DI GIANLUCA FREDA
blogghete!!!
“Ní uasal aon uasal ach sinne bheith íseal: Éirímis”.
[Ciò che è grande ci appare grande perché siamo in ginocchio: solleviamoci].
(Iscrizione sulla statua di James Larkin a Dublino)
Stando a quel che riportano alcuni giornali e siti internet, la cancelliera tedesca Angela Merkel avrebbe esplicitato, lo scorso 28 ottobre, durante un incontro a Bruxelles con i 27 capi di stato europei, il desiderio della Germania di uscire dall’euro. Rispondendo al primo ministro greco Papandreou, che accusava la Merkel di mettere la Grecia con le spalle al muro facendo proposte “antidemocratiche”, la cancelliera tedesca avrebbe sibilato: “Se questo è il tipo di club che l’euro sta diventando, forse la Germania dovrebbe uscirne”. La notizia, comprensibilmente, ha dato luogo a manifestazioni di giubilo, festeggiamenti, baccanali e riti orgiastici in tutti quei paesi europei dove milioni di cittadini, a seguito dell’introduzione dell’euro, si sono ritrovati in brevissimo tempo con le toppe al culo: abbattimento del potere d’acquisto della moneta, incremento esponenziale del debito pubblico, perdita della sovranità monetaria e – di conseguenza – di ogni altro tipo di sovranità, crollo delle esportazioni, devastazione del welfare, disoccupazione alle stelle, decesso della politica estera, della politica industriale, della politica economica e – a farla breve – della politica tout court, perdita di fiducia nelle istituzioni, assoggettamento di paesi un tempo sovrani al giogo rovinoso e umiliante della BCE (una sorta di Bundensbank allargata) e del FMI… Ce n’era abbastanza per considerare l’esternazione della Merkel a Bruxelles un graditissimo regalo prenatalizio; il quale, pur prospettando per i paesi dell’eurozona, nell’immediato, qualche anno di sacrifici e peggioramento del tenore di vita a seguito dell’implosione del sistema Euro, avrebbe consentito nel medio periodo di restituire un senso alla vita collettiva e di riappropriarsi delle funzioni della politica, oggi rese incorporee e destituite di significato dall’assenza di qualunque possibilità d’intervento dei governi nelle questioni d’interesse nazionale.
Temo, tuttavia, che i festeggiamenti fossero prematuri ed ingiustificati. La Germania non ha la minima intenzione di uscire dall’euro. Sarebbe folle a volerlo fare. Non è un caso che, immediatamente dopo la boutade merkeliana, il suo portavoce, Steffen Seibert, si sia affrettato a precisare che la dichiarazioni della Merkel erano “implausibili”. Ed ha aggiunto: “Il cancelliere vede l’Euro come il più importante progetto europeo, vuole renderlo sicuro e tutelarlo e il governo non ha la minima intenzione di abbandonarlo. La Germania è incondizionatamente e risolutamente fedele all’Euro”.
E te lo credo che è fedele! Da quando esiste l’Euro, la Germania ha acquisito un predominio economico e commerciale pressoché assoluto sugli altri paesi europei. Il suo tasso di disoccupazione è oggi il più basso mai registrato dal 1992, il suo mercato delle esportazioni opera in regime di quasi monopolio, l’inflazione è ridotta a zero, il suo controllo pressoché totale sulla BCE equivale ad un potere di vita e di morte sugli altri membri dell’eurozona (almeno finché questi ultimi non prenderanno a quattro mani il coraggio per provare ad evadere da questa gabbia per galline). Perché mai la Germania dovrebbe voler abbandonare un sistema valutario che le ha conferito il predominio economico e commerciale in Europa? Non se lo sogna nemmeno. Nel suo battibecco con Papandreou, la Merkel stava semplicemente facendo il suo mestiere: stava cioè tentando di stringere con più forza il cappio al collo delle nazioni subordinate, pretendendo che tutti coloro che sono venuti a trovarsi in condizioni d’insolvenza a causa dell’avventato ingresso nell’eurozona e che adesso vengono a chiedere, col piattino in mano, l’intervento salvifico dell’EFSF (European Financial Stability Facility), rinuncino al loro diritto di voto nel consiglio europeo. E’ la ben nota tecnica della circonvenzione d’incapace: prima ti convinco, con blandizie ed ampi sorrisi, ad entrare nel mio club per poterne godere le gloriose sorti e progressive; poi ti richiedo, per continuare a farne parte, di adottare misure che ti riducono sul lastrico; quando vieni a chiedere sostegno economico per rimanere in vita, te lo concedo, in cambio di una rinuncia ad una parte consistente delle tue prerogative all’interno del club; in questo modo, alla fine, ti riduco completamente in mio potere. La Merkel non ha nessuna intenzione di porre fine a questo marchingegno ricattatorio che ha reso la Germania la nazione più potente d’Europa. Semmai fa la voce grossa per paura che sia qualcun altro, non tollerando più questo asservimento suicida, a dare le dimissioni dal prestigioso consesso. Prendendo a modello, magari, coloro che un po’ per saggezza, un po’ per sfacciata fortuna, non sono mai entrati a farne parte. Come l’Islanda, il cui presidente, Olafur Ragnar Grimsson, ha dichiarato lo scorso 24 novembre: “Un anno fa, quando si discuteva dell’ingresso dell’Islanda nell’UE, la sensazione era che i mercati si sarebbero evoluti in modo tale da rendere difficile mantenere una valuta indipendente all’interno di un piccolo paese. Ma da allora abbiamo visto i paesi dell’Euro, uno dopo l’altro, finire in guai seri. Più di recente, è avvenuto in Irlanda ciò a cui ancora stiamo assistendo. A questo punto, i benefici legati al cambio di valuta non sono più così evidenti. L’Euro non è un percorso infallibile verso il successo commerciale, come greci e irlandesi stanno ora iniziando a capire”.
Desmond Lachman, membro dell’American Enterprise Institute for Policy Research (AEI), ha recentemente suggerito (non senza una punta di astuzia strategica che rivela i timori degli USA per il progressivo rafforzamento della Germania) che l’unica soluzione possibile per salvare la valuta europea sarebbe la fuoriuscita “temporanea” degli stati in crisi di solvibilità dall’area euro. Proprio ciò che la Germania non vuole, visto che ogni stato sganciatosi dal cappio dell’euro tornerebbe ad essere ben presto un potenziale e temibile concorrente. Molto meglio sobbarcarsi (e far sobbarcare agli altri paesi) il costo dei bailout e conservare quel ruolo egemone in Europa che agli Stati Uniti inizia a procurare qualche sonno agitato.
Le mire egemoniche della Germania hanno trasformato il “club euro” in un club assolutamente sui generis: di norma, ogni club che si rispetti possiede regole ferree e se queste regole vengono violate il contravventore viene espulso con ignominia per non essere mai più riammesso a far parte dell’ambita congrega. La zona euro è l’unico club in cui chi viola le regole (quelle definite dal “patto di stabilità”) non solo non viene espulso, ma costringe tutti gli altri membri ad accorrere in suo soccorso per evitarne l’espulsione, la quale determinerebbe la disgregazione immediata dell’associazione stessa, con grave danno dei suoi tesorieri. Praticamente, una volta che ci sei entrato, non riuscirai più ad uscirne, quale che sia il tuo livello di disciplina. Anzi, più violi le regole, più verrai costretto, volente o nolente, a restare rinchiuso fra le sue mura. Al massimo, a causa dell’infrazione commessa, ti verranno inflitte sanzioni e penalità, ad esempio essere rinchiuso in una cella sorvegliata a vista e costretto ad un regime di pane ed acqua per un periodo indeterminato. Sembra la definizione di un carcere più che di un club; anzi, di un lager, per restare in tema e ricordare una gloriosa istituzione della tradizione germanica.
Proprio per questo, il club/lager europeo ha ormai perduto la sua aura di prestigio e sarà difficile, da adesso in poi, trovare altre nazioni disposte a farsi infinocchiare; salvo che siano governate da traditori e venduti del più miserabile livello, simili a coloro che in Italia costituiscono la putrescente “sinistra” e il fognario “terzo polo” che mirano oggi a garantire il dissanguamento definitivo del nostro paese e il suo asservimento alle direttive di organismi sovranazionali.
La Germania sta oggi riproponendo su più ampia scala europea lo stratagemma che aveva già attuato, con successo, all’epoca della riunificazione con la DDR. Il passaggio al marco tedesco disintegrò in modo pressoché istantaneo l’industria della ex Germania Orientale, che si ritrovò nell’impossibilità di competere a causa di un tasso di cambio vigorosamente inflazionato. A distanza di oltre vent’anni dal crollo del muro, l’industria tedesca dell’est non si è ancora ripresa e il governo centrale non cessa di pompare all’est denaro per il welfare e le infrastrutture in modo da rendere i territori dell’ex DDR totalmente dipendenti da Berlino per la sopravvivenza. Allo stesso modo, il passaggio all’euro ha ridotto alle corde buona parte delle industrie dei paesi europei, i quali si trovano adesso a dipendere dai prestiti garantiti dalle istituzioni controllate dalla Germania per non finire in default e per poter importare dalla Germania le merci che non sono più in grado di produrre. Certo, si tratta di un gioco rischioso, che presenta le sue controindicazioni: ad esempio il profondo malcontento dei cittadini tedeschi, i quali, a fronte di un PIL che cresce a dismisura di anno in anno, non vedono migliorare di una virgola il proprio benessere e hanno anzi la percezione di un impoverimento generale e di un incrudelirsi delle politiche fiscali a causa della dissipazione del denaro pubblico che il governo centrale utilizza per tenere in vita il suo sistema di strozzinaggio continentale. Ma dietro i musi lunghi degli operai e degli imprenditori tedeschi, c’è un rischio che i governanti di Berlino hanno previsto e calcolato: quello di dotare la Germania di una rilevanza politica senza pari nel continente europeo a fronte di un colossale sacrificio economico imposto alla cittadinanza. Non vorrei sembrare blasfemo né fare paragoni che sarebbero senza dubbio inconcludenti, ma tutto questo non può non riportare alla memoria la politica egemonica di altri tempi e di altre germanie.
Ci tengo a sottolineare: io non ce l’ho affatto con la Merkel, né con la Germania. Anzi, nutro nei loro confronti un’invidia senza confini. Se davvero i tedeschi dovessero riuscire a realizzare il loro progetto – che dovrebbe essere, a occhio e croce, quello di sganciarsi progressivamente dagli Stati Uniti in declino, rinsaldare i legami con la Russia e poi realizzare per via politica e finanziaria quella trasformazione dell’Europa occidentale in “lebensraum” germanico che a Hitler non era riuscita per via militare – lo riterrei comunque un vistoso miglioramento rispetto alla condizione di schiavitù criminale, umiliante e assoluta in cui la “democrazia” puzzolente degli americani ha mantenuto noi sconfitti negli ultimi 65 anni. Se proprio dobbiamo avere un padrone, molto meglio che sia un padrone europeo, con il quale abbiamo in comune una storia, una cultura e un habitat continentale, piuttosto che il barbaro padrone americano, il quale da oltre mezzo secolo non si limita a strozzarci con i suoi prestiti a interesse, ma ci minaccia con le sue basi militari, ci stermina con le sue stragi di stato appaltate ad organizzazioni appositamente predisposte sul nostro territorio (dalla mafia al Sifar, passando per Gladio), ci umilia impedendoci di avere una classe politica che non sia serva dei loro diktat, ci annichilisce distruggendo la nostra cultura e imponendoci la sua orrida musica e il suo cinema di propaganda, ci rimbecillisce con quel pattume che osa chiamare informazione. Un padrone che ci considera vermi o topi o cavie da laboratorio e ci tratta di conseguenza. Meglio la Merkel e perfino Hitler, che si limiterebbero a considerarci sudditi. Non esattamente il massimo, ma sempre un po’ meno peggio di adesso.
Siccome però prima di pensare al “meno peggio” esiste sempre un “meglio” cui è possibile aspirare, parliamo un po’ di fantascienza. Che cosa succederebbe se un paese dell’eurozona (diciamo l’Italia, tanto stiamo parlando di fantasticherie) si rendesse improvvisamente conto che l’Euro è una prigione, piantonata oltretutto da secondini maneschi, e decidesse di tagliare le sbarre e calarsi giù con un lenzuolo annodato? A sentire gli “esperti”, sarebbe l’apocalisse: i costi dell’abbandono della moneta unica supererebbero di gran lunga i potenziali benefici in termini di maggiore competitività delle esportazioni; l’Italia resterebbe isolata per anni e sarebbe evitata dagli investitori come un lebbrosario della finanza; il debito estero delle industrie private e statali, denominato in euro, crescerebbe a dismisura a causa della svalutazione della nuova (vecchia) moneta; i tassi d’interesse andrebbero alle stelle. Insomma, a sentire gli esperti, perché mai dovremmo tentare di evadere da questa comoda prigione monetaria, dove abbiamo un letto e un pasto caldo garantito (almeno per il momento), per avventurarci nel mondo esterno, che è pieno di pericoli e dove dovremmo contare sulle nostre sole forze?
Qui si tratta di capire che tipo di nazione siamo o desideriamo diventare. Soprattutto, si tratta di capire se ci interessa ancora essere una nazione o se invece ci troviamo più a nostro agio nel ruolo, meno impegnativo, di colonia. Se ci interessa essere una nazione, dovremmo capire che l’appartenenza all’eurozona o perfino alla stessa UE ci priva di ogni prerogativa di sovranità e dunque della stessa possibilità di definirci una nazione politicamente autonoma. In cambio di una sopravvivenza stentata e miserabile nella periferia di un organismo sovranazionale, ci toglie ogni prospettiva di sviluppo, ogni possibilità di definire i nostri obiettivi strategici, ogni indipendenza in politica estera, ogni capacità d’intervento in questioni interne cruciali quali la politica del lavoro, la politica energetica, i finanziamenti all’industria, la fiscalità, la sanità, l’istruzione, la ricerca scientifica e militare. Tutti i problemi che ogni cittadino italiano sente oggi ammassarsi sulle proprie spalle, che rendono privo di senso l’agire sociale e di cui si è soliti attribuire la responsabilità, a fasi alterne, ora al governo di centrodestra, ora a quello di centrosinistra, hanno invece una sola radice: l’impossibilità di qualunque governo, di qualunque colore, di compiere scelte e perseguire finalità d’interesse comune a causa dell’assoggettamento a normative sovranazionali che privano la politica di qualsiasi capacità di movimento. Si tratta, insomma, di decidere se preferiamo un carcere sicuro (si fa per dire) o una libertà rischiosa.
Lo scorso 10 novembre, in una lettera scritta a Il Foglio, Paolo Savona, ex ministro dell’Industria e presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, ha chiesto di prendere in seria considerazione la seconda possibilità.
“Anche se si fa finta che il problema non esista”, scrive Savona, “il cappio europeo si va stringendo attorno al collo dell’Italia. È giunto il momento di comprendere che cosa stia effettivamente succedendo nella revisione del Trattato di cui si parla e nella realtà delle cose europee, prendendo le necessarie decisioni; compresa quella di esaminare l’opportunità di restare o meno nell’Unione o nella sola euro area, come ha fatto e fa il Regno Unito gestendo autonomamente tassi di interesse, creazione monetaria e rapporti di cambio. Se l’Italia decidesse di seguire il Regno Unito – ma questa scelta va seriamente studiata – essa attraverserebbe certamente una grave crisi di adattamento, con danni immediati ma effetti salutari, quelli che ci sono finora mancati: sostituirebbe infatti il poco dignitoso vincolo esterno con una diretta responsabilità di governo dei gruppi dirigenti. Si aprirebbe così la possibilità di sostituire a un sicuro declino un futuro migliore attraverso il reimpossessamento della sovranità di esercitare scelte economiche autonome, comprese quelle riguardanti le alleanze globali”.
Credo che la chiave del discorso sia quella che chiama in causa la “diretta responsabilità di governo dei gruppi dirigenti”. E’ questa che all’Italia manca da quasi vent’anni. E’ l’assenza di responsabilità da parte di chi dovrebbe gestire la cosa pubblica che lamentiamo spesso nei nostri discorsi sullo stato della politica, ma senza comprenderne le cause, attribuendo scioccamente tale assenza agli insignificanti episodi di malversazione o agli scandalucci sessuali di cui i giornali riempiono le prime pagine per dirottare altrove la nostra attenzione. In realtà il vuoto della politica non è tale per intrinseco difetto di qualità dei politici nostrani (che in passato non sono mai stati dei santi, ma nemmeno più corrotti della media di qualunque altro paese), bensì per il vuoto di potere che è stato loro imposto per decreto, anzi, per Trattato, e che viene compensato con generose e incontrollate retribuzioni per non farli sentire del tutto impotenti. Viene loro consentito di essere dei kapò nullafacenti per risarcirli dell’irrimediabile perdita di potere e di responsabilità che è scaturita dalla reclusione del nostro paese nel lager dell’Unione Europea.
Chiunque creda che si possano migliorare le cose cambiando governo (cioè cambiando sorveglianti) senza prima uscire dal lager è un pazzo o un ingenuo o più probabilmente un traditore. Uno dei tanti traditori che sciamano come mosche nei campi di prigionia. Se decideremo di tornare ad essere liberi – affrontando tutte le privazioni e i temporanei disagi che ogni riconquista della libertà inevitabilmente porta con sé – dovremo affrontare il problema alla radice, passando oltre tutte le ciarle sulle amanti e le tangenti di questo o quel dirigente politico. Nostro unico strumento di valutazione sull’operato dei governanti dovrà essere la rispondenza o meno del loro programma e delle loro azioni ad un progetto di rinascita ed indipendenza nazionale; progetto che i politici attuali, infiacchiti come sono da un ventennio di subalternità a poteri stranieri, non sono minimamente in grado neppure di concepire. Dovranno essere sostituiti in tempi brevi e poi si dovrà lasciare campo libero – anche con poteri eccezionali, se occorre – a una nuova classe dirigente, determinata a ripristinare la nostra dissolta sovranità utilizzando la necessaria spietatezza contro le molte “quinte colonne” che hanno appoggiato le mire dei nostri carcerieri, conducendoci a questo disastro. Che il moralismo e la cronaca rosa siano banditi dal discorso politico. Risollevarsi dallo stato di cattività è un compito difficile e gravoso, che non può e non deve essere intralciato da inutili pettegolezzi comarili.
Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net
Link: http://blogghete.blog.dada.net/archivi/2010-12-07
7.12.2010