le salvò la vita.
Al termine di quarantotto ore di orgia di violenza, i terroristi del battaglione Atlacatl sterminarono ottocento abitanti di El Mozote, e cioè tutti meno Rufina, e altri quattrocento nei dintorni. Mille e duecento vittime civili, contadini, donne e bambini, neppure un guerrigliero fra loro.

La donna che mi ha raccontato tutto questo ora si alza e mi fa cenno di seguirla. Poco distante si ferma e punta il dito contro un portone che ancora è retto da un muro bruciato e in cima al quale qualcuno inchiodò un asse di legno con una scritta, anzi, una firma. Armando (il mio interprete e autista) traduce quelle parole che furono evidentemente scarabocchiate con un pezzo di carbone: “Qui è stato il battaglione Atlacatl, il padre dei sovversivi, seconda compagnia. Avete fatto una cagata, figli di puttana. Se avete bisogno di palle chiedetele per corrispondenza al battaglione Atlacatl. Gli angioletti dell’inferno.”

Ebbene, i terroristi delle truppe d’elite Atlacatl, gli psicopatici capaci di fare questo a 400 bambini e a 800 civili inermi, ebbero un sostegno diretto, ripetuto e consapevole proprio dalla nazione che oggi si è posta alla guida della Guerra al Terrorismo, gli Stati Uniti d’America. Le prove di ciò sono schiacciati, nero su bianco ed è un misto di perseveranza e fortuna che pochi giorni dopo il mio incontro con Rufina Amaya io me le ritrovi fra le mani.

In compagnia di Armando mi ero ficcato negli archivi sotterranei dell’Università Cattolica di San Salvador, dove una giovane e distratta responsabile aveva ascoltato la mia richiesta di saperne di più su El Mozote e senza spostarsi di un passo dal ventilatore che la rinfrescava mi aveva solo indicato una stanza a destra in fondo al corridoio, bofonchiando “là ci sono pile di carte lasciate da un ex professore che non so dove sia finito. Nessuno le ha mai più toccate”. Ci troviamo in uno stanzino di due metri per quattro, con una scrivania di metallo spoglia, due sedie e sei pile di scatoloni grigi che in realtà erano neri ma la pasta di polvere che li ricopre gli ha cambiato colore. Mani che diventano subito carboni, caldo soffocante, decine di pacchetti di fazzolettini di carta usati per poter toccare i fogli senza lordarli, acqua, tanta. Ma all’apertura del quarto scatolone arriva la sorpresa. Dopo aver scartabellato articoli e altra roba di nessun interesse, mi ritrovo fra le mani qualcosa di familiare: i fogli fotocopiati con le classiche rigone nere che cancellano nomi riservati, con il timbro “Classified” e la firma del funzionario responsabile, con “fm Embassy to Secstate in Washington D.C.”, oppure ancora “Confidential, Action Copy Telegram, Top Secret”, insomma documenti di Stato americani presi direttamente dagli archivi dei Servizi presso l’Ambasciata USA in Salvador e di cui quel professore era venuto in possesso chissà come.

Il problema, che stempera subito il mio entusiasmo, è che sono migliaia, senza un ordine di date e soprattutto trattano di argomenti di una noia mortale, pedissequamente riportati dagli agenti americani per riferire, per esempio, di quell’articoletto apparso sul tal periodico salvadoregno e che parlava del tal funzionario, di quell’incontro fra il tal businessman e quell’oscuro burocrate di ministero, dell’opinione dall’addetto alla propaganda dell’ambasciata sulla maggiore o minore simpatia espressa dal New York Times per le politiche americane in Salvador o in Honduras.

Io e Armando ci passiamo due pomeriggi e una mattinata senza cavarci alcunché di interessante, e l’unica cosa che mi sorregge è vedere l’entusiasmo di questo meccanico che sta ritrovando un acceso e commovente patriottismo nello sdegno che lo va man mano assalendo mentre, nel seguirmi lungo la mia ricerca in Salvador, è ritornato in contatto con il passato di orrori politici che ha terrorizzato la sua gente per decenni. Lui era solo un ragazzino all’epoca, ma ora mi racconta di come ogni mattina quando si recava al lavoro usava tenere la testa bassa e gli occhi puntati sulla punta delle sue scarpe per non vedere i cinque o dieci cadaveri abbandonati che sempre punteggiavano il percorso da casa all’officina, e che corrispondevano ad altrettante raffiche di mitra udite nella notte. Corpi magari nudi e mutilati dalla tortura, con i testicoli carbonizzati, con fori da trapano nelle braccia o con i solchi dell’acido versato fra le natiche. Armando dice il vero, le foto di quelle atrocità riempiono gli archivi del Rehabilitation Center For Torture Victims di Copenaghen , della Medical Foundation di Londra o di Amnesty International. E non di rado erano giovani donne, cui veniva mozzata la lingua perché le loro grida non demotivassero gli uomini e i cani che le violentavano prima di torturale. Così finivano gli oppositori dei regimi latinoamericani, dal Salvador al Cile, dall’Argentina al Paraguay, ridotti in quel modo da chi “dedicò il suo lavoro alla causa del progresso e della pace..”, e cioè dai Dan Mitrione dell’America nemica giurata dei terroristi, e dai loro allievi aguzzini.

Alla sera del terzo giorno la fortuna ci bacia in fronte. Il nome Morazàn compare per primo in un memorandum Top Secret, poi El Mozote e tutta la storia. E con essi la prova che gli Stati Uniti non solo finanziarono e addestrarono il battaglione Atlacatl, ma seppero del terrore di cui erano capaci, tentarono di negarlo e continuarono imperterriti ad armarli e a proteggerli.
Nel memorandum segreto che il sottosegretario alla Difesa Carl W. Ford spediva nell’aprile del 1990 in risposta alle interrogazioni all’Onorevole John Joseph Moakley in Campidoglio si legge: “..Il battaglione Atlacatl fu in effetti addestrato dai militari degli Stati Uniti nel 1981. Furono addestrati un totale di 1383 soldati. L’addestramento fu condotto nel Salvador.”
Ricordo che l’eccidio di cui fu testimone Rufina Amaya era avvenuto nel dicembre di quell’anno.
La strage di El Mozote fu resa nota al Dipartimento di Stato a Washington nel giro di pochi mesi, ma nonostante ciò l’appoggio americano ai terroristi dell’Atlacatl non cesserà e durerà per altri 8 anni, fino al 1989 quando lo stesso battaglione firmerà un’altra strage, quella dei 6 intellettuali gesuiti e delle due perpetue, massacrati nei locali dell’Università Cattolica nel centro della capitale. Su quel periodo il memorandum di Ford infatti dichiara: “All’interno della valutazione del distaccamento, abbiamo addestrato 150 soldati del battaglione Atlacatl. L’addestramento fu interrotto il 13 novembre del 1989.”

Il cinismo e la menzogna che seguirono, e in cui il governo americano e la giunta salvadoregna fecero a gara per distinguersi, sono testimoniati da un altro documento riservato che un diplomatico americano in Salvador spediva al Dipartimento di Stato nel febbraio 1982. Vi si legge dei tentativi dell’ambasciata statunitense di verificare le voci insistenti che parlavano di una immane strage a El Mozote, e il diplomatico mostra tutta la sua abilità nell’esser riuscito a fare domande scomode ai vertici militari di quel Paese pur rassicurandoli appieno sul continuo appoggio americano. Infatti, egli informa i suoi superiori a Washington di aver notificato al Generale Garcia (l’allora ministro della difesa salvadoregno, nda) che “Tom Enders ha difeso di fronte al Congresso lo stanziamento di altri 55 milioni di dollari in armamenti al Salvador” e poi sempre riferendosi a Garcia aggiunge: “Mi ha detto che la storia di Morazàn e di El Mozote è una favoletta, è pura proaganda marxista senza fondamento. Gli ho risposto che è chiaramente propaganda, sapientemente costruita… E come zuccherino finale, gli ho ricordato che il Washington Post sostiene le nostre politiche comuni.”

Questi documenti provano per la prima volta l’appoggio americano ai terroristi di El Mozote. Tuttavia l’idea, incessantemente ribadita da fonti statunitensi, che il terrorismo neo-nazista delle dittature latinoamericane fosse inventato da una “propaganda marxista sapientemente costruita“ fu l’ostacolo principale che Rufina Amaya incontrò, anni dopo, quando trovò abbastanza forza per raccontare ciò che aveva vissuto. Prima di lasciarla davanti alla porta della sua casa di mattoni grezzi, le avevo chiesto che ragione si era fatta di quel massacro e cosa pensasse del coinvolgimento americano, alla luce del fatto che proprio quel Paese si era poi posto alla guida di un Guerra al Terrorismo.
“L’esercito venne qui per un solo motivo”  mi rispose sicura, “ed era di creare terrore. Il terrore non serviva per colpire la guerriglia, serviva a evitare che noi contadini ci organizzassimo. Ma il massacro degli innocenti, qui, ottenne il risultato opposto”. Rufina sembrò non voler rispondre alla seconda parte della mia domanda, e  gliela ripetei. Si girò verso di me e guardando in basso aggiunse: “Sì, potrei chiamarli terroristi, perché vengono nei nostri Paesi con il loro potere grande e fanno queste cose e le fanno in tutto il mondo. Ma per me sono semplicemente degli assassini.”

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In memoria di Rufina, in memoria della smemoratezza di tutti noi, che mai abbiamo eretto alle vittime del nostro benessere alcun monumento. Che Dio, se c’è, ci perdoni. Paolo Barnard

Paolo Barnard
Fonte: http://paolobarnard.info
Link: http://paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=553
29.01.2013

(Tratto da “Perché ci Odiano”, di P. Barnard, Rizzoli BUR 2006)

 

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