QUEL CHE MC DONALD'S NASCONDE

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L’obesità alla fine del pasto

In Gran Bretagna, paese particolarmente colpito dal problema dell’obesità
, Mc Donald’s risulta il terzo inserzionista (per volume) alla televisione
e alla radio, mentre al quinto posto compare un’altra industria di
fast food: la Kentuky Fried Chicken. In Francia, dove il numero di
adulti obesi è raddoppiato in quindici anni, la popolazione dei bambini
sovrappeso si è moltiplicata per cinque, mentre i minori insidiati
da una grave obesità si sono decuplicati. McDonald’s si fa pubblicità
acquistando intere pagine dei principali giornali nazionali.

DI PHILIPPE FROGUEL E CATHERINE SMADJA*

In Super Size Me, un film prodotto e diretto da Morgan Spurlock, si
afferma che il consumo regolare delle porzioni giganti proposte da
McDonald’s è assolutamente nocivo alla salute fisica e mentale. Per
rispondere a queste accuse, la società-faro del pasto rapido e semplice
si è impegnata in una grande campagna mediatica: convincere l’opinione
pubblica e i centri politici decisionali che la sua produzione alimentare
non c’entra affatto con l’epidemia mondiale di malnutrizione – nel
2004 un miliardo di persone risultava sovrappeso, e 300 milioni erano
obesi a fronte di 842 milioni di persone denutrite! (1) – ma anzi
da tempo si adopera per combatterla. A forza di spot pubblicitari,
l’impresa vanta le sue pseudo-iniziative volte «ad accompagnare i
cambiamenti delle preoccupazioni alimentari dei francesi». Definizione
eufemistica tipica dell’industria agro-alimentare che giunge a negare
persino il termine «obesità».

Sui manifesti pubblicitari e in un lungo inventario alla Prévert,
McDonald’s elenca in dettaglio le sue «innovazioni» dietetiche, a
partire dal 1987. Fra queste, lo yogurth da bere, i frutti «da sgranocchiare»
e , recentemente, le insalate definite «plus». Come se il consumo
alimentare di frutta legumi e latticini fosse un elemento essenziale
della cultura McDonald’s.L’estate scorsa, in Gran Bretagna sono
spuntati dei pannelli pubblicitari che pubblicizzavano il «podometro
gratuito» (2), offerto in omaggio insieme al pasto Mac. Un bel gadget
che non mette in causa la nocività dei prodotti venduti, ma in compenso
fornisce loro, con poca spesa, un’immagine sportiva.

La ditta degli hamburger dimentica che, malgrado queste lodevoli
iniziative, il numero di obesi è aumentato in parallelo all’incremento
del fatturato della ristorazione rapida. In breve, i fast-food non
hanno sicuramente contribuito a migliorare la qualità nutrizionale
della popolazione umana. Tutte le imprese che producono pasti e alimenti
«convenienti», preconfezionati e facili da consumare, non fanno che
rispondere con compiacenza interessata al desiderio di molti fra
i nostri contemporanei di «guadagnare del tempo».

Ma, contrariamente a quanto l’impresa vorrebbe fare credere, la componente
essenziale del successo di McDonald’s non sta negli yogurt gadget
e nella varia frutta secca da sgranocchiare. Chi desidera mangiare
uno yogurt o della frutta fresca non va ad acquistarli da McDo! Questi
consumatori di alimenti che alcuni per dileggio hanno soprannominato
«slow food» (e li perdoniamo quasi per aver utilizzato l’inglese)
non interessano la ristorazione rapida… Infatti, essa fa i suoi
affari con il menu «Best of Big Mac», che è il prodotto che l’impresa
difende a ogni costo.

La pubblicità recente di McDonald’s tende dunque a «ribaltare i pregiudizi»,
secondo il titolo dell’inserto, dimostrando che in realtà il Big
Mac non fa ingrassare: perché il menu «Best of», col suo contenuto
nutrizionale di «appena» 987 calorie risponderebbe solo al 35/ 40%
delle esigenze caloriche giornaliere dei francesi. Perché mai privarsi,
dunque, di questo cibo? Ahimè, i dati forniti da McDonald’s sono
superati almeno da trent’anni. Sempre più sedentario, il consumatore
occidentale brucia in media 1.800 calorie al giorno (in confronto
alle 5.000 necessarie al cacciatore nomade della preistoria e alle
3.000 dell’agricoltore del XIX secolo.) Fra bibite alla soda, barrette
di cereali e altre merendine «energetiche», il consumatore moderno
ingurgita ogni giorno almeno 200 calorie di «junk food». Per mantenere
l’equilibrio energetico, e quindi non ingrassare, dovrebbe assimilare
durante i pasti le restanti 1.600 calorie.

Il calcolo è elementare. Dopo aver mangiato a mezzogiorno un menu
«Best of Big Mac» insieme alle patatine fritte, gli restano 600 calorie
da suddividere fra la cena e la colazione. Quest’ultima, se si dà
credito a un altro mito creato di sana pianta, senza alcun fondamento
scientifico, dai mercanti di cereali (tipo Kellog’s , Nestlé, ecc.),
dovrebbe costituire, da sola, almeno un quarto della nostra razione
calorica quotidiana, cioè più o meno quelle 600 calorie residue…

Insomma, non mangiate, e soprattutto tenetevi alla larga dai piatti
«alleggeriti» preconfezionati e publicizzati dagli stessi industriali
dell’agroalimentare: sovente risultano più calorici, più ricchi di
grassi e ben più salati di cibi analoghi, preparati a casa (3).

Parimenti, dopo un happy meal (pasto felice) al McDonald’s che corrisponde
a 700 calorie, ovvero al 50% delle esigenze energetiche di un bambino
di 5 anni, mettete a dieta il vostro piccolo, soprattutto se ha mangiato
a colazione dei cereali particolarmente ricchi di zuccheri e grassi!
Ma dunque che fare? Bisognerebbe vietare la pubblicità televisiva
di questi prodotti, specie nelle fasce orarie dedicate all’infanzia?

Sicuramente no! rispondono i produttori delle trasmissioni per i
bambini, che vedrebbero in questo modo diminuire del 40% i loro introiti
pubblicitari. A sostegno della loro politica, essi evidenziano i
diversi fattori che possono essere causa dell’obesità infantile:
fra questi l’assenza dei genitori durante i loro pasti, la mancanza
di attività fisica (in parte dovuta al tempo trascorso incollati
allo schermo televisivo) ed evidentemente l’importanza dei cibi precotti
nell’alimentazione quotidiana. Per la British Diabetes Association,
che spinge i poteri pubblici britannici ad agire energicamente in
questo settore, invece, s’impone una regola o anche la proibizione
totale degli inserti pubblicitari.

Obbligati a rosicchiare
A supporto di questa tesi, si possono citare cifre eloquenti: sui
22 minuti di pubblicità rivolte ogni giorno ai giovani britannici,
un quinto degli inserti riguarda cereali prezuccherati, dolciumi,
patatine, bevande ricche di zuccheri e alimenti della ristorazione
veloce.
Mentre l’investimento pubblicitario per questi prodotti rappresenta
il 59% del volume d’affari della telepubblicità nel settore dell’alimentazione,
tale percentuale raggiunge il 77% durante le fasce orarie delle trasmissioni
per l’infanzia. Se poi si aggiungono latticini e derivati, si raggiunge
un picco pubblicitario del 78% per l’insieme dei programmi, e del
96% nelle trasmissioni per l’infanzia. (4) Pur non potendo provare
la causalità diretta, si constata che i bambini che trascorrono molto
tempo di fronte al piccolo schermo, risultano tra i principali consumatori
di questo tipo di prodotti (5).

Il dibattito rimane aperto e sarà senza dubbio uno dei problemi sul
tappeto nella prossima revisione della regolamentazione televisiva
europea. (6). Nel frattempo, se veramente McDonald’s e le altre compagnie
di fast-food vogliono agire in favore della salute pubblica, la smettano
di nascondersi dietro le loro insalate alibi, che mirano ad attirare
nuove categorie di consumatori (le donne attive) che rifiutavano
i loro ristoranti, piuttosto che modificare nella sostanza il loro
comportamento alimentare.

Cambino piuttosto il cumulo calorico dei loro prodotti di punta:
con un po’ meno di maionese e di grasso nel panino, il menu «Big-Mac»
potrebbe scendere sotto la barra delle 800 calorie, ossia 20% in
meno, soprattutto se si provasse a sostituire le sacrosante patatine
fritte con un’altra fecola non fritta. A meno, evidentemente, che
le società di ristorazione veloce non abbiano delle buone ragioni
per non cambiare. I nutrizionisti dell’agro-alimentare conoscono
bene questa stupefacente realtà fisiologica. Se il cervello umano
è in grado di valutare il tenore energetico dei cibi e quindi di
regolare l’appetito in funzione di tale variabile essenziale, l’automatismo
scompare una volta superata una determinata densità energetica (7).

Anche se una megabarra a base di cioccolato, per esempio «Snickers»,
pesa solo 100 grammi, di fatto apporta una quantità di calorie superiori
a quelle contenute in una bistecca di 400 grammi, guarnita di patate
e broccoli… Ecco il punto: quando gli alimenti sono troppo ricchi
di calorie, il cervello smarrito non riesce più a calcolare la quantità
di cibo che il corpo deve ingerire per il suo fabbisogno.

Questo continuo «rosicchiare» non viene, inoltre, considerato come
il pasto che in effetti è. Stessa sottovalutazione vale per le bibite
ricche di saccarosio o fruttosio, il cui contenuto calorico non può
essere identificato dal cervello. Sarà per questo motivo che la maggior
parte dei profitti del fast-food supera allegramente questo limite?

In tal modo più i prodotti risultano calorici, meno inducono il senso
di sazietà e dunque maggiormente incitano al consumo senza limite.

Chi mai resisterà a un piccolo milk-shake in più che contiene «solo»
365 calorie? Costringere l’industria agro-alimentare a limitare il
tenore energetico dei suoi prodotti è dunque un principio essenziale
per tenere sotto controllo l’obesità.
Dunque, facciamo una scommessa. Chi fra i liberali britannici, gli
ultraliberali americani, o i dirigisti francesi, avrà per primo il
coraggio di affrontare questi potenti gruppi economici? Si tratta
di una partita indispensabile, anche se insufficiente da sola, per
istituire e un vero programma a più livelli in grado di sconfiggere
l’obesità.

L’obesità non è una malattia in senso tecnico, derivante da un disordine
biologico dell’individuo, ma piuttosto una risposta «normale» della
persona nei confronti dell’ambiente patologico. La vita moderna comporta
un eccesso energetico di circa 300 calorie al giorno. Di conseguenza,
se non si modificano le condizioni in cui viviamo, l’aumento eccessivo
di peso, con tutte le conseguenze che implica per la salute e la
speranza di vita (8) resterà un fenomeno di massa ineluttabile.

Le caratteristiche genetiche di ogni persona, tuttavia, intervengono,
frenando o amplificando l’effetto del contesto ambientale. Succede
che alcune persone hanno la fortuna di essere protette dal sovrappeso,
mentre numerosi bambini sono ormai affetti da sintomi di obesità
grave, a partire dai 5 anni. La comprensione delle origini biologiche
dell’obesità, intesa come «malattia», deve procedere di pari passo
al progetto di una società che sappia armonizzare attività fisica
e apporto energetico. Una società che, però, sappia anche migliorare
l’insieme delle condizioni di vita delle popolazioni sfavorite.

Perché, attenzione, l’obesità colpisce innanzitutto i più poveri.

Secondo uno studio pubblicato dal ministero degli affari sociali,
l’obesità risulta dieci volte più diffusa tra i bambini il cui padre
è un operaio non-qualificato (7,4%) rispetto ai figli di quadri dirigenti
(0,7%) (9). Uno scarto che evidenzia modi di vita diversi (soprattutto
per quando riguarda l’attività sportiva) e una diversificazione dei
comportamenti alimentari. Ciò non significa, ovviamente, che i figli
delle classi più agiate non ingrassino. Se si guarda non all’obesità
ma al semplice soprappeso, il tasso è del 22,4 % presso i figli di
operai, e 10,8% tra i figli di dirigenti. Tutti mangiano male, consumano
barrette di cioccolata e bevande zuccherate, ma non tutti mangiano
nello stesso modo a casa, non tutti hanno la stessa possibilità di
praticare attività sportive, né lo stesso sguardo sull’obesità e
le conseguenze che produce sulla salute.

Queste disuguaglianze sociali si rilevano su scala mondiale. Se
la lotta contro la fame rimane una priorità, l’Organizzazione mondiale
della salute (Oms) è altresì preoccupata dalla crescita dell’obesità
nei paesi «in via di sviluppo». L’inurbamento comporta spesso una
modificazione dei comportamenti alimentari: piatti grassi e ricchi
di zuccheri, venduti a poco prezzo e disponibili in città, sostituiscono,
infatti, l’alimentazione tradizionale…

Per esempio in Cina è stato dimostrato che il miglioramento del tenore
di vita ha determinato una maggiorazione significativa del consumo
di olio.

Parimenti il consumo di prodotti ad alto tenore di materie grasse,
è aumentato molto di più fra le popolazioni più povere (10). Le forme
più acute di obesità hanno quindi sia origine biologiche che sociali.

Soltanto ricerche approfondite permetteranno di prevenirle e di curarle
in modo adeguato. A questo riguardo, la recente campagna McDonald’s
si rivela per lo meno inopportuna.

DI PHILIPPE FROGUEL E CATHERINE SMADJA

* Rispettivamente direttore delle ricerche al Cnrs e amministratrice
civile in servizio presso il ministero britannico della cultura,
della comunicazione e dello sport.

Fonte:www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/
dicembre 2004


(1) Organizzazione mondiale della salute (Oms). www.who.int/dietphysicalactivity/pubblications/facts/obesity/en.


(2) Si tratta di un apparecchio ultraleggero, che si porta alla cintura,
e serve per contare i passi compiuti nel corso della giornata. Le
autorità sanitarie britanniche raccomandano di effettuare da 10 a
12.000 passi al giorno.


(3) Perché tanto sale? Forse per indurre la consumazione di bevande,
specie acqua minerale e soda, venduta dagli stessi gruppi industriali?
O allora per rendere più appetibile il gusto di alimenti mediocri
con poca spesa?

(4) Studio Nielsen per il rapporto realizzato da Ofcom, relativo
alla normativa di media e telecomunicazioni britanniche. Childhood
obesity : food advertising in context, Londra, 22 luglio 2004.


(5) Ibid.

(6) Sull’argomento si veda: François Brune: «De l’enfant-roi à l’enfant-proie»,
(Dal bambino re al bambino preda), in Le Monde diplomatique, settembre
2004.


(7) Andrew Prentice et Susan Jebb «Fast Foods, energy density and
obesity: a possible mechanistic link» Obesity Rewiews, Oxford, novembre
2003, vol. 4, N. 4.


(8) Secondo i dati epidemiologici pubblicati dal Journal of the American
Medical Association, Chicago, marzo 2004, l’obesità è diventata negli
Stati uniti, insieme al tabacco, la causa principale della mortalità.


(9) Da: Etudes et résultats, n. 283, gennaio 2004, Drees, Ministero
degli affari sociali. Dati relativi all’anno scolastico 2000-2001.


(10) Barry M. Popkin «The nutrition transition and obesity in the
developing world» in Journal of Nutrition, Bethesda , 2001.

(Traduzione di E. G.)

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