DI GIULIETTO CHIESA
Alla luce della nuova guerra fredda, resa esplicita dalla provocazione lituana di Dick Cheney e dalla durissima risposta di Putin, la «questione energetica» dell’Europa (e del mondo) diventa un problema urgente. Anzi «il problema». I tempi e i modi delle decisioni europee cambiano di significato. Il Consiglio Europeo aveva deciso nel 2002 di liberalizzare completamente il mercato europeo dell’energia nel 2007. Si pensava allora solo in termini di «efficienza», «flessibilità», «integrazione«, «concorrenza»: l’armamentario classico del mercato liberista. Poi è venuto l’inverno, e gli interrogativi sono adesso di tutt’altro tipo. La crisi russo-ucraina, e quella mondiale dell’energia, sono ormai evidenti. Il petrolio a 70 dollari il barile, con speranze di decrescita uguale a zero, è solo un tassello. E la questione è che l’Europa ha di fronte a sé il gigantesco interrogativo di dover importare il 70% della energia di cui avrà bisogno nei prossimi 25 anni. Con l’addizionale certezza che, nei prossimi 30 anni, i combustibili fossili saranno la principale componente.
L’idea – giusta – sarebbe quella di un’Europa che parli con una sola voce. Invece la cacofonia impera. José Manuel Barroso ha lanciato un programma basato su cinque idee: unità, integrazione, solidarietà, sostenibilità, efficienza, innovazione. C’è tutto e il contrario di tutto. Tutte le fonti energetiche sono buone, dice il capo della Commissione, inclusa quella atomica. Germania, Francia, Inghilterra non aspettavano certo il suo viatico. La solidarietà è già stata azzerata da Germania e Francia, che si sono messi d’accordo con Gasprom (via Gerhard Shroeder) per il gasdotto sotto il Baltico, che aggira i ricatti potenziali dei baltici e della Polonia. Il governo polacco di destra chiede a gran voce una Nato energetica, per non essere lasciato solo a pagare la bolletta del gas russo (che gli copre il 99% dei suoi consumi di energia). Ma Bonn e Parigi, sono piuttosto seccate entrambe di avere in Europa una Polonia che sta facendo la politica di Washington più che quella di Bruxelles .
Insomma dietro questa disunità energetica ci sono idee diverse, se non opposte, dei futuri rapporti da tenere con la Russia, che – diversificazione delle fonti o meno – continuerà ad essere il fornitore principale dell’energia europea. Tutto l’est europeo, cioè tutti i nuovi europei, cioè tutti i paesi che hanno la maggiore diffidenza verso la Russia, sono pressoché totalmente dipendenti dal gas russo: i tre baltici , Estonia, Lettonia, Lituania, più la Slovacchia,al 100%, la Bulgaria al 94%, la Repubblica Ceca all’82%, l’Ungheria all’81%, la Slovenia al 62%, la Romania al 55%. Il fatto è, però, che l’Europa è altrettanto dipendente e non vuole tirare la corda del Cremlino. Non più di tanto, in ogni caso, anche perché, in nome del mercato, non si può pretendere che l’Ucraina non paghi, a sua volta, la bolletta del gas russo. Il che, in caso di crisi, come si è visto alla fine del 2005, mette l’intera Europa in ostaggio: non della Russia, ma dell’Ucraina.
E poi non sono soltanto gli stati a fare i loro conti. Le imprese tendono a curare i propri interessi prima di quelli dei loro paesi. E vanno a fare accordi separati con la Russia. La quale, invece, gioca a tutto campo con la massima spregiudicatezza. Putin è, di fatto l’unico giocatore di quella parte, avendo il controllo diretto e totale su tutta l’energia russa. E non ha più soltanto l’ambizione – del tutto logica in termini di mercato – di vendere al meglio il suo prodotto, ma anche quella di diventare distributore del gas nei diversi paesi europei. In Italia l’ingresso dei russi nella distribuzione sembra stia avvenendo attraverso una società mista tra Gasprom e un intimo di Silvio Berlusconi, Bruno Mentasti Granelli, cui l’Eni di Scaroni avrebbe concesso il 25% della società mista Promgas, per fornire a Edison circa 2,5 miliardi di metri cubi di di gas. Un giro di valzer che, tra l’altro, vincolerebbe l’Eni ad associare Gasprom nella vendita di gas russo anche in altri mercati europei. Gasprom si è già assicurata il 35% della società tedesca di distribuzione Wingaz, e sarebbe in procinto di siglare accordi analoghi in Belgio, in Ungheria, nella Repubblica Ceca, con Gaz de France e con British Gaz. Per ciò che concerne le prospezioni, la Russia sta negoziando la partecipazione di Total allo sfruttamento del gigantesco giacimento di gas di Shtokman, nel mare di Barents. Insomma ciascuno fa i fatti propri, con il risultato che la Russia, attraverso Gasprom, che è la stessa cosa, si sta assicurando una struttura verticale che le consentirà non solo di essere il fornitore non aggirabile di tutta l’Europa, ma anche il distributore del proprio prodotto sui mercati europei.
Il tutto sarebbe un normale capitolo del business, se non fosse che la nuova guerra fredda è già cominciata. Che succederebbe se le relazioni occidentali con Mosca dovessero improvvisamente peggiorare? E qui – cioè sul come fronteggiare questo futuro – le idee in Europa collidono: tra coloro che vorrebbero iniziare subito un nuovo dialogo politico con la Russia, e chi invece sotto l’urgenza americana – vuole mettere sotto pressione Putin, portandogli via altri pezzi del suo cortile di casa.
Il fatto è che le carte del Cremino sembrano, al momento, molto forti. Putin è andato addirittura ad Algeri, accompagnato dal capo di Gasprom, Aleksei Miller, per definire un patto strategico di cooperazione con la Sonatrach. Se si calcola che Sonatrach fornisce all’Europa un altro 24% del suo fabbisogno di gas, con questo ulteriore cartello la presa di Putin diventa fin troppo salda. Diciamo potenzialmente soffocante.
Il libro verde-giallo di Barroso dice cose di tutto rispetto, esorta all’innovazione, alla ricerca, alle fonti alternative: tutte cose che dovrebbero sostenere una politica energetica unitaria dell’Europa. Ma senza una politica europea, realistica e autonoma verso la Russia, non si andrà da nessuna parte.
Giulietto Chiesa
Fonte: www.ilmanifesto.it
16.05.06