DI JAMES O’CONNOR
Fin dalla seconda guerra mondiale (e anche prima), la crescita economica ha totalmente trascurato quelle che Marx chiama “condizioni di produzione”, che sono anche condizioni di vita – la vita stessa, si potrebbe dire. I sostenitori della crescita non si sono mai preoccupati che la popolazione fosse in buona salute, avesse una buona educazione di base e professionale, fosse ragionevolmente felice; che le città fossero vivibili e che si instaurasse un buon rapporto tra le produzioni della città e quelle della campagna; che gli ecosistemi complessi e le “eco-variabili” che gli ecologisti chiamano “ambiente”, fossero integre. Succede pertanto nella maggior parte dei paesi occidentali (e ancora di più in quelli del Sud e dell’Est), che gli insegnanti producano ignoranza più che cultura; i dottori, profitti più che salute; i governi locali, congestione da traffico e aumento del prezzo dei terreni e delle case, più che strade e piazze dove si possa vivere e passeggiare. Gli speculatori abbattono gli ultimi alberi, in grado di assicurare un rapporto tra la città e la campagna; i ministri dell’Agricoltura distruggono, anziché difendere, l’agricoltura integrata e le culture rurali; quelli dell’Ambiente si preoccupano più dei luoghi per il tempo libero dei ricchi che dell’ecologia.
Mettendo in pericolo o distruggendo le condizioni di produzione, il capitale e lo stato possono anche ridurre i costi di produzione nel breve periodo, ma sicuramente mettono in pericolo e distruggono le condizioni che rendono possibile la vita: le città sono più congestionate e inquinate, piene di droga e di criminalità, inospitali; la campagna è diventata una periferia, con tutti gli svantaggi della città e nessuno dei suoi vantaggi; la natura è ridefinita “capitale naturale” e la gente “capitale umano”.
IL DOPO 11 SETTEMBRE
Prevalgono l’assenza di valori, la decadenza culturale, “forme malsane di vita sociale” (Gramsci). Paura, rabbia, sofferenza e piaceri maniacali sono le esperienze più comuni. In base alla versione post-moderna della legge di Gresham, le cattive pratiche sociali scacciano le buone. E la situazione è drammaticamente peggiorata dopo l’11 settembre 2001, da quando il governo Usa ha dichiarato guerra al terrorismo, assumendo la guerra come il sistema normale di risoluzione dei conflitti internazionali. Quanto finora detto non può destare meraviglia. Per sua natura, il capitale non è affatto bravo a preservare niente, né le persone né la terra né gli spazi liberi delle città né la vita rurale né la natura. Non c’è profitto nella manutenzione, e cioè nelle azioni tese ad evitare che accada qualcosa di “negativo”. Il profitto viene dall’espansione, dall’accumulazione, dal produrre e vendere qualcosa di nuovo al più basso prezzo possibile. Ovviamente non sto dicendo che i singoli capitali non investono nella manutenzione dei propri impianti e macchinari. Dico piuttosto che tali spese non producono un sovrappiù (profitto), quindi sono tenute al minimo, specie oggi che la riduzione dei costi è il metro di misura di tutto e il capitale finanziario preferisce abbandonare una città o un isolato, piuttosto che rinnovarlo e restaurarlo, anche perché le leggi fiscali favoriscono l’ammortamento rapido degli impianti fissi e non incentivano la manutenzione.
La prospettiva dunque è che le condizioni di produzione – che normalmente non sono di proprietà del capitale, diversamente dal macchinario e dagli impianti – vengano sempre di più trascurate. La tendenza a non preservare cose e persone, se non danno profitto, è oggi particolarmente forte anche a causa della crisi fiscale dello stato e della crisi di legittimazione del sistema politico e di governo, che si esprimono rispettivamente nel deficit di bilancio e nella perdita di fiducia nei leader e nei partiti politici, e nello stato. Naturalmente vi sono delle eccezioni alla regola secondo cui i singoli capitali non si preoccupano di preservare le forze produttive, perché non sono di sua proprietà, ad esempio il macchinario più costoso, specialistico, sempre preso in affitto. La regola generale del capitale è ridurre la proprietà al minimo e prendere in affitto tutto – non solo la manodopera (com’è sempre accaduto) ma anche il tempo di lavoro e i lavoratori occasionali, la terra (a meno che i governi locali non gliela regalino, alle imprese), i macchinari e gli impianti. Oggigiorno, le imprese americane prendono in affitto quasi tutte le risorse, o inputs: esperti di gestione, programmi di software, ricercatori, specialisti di mercato, persino i “direttori”.
IL CAPITALE IDEALE
Il “capitale ideale” non dovrebbe possedere niente; affittare tutto. Il capitale ideale consiste in un mucchio di soldi – o capitale monetario – liquido e quindi in grado di spostarsi dovunque trovi lavoro da impiegare a buon mercato e un mercato di sbocco, dove può ottenere profitti più alti. Nel mondo iper-capitalistico nel quale viviamo, che segue religiosamente la logica del capitale descritta da Marx un secolo fa, il capitale monetario e finanziario non è interessato a conservare niente, occupato com’è ad accrescere se stesso il più rapidamente possibile. Qual è l’alternativa? La “riproduzione” – la cura dei figli e degli anziani, il lavoro domestico e quello di “produzione” degli affetti, con la sua dose giornaliera di amore/odio – diventa politicamente rilevante, in misura mai vista prima nella storia del capitalismo. Le donne ci dicono brutalmente e ripetutamente “prima preservate quel che già c’è, dopo – e soltanto dopo – a voi uomini è consentito di cercare altro, di allargare i vostri spazi”.
Il problema della natura – del mantenimento della biodiversità, dell’aria buona, delle acque pulite ed abbondanti, dei fiumi, dei laghi e degli oceani non inquinati, dell’integrità dei “sistemi ecologici” e delle bellezze ambientali – è all’ordine del giorno come mai in passato. Gli ambientalisti di qualsiasi tendenza dicono a gran voce “Mantenere, prima di tutto; bisogna smetterla di consumare le risorse non rinnovabili, di sottrarre risorse non rinnovabili alle generazioni future; salviamo la terra”. Anche gli ambientalisti si schiereranno dunque politicamente per l’alternativa “preservare, prima di tutto”. Il problema della casa, la congestione, l’ingiustizia, la povertà, gli elevati prezzi della terra e degli affitti, la criminalità, la droga, la sgradevolezza delle strade, i barboni e lo squallore delle periferie si estendono a vista d’occhio. L’esigenza di rimettere le cose al loro posto e di recuperare un’esistenza umana e decorosa è forte non solo nei ghetti e nelle favelas ma anche nelle periferie delle città e nei centri rurali.
RICOSTRUIRE E PRESERVARE
Quelli che ho sopra citato sono i soli settori della società interessati a fermare la crescita cancerogena del capitale, governata dal capitale finanziario, sostenuta dalla guerra permanente, e tragicamente appoggiata da gran parte delle forze di sinistra e del movimento operaio. Incalzati in questa direzione, i sindacati dovrebbero forse decidere di porre al primo posto il mantenimento e il miglioramento delle condizioni materiali e culturali dei propri iscritti, per non parlare della manutenzione di macchinari e impianti, in modo da prevenire incidenti sul lavoro e malattie professionali (incluso quelle da stress, causate dai cattivi rapporti tra le persone sul lavoro). Sono convinto che sarebbe così se la proposta “preservare, prima di tutto” fosse inserita nel contesto di una battaglia più generale e ad ampio raggio. Forse la parola d’ordine dovrebbe essere ancora più precisa e generale, come ad esempio “ricostruire e preservare, prima di tutto”. Non è del resto un caso che il sindacato che ha registrato la maggiore espansione negli Usa negli ultimi anni, quello degli addetti ai servizi sociali (Social Service Employees International), sia egemonizzato dalla campagna Justice for Jenitors, un movimento che si batte sia contro la riduzione dei posti di lavoro sia contro il peggioramento delle condizioni di lavoro. (questa affermazione si riferisce ad una esperienza del 2002, Nd.R).
E’ UNA QUESTIONE DI SCELTE
“Preservare, innanzitutto” significa impiegare il lavoro, le materie prime, i macchinari e le altre risorse per restaurare, innovare, riparare, mantenere quel che esiste. Questo è quanto chiedono ormai esplicitamente Earth First!, Greenpeace e altre organizzazioni ambientaliste. Questo è quel che chiedono le femministe, i movimenti urbani e della salute, le lotte contadine, quelle per il lavoro, quelle per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro e sul territorio. Se ciò avviene in regime di concorrenza, allora vi sarà una competizione per decidere chi è più capace a restaurare e mantenere le condizioni di vita, anziché espandere la produzione di merci e il capitale, distruggendo nel frattempo le condizioni di vita. L’unico costo, inevitabile, coincide con il diritto – sacro, peraltro – di decidere a cosa rinunciare, rispetto ad un’offerta di beni di consumo apparentemente illimitata e spesso ridondante: ma questo diritto non riguarda né i disoccupati né i poveri. “Preservare, innanzitutto” comporta un livello di vita inferiore in termini di soddisfazione mercificata dei bisogni; più elevato in termini di situazione abitativa, vivibilità delle strade, integrità della città, della campagna e dei loro reciproci rapporti, sopravvivenza degli ecosistemi e cose simili. Sicuramente il capitale e lo stato capitalistico – non democratico – contrasteranno tale alternativa (che non sarebbe tale del resto, se loro non si opponessero). Potrebbero determinarsi fughe di capitale,e cioè speculazioni contro il dollaro, e si potrebbe anche arrivare alla richiesta di instaurare controlli sulle importazioni (riconoscendo in questo modo che le politiche economiche radicali costano). Gli Usa, e le altre grandi aree economiche, dovrebbero “sganciarsi” dal capitale globale, non in nome della crescita e dello sviluppo autarchico nazionale, ma di un modello totalmente nuovo di vita sociale e materiale.
Un elevato livello di coesione sarebbe necessario a questo punto tra i settori del movimento operaio che appoggiano l’alternativa, gli ambientalisti, le femministe e le donne, le minoranze oppresse, i poveri e gli altri soggetti interessati a “restaurare e rinnovare”, più che ad acquisire nuovi elettrodomestici (destinati comunque a finire presto in discarica, tra le cose di cui non si sa come disfarsi). In cambio, respireremmo aria buona, berremmo di nuovo l’acqua del rubinetto, vivremmo in città umane, avremmo una campagna culturalmente diversificata e varia, un’agricoltura integrata, un rapporto costruttivo tra città verdi e campagna, tutte cose che interessano a milioni di persone.
Se espressioni come “crescita e sviluppo” o “posti di lavoro” servono – come servono – a legittimare politicamente l’alternativa, il meno che dobbiamo fare è ridefinire il significato di queste parole, in modo che crescita significhi crescita della capacità di ricostruire e preservare, sviluppo di città e periferie verdi, dove regna la giustizia sociale ed economica, in grado di autogovernarsi democraticamente; e il lavoro sia quello necessario al restauro e al mantenimento delle condizioni di vita, anzi della vita stessa. Tutto ciò deve e può cambiare. “Conservare, prima di tutto” è qualcosa che non può nascere dall’interno del capitalismo. Bisogna dirlo con chiarezza: l’alternativa è sempre rivoluzionaria, nelle sue premesse e nelle sue conseguenze.
James O’Connor
Fonte: http://www.ecologiapolitica.it/home.htm
Tratto da CNS n. 8, sett.2002 (anno XII, fascicolo 48, Liberazione 29.08.2002)