CONSIGLIERI CORROTTI E MANCATA MODERNIZZAZIONE
COSÌ FALLIRÀ LA POLITICA DEL NUOVO ZAR
DI GIULIETTO CHIESA
Il popolo russo, in grande maggioranza, sostiene il Presidente per quel singolare mix di nazionalismo che egli rappresenta. Ma Putin sa perfettamente che gli umori delle masse oggi si controllano e s’indirizzano con la televisione. E la usa spregiudicatamente.
L’Occidente ha osservato, prima sconcertato, poi apparentemente inorridito, questa evoluzione moscovita, questa «mutazione» non prevista quasi da nessuno degli osservatori. Adesso scopre di trovarsi di fronte a un leader dai chiarissimi connotati autoritari e, al tempo stesso, nazionalistici. E adesso ha due paure. La prima ha fatto ripetutamente oscillare gli indici di Borsa a Mosca e a Wall Street: siamo forse di fronte a un ritorno al comunismo? Putin sta facendo, senza dirlo, una nuova rivoluzione? Emerge, dalle profondità della psiche, il passato «kappaghebista» del presidente russo? Si tratta di un equivoco colossale. Niente di tutto questo è nei piani di Vladimir Putin: né la cancellazione delle privatizzazioni, né l’espropriazione degli espropriatori. Nessun ritorno al comunismo è nei progetti del leader russo, e nemmeno un’idea postmoderna di capitalismo di Stato. Il potere è ora nelle mani di un aspirante autocrate che sta costruendo una «nuova classe», inedita, composta di alti funzionari statali, di uomini dei servizi segreti, di spezzoni della finanza e dell’oligarchia minore, tutta gente che ha fatto carriera sotto la gestione eltsiniana e che è ancora mescolata con piccoli drappelli di burocrati sopravvissuti al crollo del partito comunista e dell’Unione Sovietica. Tratto comune di questo ceto è la sua idiosincrasia per la democrazia, e l’ardente astio contro i grandi oligarchi, che si sono impadroniti del 75% della ricchezza nazionale. Sono questi ultimi, con le loro abnormi dimensioni, ad avere ostruito ogni ulteriore corsa all’oro, cioè alle proprietà statali, tagliando fuori appetiti numerosi e fortissimi. In altri termini: Putin sta offrendo spazio a un ceto alleato molto aggressivo, dotato di una smodata voglia di arricchimento selvaggio, senza limiti, senza controlli, senza remore.
Non è un paradosso notare che l’esempio del successo degli oligarchi ha moltiplicato i loro nemici. Putin li sta usando come testa di ponte per abbattere democrazia e potere oligarchico in un solo colpo.
La cosa curiosa, ma niente affatto strana, è che questa «nuova classe», che Putin impersona e cavalca, ama il capitalismo senza avere nessun affetto o rispetto per l’Occidente. Al contrario, essa è imbevuta di ostilità nei confronti degli occidentali, di tutti senza distinzione: americani, australiani, giapponesi e anche europei, seppure in grado minore. Essa non ha – come s’è accennato – nemmeno alcuna soggezione nei confronti delle istanze democratiche, residuo che ancora impensieriva, seppure marginalmente, i vertici postsovietici della Russia, se non altro per l’esigenza d’immagine di mostrare agli americani che i nuovi leader russi erano democratici.
Di tutto ciò non resta traccia alcuna nella nuova Russia di Putin. Questa nuova classe – che potremmo definire dei «vendicatori» – necessiterebbe di un nuovo Milovan Djilas per essere descritta (ma non è ancora apparso in Russia un personaggio di tale levatura). Essa non ha comunque alcun debito di riconoscenza verso gli Stati Uniti, non dovendo la propria ascesa a Washington e alle grandi banche d’investimento occidentali. I nuovi arrivati intendono semplicemente sostituire i troppo pochi e troppo ricchi predecessori nella conquista delle ex proprietà statali.
Essa infine impersona perfettamente un mood generale dell’opinione pubblica russa (di quel poco che può essere definito opinione pubblica): l’astio contro gli Stati Uniti, ritenuti – e non a torto – i principali responsabili delle promesse mancate. Giusto o sbagliato che sia, questo stato d’animo è largamente diffuso. Il benessere non è arrivato, la democrazia non è all’orizzonte. Le condizioni di vita di larghissimi strati popolari della Russia sono peggiori, senza confronti, di quelle che caratterizzavano l’Unione Sovietica all’inizio degli Anni Ottanta.
Su questo groviglio di attese, impazienze, desiderio di rivincita, umiliazioni e frustrazioni, incertezze per il futuro, paura, Vladimir Putin ha costruito il suo castello di potere e i suoi rating. Che non sono alti come vengono presentati al pubblico, ma sono comunque abbastanza robusti da metterlo al riparo da ogni sorpresa per un certo periodo di tempo. Le sue due trionfali elezioni dicono che egli ha il consenso necessario per fare ciò che vuole, anche se non ha il buon gusto di contenere il trionfo in proporzioni credibili. Ma questa pare essere la temperie dei sovrani assoluti. Ha voluto stravincere, annichilire i modestissimi avversari con l’esibizione di un potere sterminato. Usa la televisione come fosse un soprammobile personale. Irride perfino quel poco che resta della politica affiggendo manifesti nella metropolitana che inneggiano al rispetto ferreo della legge, per tutti, presidente incluso, mentre è chiaro a chi può rendersene ancora conto che egli è l’origine di ogni legge. Insomma mostra al colto e all’inclita la sua intenzione di schiacciare il collo a chiunque voglia anche solo provare a opporsi. Khodorkovskij insegna. La finzione democratica è stata abolita.
Putin ha deciso che non gli si addice la veste di riformatore illuminato, di modernizzatore democratico, e ha scelto quella di autocrate. Ha preso le distanze dal regime da cui è sortito, ma solo per crearne un altro. Quella Russia che qui si descrive, per scelta del suo nuovo zar, non sarà distinguibile dalle ambizioni e dall’orizzonte mentale di chi la possiede. Molte delle cose che vi sono accadute hanno una loro logica, tremenda e inquietante. Ma molte altre sono dipese – come lo fu la vicenda di Gorbaciov e di Eltsin – dalle scelte individuali di chi era al comando. Il ruolo della personalità nella storia ridiventa cruciale, nel bene e soprattutto nel male.
Putin avrebbe potuto essere, forse, un’altra cosa; poteva fare altre scelte e non le ha fatte. Se riuscirà a diventare davvero un altro zar sarà perchè così ha deciso. Una cosa, in conclusione, mi pare certa: modernizzare la Russia con la forza, come fece Pietro il Grande, richiede non solo più forza di quella che ha ora Putin: presuppone una Russia isolata dal mondo, che cava da sola il suo ragno dal suo buco. Cioè implica dimenticare l’interdipendenza globale, e l’avvento contemporaneo di un impero potente come mai prima d’ora. E modernizzare il paese senza il consenso dei suoi cittadini è impresa vana, che presuppone una Russia che non c’è più, come non c’era più nemmeno ai tempi di Gorbaciov. Infine comporta la disponibilità di una squadra di consiglieri esperti, capaci di pensare, di vedere una strategia globale. Invece Putin è solo, e attorno a lui la corruzione dilaga come una ruggine che tutto consuma. Siamo, di nuovo, in uno dei ricorsi storici che la Russia sembra incapace di evitare, di fronte a un leader che costruisce le sbarre della propria prigione, quelle in cui, da sovrano assoluto, dovrà rinchiudere prima di tutto le proprie ambizioni. E poi la Russia. Su queste basi la prognosi non può che essere infausta.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.lastampa.it
26.11.04