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La Redazione

 

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QUELLI CHE …SONO CONTRO LA CACCIA…

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A cura di Davide
Il 27 Giugno 2014
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DI CARLO BERTANI

carlobertani.blogspot.it

Si fa presto a dire sono “contro la caccia”: a prima vista lo siamo tutti. Ma.

Sarebbe più logico diventare vegetariani – c’è poca differenza fra la fucilata nel bosco o lo “sterilissimo” colpo con la pistola a molla che domattina (oggi è Domenica) sfonderà il cranio di una mucca in un qualsiasi macello – ma anche il vegetarianesimo (o veganesimo) comportano dei problemi, come vedremo.

Gli animali sono i nostri compagni di viaggio, anche quelli che mangiamo: che paradosso, vero? La mia gatta non si cura delle acciughe morte che le do da mangiare…ma se fosse un coniglio? Per alcuni è un animale da compagnia, per altri uno splendido sugo per le tagliatelle. Osservo le lumachine sull’insalata e le sposto in un posto fresco, mio fratello le raccoglie, le mette a spurgare nell’acqua e se le mangia.

Io, da parte mia, potrei anche fare a meno della carne, ma del pesce sarebbe un vero tormento: tonni e tonnetti (bonitos), acciughe fresche, salate o in carpione col limone, moscardini e gronghi…non mangio pesce “nobile” ma quello popolare, anche se so benissimo che non fa differenza.

Siamo partiti dalla caccia, ed alla caccia torniamo.

Molti anni fa – siamo intorno al 1960 – la caccia era, quasi ovunque, praticata nei confronti della lepre, del fagiano, della quaglia e di pochi altri animali.

Il cinghiale? Il cinghiale era solo in Sardegna ed in qualche riserva naturale della Toscana: i salamini di cinghiale sott’olio erano una vera rarità, che trovavi solo in Sardegna ed a Grosseto & dintorni. Poi, avvenne il cambio della fauna: ecco come avvenne.

Il cinghiale è un animale potente, ma poco prolifico: ti può aprire la pancia senza tante storie con le sue zanne se capiti male (femmine con i piccoli) e so di gente che s’è arrampicata sugli alberi per sfuggirgli. La sua scarsa diffusione era causata dal fatto che più di un paio, al massimo tre piccoli non metteva al mondo: l’equilibrio della popolazione era quindi perfetto, scarsa prolificità e caccia praticamente assente.

Qualcuno – bisognerebbe cercarlo nelle associazioni venatorie? – ebbe un’idea: perché non li incrociamo con maiali di certe sottospecie (come il maiale sardo od altri di razze inglesi), che hanno una livrea praticamente identica? Ecco fatto: nacque un cinghiale che conservò le zanne ma che, in compenso, sfornava 8-12 cuccioli per ogni nidiata.

E l’equilibrio saltò.

Ci vollero decenni: nel 1980 in Liguria già esistevano le “squadre” per la caccia al cinghiale mentre nell’alto Piemonte erano praticamente sconosciute. Ora, quando vado nella casa di famiglia sulla Serra d’Ivrea, li sento grugnire – la notte – a due passi.

Poi c’è il capriolo: “Bambi” che tutti i bambini imparano a conoscere nei cartoni animati. Animale mansueto, docile, che s’affeziona addirittura all’uomo: il problema è che – come tutti i caprini – preferisce cibarsi di gemme piuttosto che d’erba. Cosicché, non solo qualsiasi coltura è a rischio, bensì anche ogni taglio di bosco ceduo stenta a ricrescere, poiché i caprioli fanno razzia di gemme.

Alcuni dati: lo scorso anno, nella provincia di Savona, fu autorizzato un “prelievo” – eufemismo: hanno ammazzato – circa 3.000 cinghiali. Immaginate un po’ che razza di fauna c’è nei boschi d’Italia: una sorta d’allevamento sul territorio, a disposizione dei cacciatori. Purtroppo, non ho dati sui caprioli: so soltanto che sono stati introdotti i primi daini (il daino è un animale piuttosto grande, il maschio rasenta il quintale, a differenza del capriolo) poiché il capriolo non incontra molto il gusto dei consumatori…si spera nel daino.

Perché questo affaccendarsi in razze ed incroci?

Poiché la caccia non è soltanto uno sport, è un’attività redditizia.

Stabiliti in circa 1.000 euro le spese fisse (tasse, licenze, cartucce, ecc) ogni componente di una squadra (sono circa una decina di persone) può arrivare a mettere insieme 5.000 euro l’anno, considerando sia il quantitativo di carne per auto-consumo, sia gli introiti derivanti dalla vendita.

La legge proibisce di fare commercio con i proventi della caccia, ma – capirete bene – quanto siano facili da superare questi divieti: per un ristoratore basta avere una fattura o due di cinghiali allevati per sfornarne venti “abusivi”.

Rimedi?

L’unico rimedio è la caccia oppure il ripopolamento con i predatori che un tempo erano comuni sui nostri rilievi: lupi, linci ed orsi.

Eviterei qualche marchingegno genetico per risolvere la questione con “l’alta ingegneria” delle specie, perché – dopo – non sapremmo più veramente a quale santo votarci: meglio stare con i piedi per terra, nel senso che di unicorni e draghi volanti non abbiamo proprio bisogno. Lasciamo stare Jurassic Park. E nemmeno provare con qualche microbo che, dopo, magari provoca l’invasione delle vipere o la morte di tutti i faggi.

Vediamo le specie conosciute.

L’orso, ad essere precisi, non è un vero e proprio predatore nei confronti del cinghiale o del capriolo: può essere considerato un competitore, in ogni modo c’è un progetto per diffonderlo nelle Alpi Centrali (1). Non si tratta dell’orso marsicano, ma dell’ursus arctos, dal quale il marsicano differisce solo per dimensioni (300 kg max contro 700). Insomma, il “cuginetto” del grizzli. In Croazia, ogni anno, ci sono circa tre morti a causa degli orsi: si tratta per lo più di ristoratori od albergatori di zone impervie. Mi spiegarono in loco che, al termine del letargo, le bestie affamate s’introducono nelle dispense di queste strutture e, incontrando qualcuno, lo “scostano” un po’ troppo rudemente…insomma, nessuna volontà d’ucciderlo per farne preda, però…

I lupi sono i principali candidati per questa “disfida”, ma ci dimentichiamo di una cosa: già ci sono, e mica pochi. Fonti attendibili affermano che, fra Genova ed il confine francese, siano attivi una decine di branchi per un totale di un centinaio d’esemplari. E non hanno certo scalfito la popolazione dei cinghiali.

A complicare la cosa, ci sono anche branchi di cani selvatici i quali si sono accoppiati con i lupi, determinando degli ibridi: si tratta di cani da pastore, molto vicini geneticamente ai loro cugini selvatici, mentre i molossoidi (alani, mastini, ecc) hanno repulsione per i lupi.

Questi nuovi “lupoidi” temono l’uomo molto meno dei lupi e, paradossalmente, sono più pericolosi, perché hanno meno remore ad avvicinarsi agli abitati.

Personalmente, vidi una coppia di lupi fuggire da un incendio boschivo di grandi dimensioni: passarono a qualche decina di metri da me e tirarono dritto, senza curarsi degli umani. Si notava “a pelle” che cercavano un rifugio, una forra od il folto del bosco per nascondersi e non pensavano affatto ad attaccare: in effetti, tutta la scena durò al massimo 10 secondi.

Il terzo, possibile predatore è la Lince: un “gattone” che pesa circa 30 chili ed è alto 55 centimetri alla spalla, 70 con la testa. Le dimensioni sono quelle di un cane di mezza taglia, però si tratta del “cuginetto” della tigre.

Non ha un buon carattere: non attacca l’uomo ed i suoi insediamenti solo fin quando ha abbondanza di prede, poi, s’avvicina alle case. E’ un felino: comportamento completamente diverso dai lupi, insomma…è un “gattone” che non fa piacere incontrare in un bosco perché salta sugli alberi, è silenzioso, e ti può “atterrare” sulla testa quando meno te lo aspetti.

La Lince è già presente in Francia, Svizzera ed Austria: in Italia, è stata fotografata sull’Appennino tosco-emiliano nei pressi di Forlì, mentre un mio conoscente (cacciatore) ne ha scorto le orme sulla neve sul Monte Beigua (alle spalle di Varazze).

Non c’è da stupirsi della sua presenza, come di quella dei lupi: gli animali tendono a disporsi sul territorio sempre in cerca d’aree esclusive di caccia, gioco forza questo comportamento genera, prima o dopo, una diffusione a macchia d’olio.

La fauna disdegna le aree pianeggianti e coltivate (salvo fare incursioni notturne) ma l’Italia – esclusa la pianura Padana e poche pianure costiere – è una sola area montagnosa, partendo da Trieste per finire a Reggio Calabria, senza soluzione di continuità.

Se si opta per questa scelta, bisogna avere almeno una legislazione per le armi simile a quelle francesi, svizzere o austriache – ossia libertà nell’acquisto per le armi da caccia (canna liscia) – poiché se la gente non può spaventare – e all’occorrenza uccidere – queste bestie, prima o dopo scatterà un pogrom silenzioso ed omertoso.

Inizieranno ad essere trovate carcasse di lupi, di linci o di orsi nei boschi senza – ovviamente – che ci sia la firma di nessuno. Al primo bambino o cercatore di funghi dilaniato, come reagirà la popolazione?

Come potrete notare, qui non si tratta di un problema etico, bensì politico il quale somiglia molto alla legislazione sull’aborto: un male, ma un male necessario per non avere mali peggiori.

Le forze dell’ordine? Inutili.

Al primo rombo di una camionetta che s’avvicina la lince scompare nel folto del bosco, dal quale ti tiene d’occhio – è una piccola tigre, per carattere, non scordiamolo – e si ripresenta qualche giorno dopo. Pazienza se viene predata qualche gallina, ma se attacca tuo figlio mentre gioca nel prato?

E’ un equilibrio difficile da mantenere: l’equilibrio fra le popolazioni animali (uomo compreso) necessita di nervi saldi e sangue freddo, soprattutto da parte dell’uomo, che riveste il ruolo di gestore di questi equilibri.

Gli animali, a loro volta, hanno l’arma della prolificità: nessuno schioderà mai più dall’Italia i cinghiali, per la semplice ragione che non sono più cinghiali, bensì maiali mascherati.

Quindi, la scelta: o la caccia – ancor più determinata di oggi – oppure i predatori, ma in buon numero. Le armi? In “Bowling at Columbine” Michael Moore ha dimostrato senza ombra di dubbio che gli omicidi non hanno nessun rapporto con la diffusione delle armi – ricordiamo il confronto fra la sponda canadese e quella USA del lago Michigan – mentre la vera ragione sono le menti malate e disperate, che uccidono anche con un coltello da cucina.

Chi è rimasto sconfitto in questa strana guerra sono gli agricoltori periferici, ossia quelli che coltivavano le aree appenniniche e prealpine: oggi, non è più possibile coltivare pressoché nulla in quelle aree, ed i risarcimenti per i danni causati alle coltivazioni (è un compito affidato alle Province) seguono il corso delle finanze pubbliche, sempre più rari ed esangui.

Ho visto personalmente campi di patate (quasi sotto casa) ridotti ad un terreno arato, e una coltivazione di fagiolini a rama alta, a non più di qualche decina di metri dalle case, “potata” fino all’altezza di un uomo dai caprioli.

Bene: possiamo fare a meno degli agricoltori di collina/montagna? Certo!

Fra un po’ faremo a meno degli agricoltori in toto, visto che il tasso di sostituzione italiano è di un solo agricoltore sotto i 30 anni per 8 anziani, mentre in Francia è di circa 7,9 ad 8 ed in Germania, addirittura, di 8,1 ad 8. E’ facile capire quali sono gli Stati che preservano e finanziano l’agricoltura, anche di nicchia, perché (ad esempio per i vini) certe cultivar crescono solo in certi posti, e non si può sostituire il Barbarossa con il Sangiovese: così, interi “pezzi” di tradizione vinicola se ne vanno.

Domandiamoci: è stato una sorta di “complotto” per desertificare le aree di collina e di mezza montagna? Non lo so e dunque non lo sostengo.

Però, c’è tutta una serie di segni che parrebbero indicarlo, i quali hanno probabilmente origini e cause molto differenti.

Una è, appunto, il “ripopolamento” ad uso venatorio d’aree che erano, in origine, agricole: facciamo notare che non si tratta di cocuzzoli di montagne o di luoghi impervi, bensì di terreni o in leggero declivio o, addirittura, in piano. Aree coltivabili con le macchine, tanto per intenderci.

Un’altra causa è stata il ritiro della ferrovia da ogni valle che non prevedesse il collegamento fra grandi città, preferibilmente in alta velocità: con il traffico passeggeri se n’è andato anche quello delle merci, ed in ogni stazione secondaria – se aguzzate gli occhi – vedrete capannoni (anni ’30 – anni ’60) in disuso oppure fatiscenti. Senza il collegamento ferroviario, le aree periferiche non possono sopravvivere: per il trasporto delle merci e per un veloce trasferimento dei passeggeri. Non dimentichiamo che, le risorse (agricole, forestali, energetiche, ecc) sono sul territorio, non nel centro delle grandi città.

L’altra causa è stata l’inaridirsi dei finanziamenti agli agricoltori: ancora negli anni ’60-’70 se eri contadino avevi una serie d’assistenze per l’acquisto dei macchinari, per edificare stalle, ecc. Oggi, con i chiari di luna che ci sono, è ancora grazia se mandano un elicottero a salvarti quando un fiume straripa.

Infine, se immaginiamo un’agricoltura ed una silvicoltura moderne – come quelle dei paesi del Nord Europa – dobbiamo chiederci come si fa a sopravvivere avendo come accesso al Web reti fatiscenti, lentissime, oppure “chiavette” ancor più lente: questa è la situazione appena t’allontani dalla città.

Così, abbiamo boschi cedui immensi (che aumentano ogni anno che passa per massa boschiva) ed importiamo dalla Romania e dalla Lituania il pellet per riscaldarci: siamo il primo Paese europeo per coltivazione e commercio d’alimenti biologici…già…ancora per quanto?

Metti un giovane in un posto senza ferrovia, dove per andare ad una festa estiva deve fare 50 km in macchina e, ovviamente, non può bere un goccio altrimenti…via la patente! Non dargli la possibilità di commerciare e socializzare su Internet, non proporgli un progetto di vita (che comporti anche finanziamenti) e vedrete quanti rimangono.

Qui, in Langa, uno su dieci.

Resteremo a ballare coi lupi sulla neve, nelle notti di luna piena: li osserveremo riprendersi il territorio che una specie dominante non ha saputo gestire. Un altro fallimento, come se non bastasse il resto.

Carlo Bertani

Fonte: http://carlobertani.blogspot.it

Link: http://carlobertani.blogspot.it/2014/06/quelli-che-sono-contro-la-caccia.html

27.06.2014

(1) http://www.pnab.it/natura-e-territorio/orso/life-ursus.html

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