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La Redazione

 

I piu' letti degli ultimi 30 giorni

PUO' L'EUROPA SOPRAVVIVERE AL COLLASSO GLOBALE ?

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A cura di Davide
Il 10 Maggio 2009
56 Views

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DI FRANCO BERARDI “BIFO”
rekombinant.org

L’estetica d’Europa

Place de l’Europe, a Parigi, è una piazza sopraelevata in cui le rue
de Vienne, di Londres, di Saint Petersburg e di Costantinopoli,
fantasmi imperiali del passato si incontrano in un luogo senza
fascino.
A Bologna hanno costruito una porta d’Europa. E’ un orrendo casermone
in forma di ponte di fronte all’entrata della Fiera, in una zona
deturpata dallo stile Lega-Coop. Chi viene da nord-est, lungo via
Stalingrado se la trova di fronte a un certo punto dove impedisce di
vedere la collina di San Luca.
L’immagine d’Europa è frigida per definizione. L’estetica europea ha
un carattere asettico ed anti-passionale di cui è facile comprendere
le ragioni: l’Europa è nata anzitutto come esorcismo contro le
passioni del nazionalismo. In questo trova la sua radice progressiva.
Dimenticare il romanticismo è l’imperativo costitutivo dell’Unione
europea.
Il mito fondativo è cancellato nella memoria europea. L’otto maggio è
giorno festivo in Francia, ma in Italia pochi sanno cosa è successo
l’otto maggio del ’45.

In un articolo sul Belgio come metafora d’Europa Eve Charrin parla
della crisi di identità che perseguita il Belgio come metafora della
crisi di identità che perseguita l’Europa dalla sua origine, e che
oggi rischia di divenire paralizzante (La vertige vertige de l’Europe,
ESPRIT, mars avril 2009).
“Non è un caso né un’aberrazione, scrive Charrin, se il centro
d’Europa è un piccolo paese diviso in due, dall’identità indefinibile,
la cui sopravvivenza è problematica…. Lungi dall’essere un’incongrua
arretratezza al cuore di un’Europa moderna, la dislocazione del Belgio
è ultramoderna.”
Ma il punto essenziale del ragionamento svolto da Eve Charrin è un altro:
“L’Europa è la pace, l’Europa è la prosperità. Questi luoghi comuni
dei vertici europei indicano che i valori delle gilde fiamminghe sono
quelli della modernità europea.”
L’estetica europea rispecchia questo sentimento pragmatico, senza retorica.
“Granito, vetro e cemento, espressioni di un potere di deprimente
neutralità architettonica.…
Qui, al centro nevralgico d’Europa, sta il grado zero dello spazio
pubblico. Questa modestia senza grazia è un modo di pretendere che non
si faccia della politica, ma della gestione.”
La tesi di Eve Charrin è interessante e lucida, descrive bene la
storia d’Europa degli ultimi decenni.
L’ identità d’Europa consiste nella prosperità. Finché ha potuto
garantire un livello di prosperità crescente nel tempo, fin quando la
rigida legge monetarista ha permesso all’economia di crescere,
l’Europa ce l’ha fatta.
Ma adesso?
La costruzione europea ha preferito identificarsi con l’immagine
funzionale dei banchieri piuttosto che attraverso l’adesione a
progetti politici, a grandi visioni ideologiche, a personalità
carismatiche.
Finora ha funzionato ma ora è il momento di chiedersi: sopravviverà
l’Europa al collasso finanziario ormai avvenuto e ai rivolgimenti
economici che si sono avviati dal momento che l’unico elemento
unificante è stata l’architettura finanziaria?

La costruzione europea è una finzione democratica regolata da un
organismo autocratico, la Banca Centrale Europea. Mentre la Fed e la
Banca d’Inghilterra hanno abbassato i loro tassi praticamente a 0% la
BCE li ha abbassati soltanto all’1.25%. Mentre la Fed nel suo statuto
ha l’obiettivo della stabilità dei prezzi e del pieno impiego, lo
statuto della BCE ha un unico obiettivo: evitare l’inflazione, anche
se questo comporta una caduta dell’occupazione. Questa paura
dell’inflazione è oggi del tutto irrazionale dato che la tendenza è
verso una deflazione.
Ma questa politica non può essere influenzata dalla volontà della
popolazione, dal momento che per statuto la BCE non risponde alle
autorità politiche. Per questo i cittadini considerano le elezioni
europee come un momento in cui regolare affari interni, una sorta di
sondaggio sulle scelte politiche nazionali. E’ evidente a tutti che il
Parlamento europeo non ha alcun potere sulle questioni sociali ed
economiche, dunque non conta nulla.

Coscienza americana

Paradosso: la costruzione europea ha seguito una linea direttrice a
livello economico: diventare come gli Stati Uniti d’America. Ridurre
la spesa sociale, ridurre il costo del lavoro, ridurre le tasse,
favorire il profitto d’impresa. Ma ora che il modello americano viene
abbandonato negli Stati Uniti d’America, può l’Europa insistere nel
suo solitario fanatismo neoliberista?
Se paragoniamo l’atteggiamento della Banca europea e del ceto politico
dei paesi europei con l’atteggiamento dell’amministrazione americana,
la differenza è evidente.
La coscienza americana ha registrato la drammaticità della situazione.
Una riflessione radicale è iniziata nel mondo intellettuale americano,
sulle riviste, sui quotidiani intelligenti. La coscienza europea
invece respinge l’evidenza. Continua a considerare indiscutibile il
dogma della privatizzazione, del rigore dei bilanci, della riduzione
del costo del lavoro. Persiste dogmaticamente nella direzione che ci
ha portato qui.
Il problema è che la coscienza dei movimenti si è spenta, in Europa.
Non esiste più né il movimento della pace, né il movimento
anti-corporation, che pure fiorì nei primi anni duemila, da Bologna
NoOCSE a Praga no WTO Genova NoG8.
Non esiste più in’intellettualità capace di prendere la parola, di
fare proposte coraggiose, di dire la verità.
Impressionante la differenza tra la vivacità e l’immaginazione
dell’intellettualità americana, se paragonata alla viltà, al cinismo,
all’apatia degli intellettuali degli scrittori dei giornalisti
europei.
Su TIME (non propriamente una fanzine radical) è uscito un servizio di
Kurt Andersen che si chiama the End of Excess (Why the crisis is good
for America) in cui si dice fra l’altro: “Non fingiamo di non aver
visto che questa crisi si è preparata da lunghissimo tempo.”
E ancora: “Quelli di noi che sono abbastanza vecchi da ricordare la
vita prima che cominciassero i ventisei anni della baldoria,
passeranno probabilmente il resto della loro vita a cercar di
affrontare le conseguenze – nell’economia, nella politica economica,
nella cultura e nella politica, con la deformazione e la lacerazione
delle nostre vite quotidiane.”
Questo scrive Kurt Andersen su Time.
E John Tirman, in un articolo apparso in The American Scholar, si
interroga su quale sia una possibile reinvenzione della frontiera
nell’epoca presente (The Future of the American Frontier).
Il mito della frontiera, che è stato centrale nella formazione e
nell’evoluzione della civiltà americana appare oggi consunto, da
quando il globalismo ha cancellato l’esistenza stessa delle frontiere.
Ma quel mito fa oggi fallimento, con il collasso dell’economia
globale, e con la crisi dell’egemonia militare statunitense.
“Se il mondo è la nostra ostrica non c’è più bisogno di regole né di
limitazione delle aspettative. Per quattrocento anni quest’ideologia
promossa dalla chiesa e dallo stato, dai media dalle scuole e dalla
cultura popolare, ha nutrito l’eccezionalismo americano che alimenta
arroganza e spreco e guerra. “
E allora? si chiede Tirman. E allora, insinua, forse la nuova
frontiera è quella che ci porta oltre la società della crescita e del
consumo, verso un ripensamento radicale che riporti l’America
all’umiltà pionieristica dei primi coloni. “La risposta alla domanda:
quale frontiera adesso? può essere il ritorno all’umiltà della prima
frontiera.” Traducendo potremmo dire che la frontiera che oggi
l’America deve superare è la frontiera stessa del capitalismo.

Due processi si intrecciano all’orizzonte degli Stati Uniti: la crisi
dell’egemonia militare e la crisi finanziaria. Sono due processi che
si alimentano a vicenda. L’indebitamento illimitato su cui gli
americani hanno fondato la loro economia è stato possibile grazie
all’egemonia politica e al ricatto militare. Ma le disfatte
politico-militari in Iraq, Afghanistan, Russia, Sudamerica hanno
sgretolato la forza di ricatto di cui la potenza americana disponeva.
Alcuni commentatori sollecitano un maggiore coraggio keynesiano da
parte dell’Amministrazione. Per esempio Paul Krugman incalza
quotidianamente il Presidente per suggerirgli un maggiore coraggio nel
dirottare risorse verso la domanda attraverso un prelievo fiscale sui
redditi alti.

Krugman ha ragione, ma alcuni dubitano che il keynesismo possa essere
applicato con successo alla crisi di questi mesi. Scrive Paul Craig
Roberts sulla rivista Counter Punch:
“La politica macroeconomica ha oggi di fronte due sfide nuove. Nel 21
secolo l’economia americana è andata avanti grazie all’espansione del
debito dei consumatori, non attraverso aumenti veri di reddito. I
consumatori sono sommersi da debiti e mutui… Le politiche monetarie
non sono di grande aiuto dato che i posti di lavoro americani sono
stati delocalizzati. Dato che la produzione è all’estero aumentare la
domanda significa stimolare la produzione in Cina e in altri paesi.”
In un intervento dal titolo Financial Katrina David Harvey scrive:
“Il problema per gli USA oggi sta nel fatto che il paese parte da una
posizione di indebitamento cronico verso il resto del mondo (ha preso
in prestito più di due miliardi di dollari al giorno durante gli
ultimi dieci anni), e questo pone un limite economico sulle dimensioni
di un extra debito (questo non era un problema per Roosevelt che
cominciò con un budget abbastanza equilibrato).”
Lo stesso Harvey aggiunge che in questa situazione la sola misura che
potrebbe aiutare l’economia americana sarebbe una riduzione della metà
della spesa militare e uno spostamento di quelle risorse verso grandi
lavori di ricostruzione delle infrastrutture americane. Ma è evidente
che Obama non ha la forza politica per imporre questa soluzione perché
dovrebbe affrontare un’opposizione violentissima del partito
repubblicano, e la resistenza di buona parte del suo stesso partito.
Il pragmatismo post-partisan che Obama dichiara di professare è il
metodo politico migliore in una situazione come questa perché
riconosce l’esaurimento delle ideologie novecentesche (liberismo e
socialismo) e si predispone realisticamente a registrare l’evidenza:
che il dispiegamento delle potenze produttive e intellettuali richiede
un abbandono dell’economia finanziaria legata al predominio immediato
del profitto, e che la stessa forma del salario non è più in grado di
misurare le forme immateriali dell’attività.

Paralisi europea

Mentre il pensiero americano sta cercando di prendere seriamente le
misure alla trasformazione che si sta svolgendo, il pensiero europeo
sembra incapace di immaginare alcunché.
La classe dirigente europea non deflette minimamente dalle politiche
monetariste e neoliberiste, né sul piano ideologico né sul piano degli
interventi economici e monetari.
Riduzione del costo del lavoro, privatizzazione dei servizi,
privatizzazione del sistema educativo – questa rimane la linea di
marcia della classe dirigente europea. Il paradosso è che questa
cecità sta producendo effetti di protezionismo, e conflitto tra stati
nazionali.
In Europa, territorio delle innumerevoli radici, il processo di
deterritorializzazione tecnologica produttiva e culturale provoca
controeffetti di riterritorializzazione ideologica, psichica e
securitaria.
Pensiamo a come ci sembrava di poter vedere il rapporto tra Europa e
Stati Uniti solo qualche anno fa. Il paese di Bush era entrato in
un’epoca torva di oscurantismo e di aggressività mentre l’Europa
sembrava aprirsi in un processo di inclusione pacifica. Oggi le cose
sono del tutto rovesciate.
Mentre gli Usa di Obama affrontano la crisi con la consapevolezza di
un salto di qualità eccezionale che segna la fine dell’egemonia
americana, e costringe a immaginare orizzonti nuovi, l’Europa non ha
dimostrato fino a questo momento alcuna comprensione della radicalità
della crisi.
Non sto parlando solo delle reazioni dei governi nazionali e della
banca europea.
Non sto parlando neppure del conformismo e del servilismo degli
intellettuali europei.
Parlo proprio dell’incapacità della società europea, e dei movimenti
che ne esprimono l’autonomia, di elaborare una prospettiva
indipendente dal destino delle vicende nazionali.
In un articolo dal titolo “A continent adrift”, un mese fa Paul
Krugman diceva che, per quanto preoccupante sia la situazione
economica americana, quel che più lo preoccupa è il destino d’Europa.
La crisi è destinata infatti a colpire l’economia europea non meno di
quella nordamericana, ma la differenza tra le due situazioni secondo
Krugman sta nell’incapacità europea di elaborare una risposta unitaria
alla crisi. L’Unione si è costituita e consolidata come processo
essenzialmente finanziario di coordinamento e omogeneizzazione delle
politiche economiche e oggi questo piano si sgretola. Questo
sgretolamento può aprire la voragine del nazionalismo e della guerra
civile interetnica.
In un’intervista a Le Monde del 19 aprile, Dani Cohn Bendit parla di
una “rinazionalizzazione delle politiche economiche e dei
comportamenti”. I segni del ritorno al protezionismo sono tanti e così
evidenti che il richiamo all’unione e la condanna del protezionismo
son diventati ritornelli retorici. Occorre ripensare la ragione e la
finalità del processo europeo, e il crollo rovinoso del liberismo
dovrebbe condurre in quella direzione, anche se per il momento non se
ne vede la possibilità. Il discorso dominante resta dominato dal
pregiudizio monetarista, il patto di stabilità permane come una sorta
di dogma burocratico che blocca ogni conversione in senso sociale
delle economie nazionali.

Il simbolo Obama

Solo un movimento europeo può salvare il continente da una deriva
oscura. Ma il movimento finora, non ha avuto altra idea dell’Europa se
non quella di rifiutarla (resistenza delle componenti
vecchio-comuniste) o esaltarla (Cohn Bendit, Negri). Il problema è
come modificarne la direzione per la sua propria salvezza, per la
salvezza di quanto di positivo l’Unione ha comunque rappresentato.
Quel che occorre in Europa è un movimento capace di portare la
coscienza collettiva all’altezza del simbolo Obama. Guattari avrebbe
detto che Obama è un fattore di ri-semiotizzazione universale che
ridefinisce l’intero campo dell’immaginazione mondiale.
Non sappiamo cosa farà Obama, né quale siano le sue linee strategiche,
probabilmente non lo sa neanche lui. Probabilmente sarà costretto a
piegarsi al potere delle corporation e del sistema militare. Può
darsi. Ma Obama rappresenta il simbolo, l’unico simbolo attuale, che
una rottura è possibile nell’ordine della percezione,
dell’immaginazione, e del linguaggio. Obama rappresenta la
consapevolezza di essere entrati in un passaggio in cui solo
l’intelligenza tollerante condurrà il pianeta fuori dal disastro.
In Europa questa consapevolezza non vuole esistere. Gli intellettuali
sono stanchi. Ma in qualche punto del continente questa coscienza deve
pur formarsi, coagularsi, iniziare a connettersi.
Non basta più la motivazione originaria su cui è nata l’Unione
europea: risolvere il secolare conflitto tra le nazioni, instaurare
una logica fredda della compatibilità finanziaria. Questa motivazione
ha funzionato nei decenni passati ma ora non funziona più. L’estetica
d’Europa va ripensata, e quindi la sua percezione sociale. L’orizzonte
nuovo che i movimenti possono indicare all’Europa è quello della
decrescita felice e della riduzione generalizzata del tempo di lavoro.
Re-investire l’energia sociale che la recessione deprime, verso una
riattivazione del corpo emozionale della società europea. Un’Europa
che investe le sue risorse verso un processo proliferante e
generalizzato di auto-formazione e di terapia, di cura della
singolarità.

Franco Berardi “Bifo”
Fonte: http://www.rekombinant.org/
Link: http://liste.rekombinant.org/wws/arc/rekombinant/2009-05/msg00025.html
8.05.2009

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