PROVENZANO – CIACK SI CATTURA

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DI ANDREA CINQUEGRANI

Come nel più azzeccato dei reality, la cattura del secolo avviene a urne elettorali ancora calde. Seguono passerelle televisive, interviste doppie e tutto un gran darsi da fare per “svelare” il contenuto dei pizzini. La verità è forse altra. E per veder chiaro bisogna tornare a quel “salvacondotto” di 3000 nomi di cui parlò il Capitano Ultimo…

Lunedì 10 aprile. Le urne elettorali sono chiuse da otto minuti, la Benemerita mette a segno il colpo del secolo (già, erano 43 gli anni di latitanza): viene catturato il boss dei boss, Bernardo Provenzano. Media scatenati, urrà per i magistrati e le forze dell’ordine, almeno un mese di appostamenti sulla collinetta di fronte alla masserizia-rifugio. E poi la valanga di pizzini, in un bel minestrone a base di caciotte & cicoria. «Lo Stato ha vinto, lo Stato sconfigge la piovra». «Un momento, stiamo attenti, ci sono altri mafiosi di grosso calibro in giro». Il solito rituale dell’antimafia va in scena per giorni e giorni. Compresa la partecipazione da star del migliore reality di Pietro Grasso, il procuratore nazionale antimafia che fra battutine e risolini celebra il suo trionfo (segue a ruota l’intervista targata Iene). Mafiologi a tutto campo, per decifrare la montagna di pizzini che lievita quotidianamente, come il buon pane casereccio di quelle campagne a ridosso di Palermo. «C’è lì tutto il codice segreto della mafia – celebrano alcuni – potremo leggere la storia degli ultimi trent’anni». Siamo proprio sicuri? Vedremo più avanti.

Qualche giorno dopo il clamoroso arresto, eccoci alla nomina delle più alte cariche dello Stato, ovvero i vertici di Camera e Senato. Prima la scontata nomina di Fausto Bertinotti a Montecitorio, poi si passa alla singolar tenzone tra Franco Marini, appoggiato dall’Unione, e Giulio Andreotti, sponsorizzato dal Polo. Udite udite, torna in scena – sul proscenio più alto – il “divo”, ottantasettenne ma lucido come non mai. Una votazione al cardiopalma, con tanto di franco-Francesco tiratori e “pizzini” d’occasione. Alla fine vince Marini. Ma lui, l’uomo che ancora oggi detta le sue “leggi” dal quartier generale di piazza Capranica, è tornato prepotentemente in pista. Nonostante quella famosa “assoluzione” nel processo partito dal bacio a Totò Riina per poi disegnare ampi scenari collusivi, finisca per pesare ancora non poco: dal momento che il reato è stato, al solito, prescritto; e però restano politicamente e moralmente a carico del divo Giulio tutti i rapporti arcidocumentati con la mafia fino al 1980 per aver intrattentuto «una autentica, stabile e amichevole disponibilità verso i mafiosi fino alla primavera del 1980».

Ma di complicità, connivenze & collusioni è lastricata la nostra storia politica. A cominciare da un altro pasticciaccio che più brutto non si può. E cioè, il processo a carico del generale Mario Mori e il capitano Sergio De Caprio – il celebre Ultimo delle fiction – per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, dopo la sua cattura. Il processo, che si è concluso a Palermo poche settimane fa, ha visto la loro “scontata” assoluzione, visto che gli stessi pm avevano già chiesto l’archiviazione. Ma quel caso pesa come un macigno, ancor più oggi, dopo la cattura di Provenzano, sulla credibilità delle istituzioni. Scorriamo in rapida carrellata alcune fra le tappe più sconcertanti di quei drammatici giorni. 15 dicembre 1993: a un anno e mezzo dallo scoppio di Tangentopoli, viene catturato il capo di Cosa Nostra, Riina. Un grande colpo, anche quella volta, messo a segno dai vertici della Stato. Peccato che poi, incredibilmente, il covo, il rifugio dove il boss venne catturato, sia del tutto dimenticato. Per la serie, niente perquisizioni, nessuna misura di controllo, assente ogni disposizione di vigilanza su quello che anche un alunno delle elementari riterrebbe un luogo caldo. Anzi bollente. Niente. L’abitazione viene dimenticata per tre settimane. Solo dopo, le forze dell’ordine potranno scoprire che quel luogo è stato ripulito di tutto; non basta, i mafiosi lo hanno “pittato” di fresco, Per la serie, arrivederci e grazie.

Come è stata possibile questa così clamorosa leggerezza? Come mai si è verificato questo macroscopico “buco nero” che neanche il detective più “sgarrupato” si sarebbe mai potuto permettere, pena la radiazione dall’albo? Eppure è successo così: gli uomini al comando del generale Mori – poi evidentemente promosso – e del capitano Ultimo hanno lasciato baracca e burattini e sono tornati in caserma. Cin cin.

Ma come si sono giustificati Mori e De Caprio al processo? Praticamente, non hanno fornito alcuna spiegazione plausibile. Il generale in dibattimento ha sostenuto una tesi singolare: i militari erano “stressati”, sfiniti dopo tanti giorni di appostamenti, quindi non era possibile controllare il posto. Strano non sia stato convocato un perito-psicologo per verificare il tutto… Ultimo ha fornito una spiegazione minimalista: secondo lui, era assurdo pensare che un boss del calibro di Riina potesse conservare niente di particolare – né tantomeno dei segreti o dei dossier – nel suo covo. Perché Riina – è la singolare versione – portava tutto sempre con sé, come fanno i mafiosi tutti d’un pezzo: in un borsello. Variazione sul tema: l’eccentrica difesa del capitano De Caprio da parte del suo capo. «Se Ultimo – ha dichiarato in aula Mori – con il mio avallo decise di non proseguire l’osservazione, si ritenne che tale decisione era perfettamente coerente con quanto deciso, determinato nella riunione del 15 pomeriggio».

Peccato che la versione dell’allora procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Aliquò, faccia letteralmente a pugni con quella dei due. Dalla procura non è mai partita alcuna indicazione per non effettuare sopralluoghi e controlli sul covo, è il senso del j’accuse di Aliquò.

Ma ecco entrare in scena altri protagonisti dell’affaire di Stato, che tanto ha inciso e potrà ancora incidere nelle sorti del nostro Paese, sempre avvolte nei misteri più fitti. Generale oggi in pensione, Domenico Cagnazzo era a quel tempo il numero uno dei carabinieri a Palermo (poi è passato a dirigere la Benemerita in Campania, oggi è inquisito dalla procura di Napoli per traffico di rifiuti, affari e massoneria): secondo le ricostruzioni, fu proprio Cagnazzo a “svelare” in anticipo ai cronisti l’ubicazione del covo. Lui, Cagnazzo, scarica la colpa su un sottoposto, tale Cipollino. In una sfilza di “non ricordo”, “mi sembra che”, davanti ai giudici del primo grado si è snocciolato l’incredibile scaricabarile. Ecco cosa dichiara Cagnazzo: «Io per principio, per forma mentis, non avrei mai dato l’ordine a Cipollino di riferire dove fosse il covo di Riina, via Bernini 54, nel modo più assoluto…. Si è sbagliato….ha ricordato male…. Quel povero ragazzo si sarà confuso… anche perché si trattava del rispetto dei patti che erano intervenuti con i colleghi del Ros e con i magistrati». Ma di quali patti parla Cagnazzo? Di quali misteriosi, inconfessabili accordi? Siamo ad un altro personaggio-chiave, il colonnello Giuseppe De Donno, da sempre braccio destro di Mori. Fin dalla “trattativa” con Vito Ciancimino ad inizio 1990, una trattativa rimasta sempre avvolta nel mistero, con il duo Mori-Di Donno pronto a spingere l’ex sindaco di Palermo a svolgere la mission di “infiltrato” fra i clan per riuscire a delineare strategie, affari & uomini protagonisti dell’assalto agli appalti miliardari di quel periodo. Cominciando da quelli strettamente (si fa per dire, lo Stretto…) siciliani, per continuare con quelli lungo tutto lo stivale, Alta Velocità in primis, sulla quale avevano cominciato ad indagare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a inizio ’90 (vedi box). Così ricostruisce quelle vicende Lorenzo Baldo, vicedirettore del periodico Antimafia Duemila, da diversi anni in trincea nella lotta alla malavita organizzata: «Mori e De Donno proposero allora, nel corso di quella trattativa, di farsi tramite con Cosa Nostra per la cattura di Riina.

E’ emblematico, a questo proposito, il passaggio dell’udienza dell’11 luglio 2005, quando il pm Igroia chiede a De Donno se la “promessa” fatta a Ciancimino da parte sua e dal generale Mori, di un eventuale “trattamento di favore”ai familiari di Riina in cambio della sua cattura, riguardava per caso anche la casa dove abitavano. A quella domanda De Donno ha un attimo di disorientamento, dopodiché nega decisamente la circostanza con una smorfia di sarcasmo». Nella stessa udienza – ricorda Baldo – i giornalisti Attilio Bolzoni e Alessandra Ziniti, e successivamente anche Saverio Lodato, «confermano di aver ricevuto il giorno dopo l’arresto del boss la “soffiata” sul luogo esatto del covo di Riina direttamente dal capo ufficio stampa della Regione militare dei carabinieri Cipollino». Il quale, evidentemente, aveva ricevuto “ordini superiori”.

Di nuovo il covo di Riina, allora, e siamo ancora in compagnia di Bolzoni e Lodato, autori del libro “C’era una volta la mafia”, edito da Garzanti, nel quale si parlava, fra le altre cose, della mancata perquisizione al covo. Il capitano Ultimo si sente offeso dalla ricostruzione dei due giornalisti e li cita in giudizio. Ma nel corso del processo di Milano avviene il bello: è lo stesso Sergio De Caprio a parlare di 3000 nomi nel covo di Riina: ossia il tesoro, la merce di scambio. Così ricostruisce quelle fasi giudiziarie l’avvocato Caterina Malavenda, che difendeva gli autori del libro: «Bolzoni e Lodato nel libro non parlano di cifre precise, è stato proprio Sergio De Carpio nel corso della sua deposizione a parlare dei 3000 nomi di quel misterioso archivio segreto». Ecco, allora, cosa ha verbalizzato Ultimo nel corso dell’udienza milanese per il processo di diffamazione (vinto dai due giornalisti) che si è svolto a Milano.

«Leggendo il libro viene presentata in maniera sistematica la presenza di accordi illeciti tra carabinieri e grandissimi personaggi mafiosi come Provenzano, che è ancora latitante; attraverso questi accordi si sarebbe sviluppata tutta una serie di dinamiche che avrebbero consentito l’arresto di Riina che ho operato personalmente. Si dice chiaramente che non si è voluto perquisire il covo perché c’era un fanto… un archivio…. Viene introdotta la presenza di un archivio di Riina, che è un fatto gravissimo perché a me non risulta da nessuna parte, l’esistenza di questo archivio è praticamente la…. Il patto è: Riina è stato preso per strada perché in cambio gli hanno dato la possibilità di nascondere questo archivio, che l’avrebbe preso Provenzano per poter ricattare 3000 perso…. Ah… grosse personalità».

Altro che pizzini. Ed ecco cosa ha verbalizzato Giusy Vitale, sorella di Vito, che ha trascorso settimane di lavoro con Giovanni Brusca: «mio fratello ha lasciato intendere che c’erano delle cose che se venivano trovate…. Addirittura mi ha fatto capire come se…. saltava anche lo Stato in aria…. Succedeva un finimondo». La stessa Vitale, poi, dichiara di aver sentito il fratello parlare con Brusca e altri mafiosi di «documenti che valevano più dell’oro…. Documenti di preziosissimo valore che possedeva Riina… so che erano delle cose molto scottanti… che sarebbe successo un grande casino se ciò veniva scoperto…». Ma è lo stesso Brusca a testimoniare sul covo di Riina. Ecco cosa dice: «Sì, teneva dei documenti, appunti, conteggi, atti notarili. C’erano documenti, ma non ne conoscevo il contenuto». Brusca, davanti ai giudici, racconta di alcuni incontri. Focalizza la sua attenzione soprattutto su quello avuto, una settimana dopo l’arresto del boss, con Michelangelo La Barbera, che gli confida di «aver ripulito per bene il covo, bruciando biancheria, corredi e quant’altro, e di aver conservato argenteria, quadri e altro materiale in un garage».

Nel corso della sua verbalizzazione, l’ex boss di San Giuseppe Jato parla del ruolo svolto da un altro personaggio misterioso, un maresciallo dei carabinieri – arrestato poco dopo la cattura di Riina ma rimasto avvolto nelle solite nebbie giudiziarie – che, secondo la versione di Brusca, «si sarebbe incontrato con la moglie di Provenzano nei paraggi di Corleone». «Come se Provenzano – aggiunge lo stesso Brusca – dovesse dargli delle confidenze… come se Riina l’avesse venduto lo stesso Provenzano… quindi chissà quale patto occulto».

Commenta ancora Lorenzo Baldo: «La teoria di un patto per cedere Riina in cambio di qualche garanzia da parte dello Stato non ha mai abbandonato storici e ricercatori e probabilmente anche qualche magistrato. Questa ipotesi finora non è stata mai suffragata da prove reali e consistenti, al di là di semplici constatazioni, come il “papello” di Riina rivolto allo Stato per far cessare le stragi, sia stato in parte “rispettato” dalle varie forze politiche che si sono succedute dal 1992 ad oggi». Del resto anche il collaboratore Antonino Giuffrè, nell’udienza del 22 ottobre 2005, ha riferito come all’interno di Cosa nostra c’erano dei sospetti che Provenzano fosse un confidente dei carabinieri. Poi però Giuffrè ha raccontato del sospiro di sollievo di Provenzano alla notizia «che nel covo non era stato ritrovato nulla». Ma segue subito un’altra precisazione, sempre di marca Giuffrè: «i documenti importanti potevano essere nelle mani di Matteo Messina Denaro». Ovvero, il probabile, nuovo vertice di Cosa Nostra.

Osservano alcuni a Palermo: «La mafia di Provenzano è quella vecchia, dei pizzini. Ora domina quella nuova, che opera a livello internazionale, globalizzato, e reinveste sui mercati esteri. E’ assurdo vantarsi di aver dato un gran colpo alla mafia – viene aggiunto – quando è forte più di prima». Ed intanto il palazzo di giustizia di Palermo è sempre vacante, In attesa del nuovo procuratore capo, il successore del divo-Grasso. Tutti targati Unicost – l’immarcescibile corrente centrista – i candidati al vertice. In pole position, comunque, la toga che ha diretto le operazioni della ormai scontata cattura di Provenzano, Giuseppe Pignatone.

Agenda rossa e dintorni

Si chiama “Inchiesta sui mandanti a volto coperto”. E’ ancora in vita – allo stremo delle sue residue forze – l’indagine condotta dalla procura di Caltanissetta su chi ha voluto le morti di Falcone e Borsellino. Ma, secondo alcune fonti, il tutto sarebbe destinato alla solita, rituale ri-archiviazione. Per la solita, stravista sequela di stragi (quasi sempre di Stato) impunite.

Eppure quella ferite, a quindici anni e passa di distanza, bruciano. Come allora. E chiedono giustizia. «Le due esecuzioni sono strettamente collegate – raccontano ambienti giudiziari palermitani – Falcone aveva scoperto delle cose scottanti su appalti e connivenze mafiose, e Borsellino proseguiva sulla sua traccia». E infatti, negli ultimi mesi della sua vita Falcone stava indagando sui nuovi rapporti tra imprenditori, politici e mafiosi intenti a mettere le mani su business stramiliardari. A partire da quello dell’Alta velocità, che trova il suo battesimo proprio nel 1990. «E chi non ricorda – sottolineano ancora in procura a Palermo – quel rapporto del Ros su “mafia e appalti”, arrivato sulla scrivania di Falcone alcuni mesi prima della sua esecuzione. Proprio su quello stava lavorando. E ora nessuno ne sa più niente». E sono in pochissimi a ricordare che il tandem Falcone-Borsellino aveva avviato da alcuni mesi un intenso rapporto di collaborazione con un pm della procura milanese, un allora sconosciuto Antonio Di Pietro. L’obiettivo: puntare i riflettori sui maxi riciclaggi di capitali nei santuari della finanza in Svizzera. E’ forse proprio per questo che la toga molisana ha poi gettato la spugna? Non voleva fare, cioè, la fine dei due colleghi?

Misteri su misteri. E rimane un enorme buco nero proprio il perché non si sia proseguito ad indagare sul bubbone appalti: nonostante le rivelazioni di pentiti eccellenti come Brusca, Giuffrè e Siino. Proprio quest’ultimo, indagato dalla procura di Napoli per un’inchiesta su mafia & massoneria (poi passata alla procura delle nebbie romana) fu molto preciso nella sua verbalizzazione, facendo nomi di politici e imprese coinvolte nelle trame mafiose. E parò espressamente degli appalti per la Tav. Altro – ma non certo ultimo – dei misteri, quello dell’agendina rossa, il minuzioso diario che Borsellino portava sempre con sé e sparito nel nulla. Bruciato nell’auto in via D’Amelio? Macchè. Portato via, con tranquillità, da un carabiniere, sopraggiunto sul luogo dell’agguato, insieme alla borsa (che poi verrà ritrovata, priva ovviamente dell’agendina rossa). Tutto ciò è stato “scoperto” – alleluia – solo qualche mese fa, visionando uno spezzone tivvù che ritraeva il tranquillo militare a spasso tra i fumi con quella valigetta. Bollente. Ancora di più oggi. Perché nessuno indaga. E nessuno vuol scoprire chi l’ha “sottratta”. E, soprattutto, cosa conteneva. Sempre nomi & piste da coprire? Un altro “patto di Stato”?

Andrea Cinquegrani
Fonte: http://www.lavocedellacampania.it
Link: http://www.lavocedellacampania.it/detteditoriale.asp?tipo=inchiesta2&id=51
Maggio 2006

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