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POSTFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE DI ZERO-INCHIESTA SULL'11 SETTEMBRE

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A cura di Davide
Il 21 Maggio 2008
65 Views

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DI GIULIETTO CHIESA
Megachip

Vorrei utilizzare questa postfazione, per la seconda edizione di questo volume, per esporre i risultati di quello che – appunto con questo libro, e con il film suo gemello che porta quasi lo stesso nome – è stato un “esperimento sul campo” di una battaglia politica per un’informazione-comunicazione democratica. Lo scopo non ultimo di questo mio lavoro e impegno, infatti, è quello di aprire un fronte di battaglia politica, di massa, in un ambito che è stato fino ad ora considerato come esclusivamente culturale, mai divenendo politico in senso proprio.

In realtà io penso da tempo – in particolare sotto l’ispirazione di Neil Postman (“Divertirsi da morire”) , di Noam Chomsky, di Gore Vidal – che i media, e in particolare la televisione, abbiano mutato alla radice la politica, le sue forme, la sua sostanza, i suoi contenuti. Cioè hanno demolito la democrazia e l’hanno sostituita con uno spettacolo, spesso indecente, spesso mostruoso, sempre vuoto di ogni significato. Tutto deriva dalla intuizione fantasticamente illuminante di Mc Luhan: il mezzo è diventato il messaggio.

Mc Luhan esaminò tuttavia solo questo aspetto del problema. Si trattò di una preziosa acquisizione teorica che, per altro, la sinistra non è stata in grado di percepire e, tanto meno, di approfondire. Ma le sue implicazioni , soprattutto, non sono state scandagliate. Ed esse furono, sono e saranno immense e molteplici. La più importante è che questo cambiamento radicale dei sistemi di informazione-comunicazione ha coinvolto e travolto masse sterminate di persone inconsapevoli.

Ne è derivato che il “messaggio” originario, tutti i messaggi, quelli politici, e quelli culturali, ma anche quelli che in passato erano inoffensivi e neutrali, per non parlare del fiume pubblicitario, divenuto nel corso di pochi anni un gigantesco flusso permeante ogni aspetto della nostra vita, tutto ciò ha mutato segno e significato. Nel momento in cui il mezzo è diventato il messaggio e, simultaneamente, è diventato il protagonista di tutta la serie delle innovazioni tecnologiche, produttive, organizzative, proliferando in altri “mezzi” interconnessi, a loro volta moltiplicatori potentissimi di messaggi, ecco che noi ci siamo trovati all’improvviso in un’altra società, sempre più diversa da quella dell’epoca pre-televisiva, cioè pre-rivoluzionaria.

Detto in altri termini, il messaggio originario è risultato “altro” rispetto alla sua funzione. E, per esempio, tutti coloro che prima della tv trasmettevano messaggi politici (non importa se buoni o cattivi) hanno fatto fatica a capire che, da un certo punto in avanti (da quando la tv è diventata dominante), tutti i loro messaggi sono stati soverchiati dal “mezzo” che avrebbe dovuto semplicemente trasportarli e che invece ne è diventato il padrone assoluto, annullandoli, stravolgendoli, negandoli, ridicolizzandoli.

Qualcuno lo ha capito, invece, fin dall’inizio. Questo qualcuno sono stati i primi padroni dei media. All’inizio intuitivamente, e poi, con il passare del tempo e l’ingrossarsi a dismisura dei portafogli pubblicitari, in termini così massici da poter concentrare in sé un immenso potere di condizionamento nei confronti delle grandi masse ignare e dell’altrettanto ignara politica. Controllo, manipolazione, menzogna, silenzio. Questi sono divenuti i canoni della comunicazione di quello che, con singolare sprezzo del ridicolo, molti continuano a chiamare “villaggio globale”, o società dell’informazione. Quando l’informazione vera è diventato un privilegio di ristrettissime conventicole , mentre il villaggio è divenuto sempre più simile a quello dei progenitori selvaggi, cacciatori-raccoglitori primigeni .

Si aggiunga infine la straordinaria velocità con cui questo processo si è sviluppato: in pratica meno di un quarto di secolo. Troppo poco per una qualsiasi metabolizzazione socio-culturale. Ma torniamo al punto di partenza.

In che è consistito, dunque l’esperimento? Nel verificare se, e fino a che punto, sarebbe stato possibile rompere il muro del silenzio contro cui – nelle condizioni della “grande fabbrica dei sogni e della menzogna” (GFSM) – si infrange ogni verità.

Di queste verità frantumate dal silenzio la più grande, immensa, tremenda, è stata quella dell’11 settembre. Che mi apparve subito, fin dai primi momenti successivi alla tragedia, come il frutto di una sapiente “organizzazione mediatica”. E che nei mesi e negli anni successivi, con il silenzio e la censura esercitata dai media e sui media, si è confermato come il paradigma dei tempi moderni proprio in quanto momento di massimo dispiegamento della potenza di fuoco del controllo mediatico.

Quel giorno, letteralmente “sotto i nostri occhi”, perché così “doveva” essere, la storia del pianeta è stata deviata da un micidiale “clinamen”, e la deviazione è stata resa possibile dal controllo mediatico integrale. Non fosse esistita la televisione non sarebbe esistito l’11 settembre. Dunque si trattava di prendere il toro per le corna, di cominciare proprio dall’11 settembre per verificare se il macigno che ostruisce l’uscita dell’Uomo dalla grotta platonica, verso la verità che produce le ombre, è ancora possibile.

Il risultato di questo esperimento è stato, a mio avviso, importante. La risposta è che la GFSM non solo non è invincibile ma è, al contrario, assai vulnerabile. Per essere più precisi: la sua invulnerabilità apparente è stata fino ad ora l’effetto della assenza totale di ogni contrasto al suo dominio. Gli oggetti – gl’individui consumatori compulsivi – di quel dominio erano e sono senza strumenti di difesa, atomizzati, soli. I soggetti operativi del dominio, convinti, complici, comprati, coatti, a loro volta incapaci di comprendere il meccanismo, vi lavorano dentro espletando funzioni di servizio e creative che conducono quasi tutte (le eccezioni sono presenti ma quasi invisibili) a una censura, a una menzogna, alla deformazione, al silenzio attorno alle cose essenziali . Lasciati “liberi” di agire senza alcuna pressione proveniente dagli oggetti del dominio, dai consumatori del messaggio, gli stessi ufficiali del dominio (in prima fila i giornalisti, i pubblicitari, i conduttori di spettacoli, gli ideatori dei format e così via) hanno finito per credere alla propria invulnerabilità, impermeabilità, impunità e a quella del sistema che servono e da cui sono protetti e stipendiati.

E’ accaduto così che, trovandosi improvvisamente esposti a una pressione dal basso, essi abbiano cominciato a reagire scompostamente, convulsamente, irosamente. Hanno perduto il controllo, hanno inveito, mostrando paura e sconcerto. Soprattutto non hanno potuto nascondere la loro incompetenza, la loro incapacità a verificare le loro fonti, mentre appariva sempre più evidente che le loro fonti erano tutte inquinate.

Ma così sono già arrivato alle conclusioni, mentre la cosa più interessante mi pare lo svolgersi dell’esperimento. Nei sei anni trascorsi, praticamente da quando avevo scritto il mio primo libro sull’argomento, “La Guerra Infinita” (Feltrinelli, 2002), non avevo cessato di seguire con una certa e continua attenzione gli sviluppi politici, militari, mediatici, di quella premessa. Anno dopo anno è apparso sempre più chiaro che l’11 settembre era diventato un tabù appena pochi istanti dopo essersi tragicamente concluso, appunto “sotto gli occhi” sbarrati del pianeta. Il silenzio dominava sovrano l’intero mainstream . In Italia le decine di migliaia di copie del mio libro furono vendute senza la minima pubblicità, senza una sola recensione. Segno evidente che esisteva una domanda sotterranea, internettistica, che il mainstream ignorava totalmente. Sul web si moltiplicavano le inchieste, le indagini, i film sull’11 settembre, milioni di pagine web erano prodotte e scandagliate da milioni di lettori, in ogni paese del mondo. Specialmente negli Stati Uniti. Ma proprio negli Stati Uniti il silenzio dei media che possiamo definire ufficiali era il più assoluto. E all’incirca la stessa cosa avveniva nel resto del mondo. Il grande pubblico continuava a ignorare letteralmente tutto. Non qualcosa: tutto. La versione ufficiale, condensata (in italiano) in sole cinque, striminzite parole era il Verbo: “E’ stato Osama bin Laden”. Nessuna domanda, nessuna indagine. Due anni dopo l’11 settembre una commissione ufficiale del Congresso degli Stati Uniti aveva prodotto un rapporto, “The 9/11 Commission Report”, che aveva rappresentato la definitiva pietra tombale, l’archiviazione del caso. Diciannove dirottatori, guidati da Osama bin Laden, armati di temperini, avevano fatto tutto da soli. E nessuno si era messo a ridere.

Decisi allora di fare un esperimento preliminare. Le premessa furono due e semplici: l’11 settembre è stato raccontato con le immagini. Demolirlo si può solo con le immagini. Secondo: non si può combattere la versione ufficiale, (palesemente falsa fin dal primo sguardo per chiunque, giornalista o meno, fosse intenzionato a guardarla con attenzione) standosene chiusi (l’espressione è intenzionale e tornerò più avanti su questo concetto) nella Rete e sulla Rete. Bisognava tentare di uscirne, cioè provocare una serie di situazioni in cui il mainstream fosse costretto a vederci e “moltiplicarci”.

Ma prima di tutto bisognava verificare un sospetto che mi si era venuto formando dopo aver tentato invano di aprire un discorso sull’11 settembre con numerosi colleghi giornalisti di cui avevo ed ho grande stima, e con numerosi esponenti della politica, della cultura, di cui avevo eguale stima. Ricordo, ad esempio, uno di questi esperimenti: una cena in cui eravamo ospiti e commensali, tra gli altri, io e Enzo Siciliano. Al solo accennare all’ipotesi che l’11 settembre non fosse esattamente quello che ci avevano raccontato incontrai la sua reazione indignata. Non solo discorde, o critica: esattamente indignata. Non mi rivolse più la parola per tutta la serata, né ci incontrammo mai più in seguito. Non fu l’unico esempio. Ad una presentazione di un interessante libro di Loretta Napoleoni sui finanziatori del terrorismo, il giornalista Mario Pirani – conferenziere come me assieme all’autrice – non appena l’argomento venne timidamente affacciato tanto da me quanto dall’autrice (tutt’altro che sostenitrice delle mie tesi ma appena appena scettica) prese, come si suol dire, cappello e cappotto e se ne andò sdegnato lasciando il folto pubblico nella più grande costernazione.

Reazioni, l’una e l’altra, tipiche del bigottismo che non sopporta lo “scandalo”. Me ne feci ben presto una ragione. Ma restava il dubbio sull’estensione dell’area del bigottismo, sulle sue caratteristiche. Perché ciò che mi incuriosiva non era tanto il fatto che molti potessero ritenere l’argomento sbagliato, o inutile, o temerario – cosa del tutto normale in qualunque dibattito di idee – quanto che lo ritenessero scandaloso, appunto, qualcosa di simile a una bestemmia, peggio, a un insulto diretto nei loro confronti, a qualcosa di paragonabile a un atto di aggressione ideologica. E, infatti, la prima cosa che faceva seguito alla sorpresa e indignazione preliminare di questi interlocutori era l’accusa – quasi un riflesso automatico – di “antiamericanismo” e subito dopo (una curiosità che non sono ancora riuscito a decifrare neppure dopo sei anni di dibattiti) di “antisemitismo”.

Così, assieme al gruppo dei miei più vicini compagni di lavoro (il nucleo di Megachip che sarebbe poi diventato una delle parti fondanti del “Gruppo Zero”), decidemmo di preparare un materiale visivo, a scopi didattico-sperimentali, da sottoporre a gruppi differenziati di persone diverse per professione, livello culturale, interessi, collocazione politica. Il tutto per farci un’idea più precisa di come stessero le cose in realtà. Selezionammo sul web i materiali più sostanziosi e quelli che ci parvero i meno opinabili, e costruimmo un documentario di circa 40 minuti intitolato “Sette domande sull’11 settembre”. Per evitare che reazioni scandalizzate (alla Pirani, per intenderci) potessero creare situazioni spiacevoli tra gl’invitati decidemmo di fare inviti differenziati per piccoli gruppi di una ventina di persone per volta, abbastanza omogenei. Facemmo una decina di incontri romani, e una ventina di proiezioni in giro per l’Italia, queste ultime rivolte a pubblici indifferenziati. Una di queste proiezioni si svolse addirittura nel salone del Grand’Hotel a Roma, per i membri di una delle sezioni del Rotary Club dove, sbalorditivamente, fui invitato come oratore a parlare proprio dell’11 settembre. La voce si era sparsa e in una trasmissione televisiva, mi pare fosse una puntata di “Omnibus, sulla “7”, pur consapevole del rischio di trovarmi assalito da ogni parte, avevo gettato sul tappeto il tema. Il rischio si rivelò una certezza, ma molti spettatori, evidentemente, avevano, in qualche angolo del loro cervello, gli stessi interrogativi che io stesso avevo avuto all’inizio della storia. E, a differenza di me, non avevano potuto o saputo soddisfarli. Verificai , più avanti, che questo era lo stato delle cose per centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone. Non potrei più tenere il conto della quantità di persone, giovani e vecchi che, dopo avermi sentito esporre le mie analisi sull’11/9 dicevano, e dicono: “Anch’io lo avevo pensato fin dall’inizio”. Ma, per tutti, aveva poi funzionato perfettamente l’archiviazione mediatica velocemente intervenuta a chiudere ogni varco. La paura aveva fatto il suo effetto, sfondando le porte dell’inconscio collettivo, e subito dopo le porte erano state chiuse per evitare che il sopraggiungere della coscienza giungesse a turbare il risultato.

In sostanza, tirando le somme, il risultato di quella piccola indagine statistica sui generis fu in un certo senso una conferma dell’idea iniziale, ma una conferma piena di risvolti praticamente rilevanti. Il dato generale, davvero stupefacente era, in tutti gl’incontri, ma specialmente in quelli il cui pubblico era costituito in parte da giornalisti e da persone di elevato grado d’istruzione, che nessuno all’inizio della serata sapeva nulla di ciò che quella sera gli sarebbe stato mostrato. Nessuno – nemmeno persone abitualmente frequentatrici del web – era andato sui siti dove quelle questioni venivano mostrate e analizzate. Molti ne avevano sentito parlare, qualcuno c’era capitato per caso e aveva dato un’occhiata. Ma senza soffermarvisi: non c’è tempo per queste cose. Tutti, salvo rarissime eccezioni (specie nei pubblici indifferenziati riuniti per discussioni politiche generali), riteneva scontata la versione ufficiale. E si noti che si trattava in generale di pubblici “di sinistra”. Quasi tutti, dunque, avevano, per così dire, introiettato la spiegazione che era stata loro fornita. E ciò valeva anche per gli specialisti della informazione-comunicazione, per gl’intellettuali, per i professori universitari. Il pubblico colto e progressista reagiva nello stesso modo del pubblico generico e di sinistra e perfino del pubblico di destra.

Il tutto confermava l’ipotesi di partenza: che l’operazione 11 settembre era stata il più fantastico successo manipolatorio di tutti i tempi. Chiunque fosse stato il suo ideatore, di lui poteva dirsi con certezza che era un raffinato conoscitore del funzionamento della macchina mediatica, della GFSM. Non solo: si poteva dire che, avendo ideato l’operazione terroristica, aveva tenuto conto anche delle reazioni della macchina mediatica, anticipandole, calcolandole. Ne veniva fuori l’identikit di persone assai diverse da un gruppo di fanatici ripetitori a memoria dei versetti del Corano. Come minimo, dietro ai fanatici doveva nascondersi una serie di individui dotati di una modernissima consapevolezza della psicologia delle grandi masse, e delle novità radicali prodotte dalla information-communication technology. Lettori di Elias Canetti piuttosto che di Maometto.

E ne concludemmo tre cose:

a) per quanti sforzi si facciano per aumentare la quantità di analisi e di prove su internet, se si resta chiusi dentro internet non si otterrà nessun movimento politico per ricostruire la verità e, con esso, per contribuire a fermare la guerra. Non è sufficiente che milioni di persone, in giro per il mondo, guardino su un computer lo stesso filmato rivelatore. Il risultato è una miriade di processi liberatori individuali che non si traduce in azione politica e in consapevolezza collettiva.

b) Ne consegue che bisogna agire per uscire dalla rete e coinvolgere il mainstream informativo. Che ovviamente vi si oppone, ma che può essere influenzato dalle tecniche spettacolari di cui è essenzialmente infarcito. Con quali tattiche e mezzi è questione da sviluppare, E bisogna “raccontare” la verità (cioè che la versione ufficiale è un falso) con gli stessi modi con cui è stata fatta passare la bugia: con le immagini, e facendo scorrere le immagini nelle televisioni generaliste, dovunque possibile. Nacque in quel momento l’idea di farne un film, ma non (solo) destinato alla Rete (dove già ne circolavano più d’uno), bensì destinato a essere diffuso nelle sale cinematografiche, nei circoli culturali, nelle scuole, dovunque il pubblico s’incontra fisicamente con il messaggio e con gli altri uomini e donne in persona che lo compongono. E, ovviamente, nelle televisioni del mainstream, quelle che il grande pubblico, che non conosce la Rete, vede tutte le sere.

c) La terza scelta, fondamentale, fu di non cadere nell’errore in cui erano già caduti molti di coloro che, sul web, avevano ingaggiato la battaglia per la verità. E cioè di evitare di tentare una “dimostrazione” completa, definitiva e inequivocabile dell’andamento degli eventi reali. Appariva infatti evidente, fin da subito, che l’impresa di una ricostruzione meticolosa dei fatti, delle loro premesse, sarebbe stata al di fuori della nostra portata, così come delle possibilità di una qualunque équipe di ricercatori privati e volontari, per quanto esperti, qualificati e decisi ad andare fino in fondo, come era quella che noi potevamo mettere in campo. La maestosa imponenza dell’evento che ci apprestavamo a scandagliare non lasciava dubbi sulla complessità dello scandaglio. Ogni singolo componente, ogni istante di quella giornata memorabile e tragica, non appena si cercasse di guardarvi dentro, mostrava una voragine di interrogativi, per rispondere ai quali si sarebbe dovuto disporre di poteri d’indagine simili a quelli di uno stato e dei suoi organi inquirenti. Si sarebbe dovuto disporre di più mezzi, inclusi quelli finanziari, di quanti non fossero stati a disposizione della stessa Commissione ufficiale d’inchiesta. Insomma non era in quella direzione che si poteva andare. Del resto era bastato leggere le parole di un esperto con un passato professionale e politico di tutto rispetto per capire che sarebbe stato impossibile arrivare a conclusioni certe e inequivocabili sulla sequenza dei fatti e dei protagonisti, con i mezzi a nostra disposizione. E che il rischio di imboccare quella strada sarebbe stato di finire dentro qualcuna delle trappole che gli organizzatori del terrorismo di stato lasciano dietro di sé mentre cancellano le tracce del loro operato. L’ex ministro tedesco Andreas Von Bulow aveva già tracciato la sentenza finale su questo punto, quando aveva scritto :«(…) Posso affermare questo: la progettazione dell’attacco è stato un capolavoro dal punto di vista tecnico e organizzativo. Dirottare quattro grossi aerei di linea in pochi minuti e lanciarli sui bersagli entro un’ora con complicate manovre di pilotaggio! Questo è impensabile, senza l’appoggio, e per anni, di apparati segreti dello Stato e dell’industria ». (1)

Pensare di giocare ad armi pari una partita di queste dimensioni e con tali avversari era impresa suicida. Bisognava evitarla con la massima cura. Tanto più – ci dicemmo dopo avere soppesato tutte le varianti – che non era necessario farlo per ottenere il risultato che ci proponevamo: quello di verificare il livello di consistenza della versione ufficiale. In realtà non partivamo da zero. Prima di noi, insieme a noi, in parallelo con noi, centinaia di persone, in gran parte di nazionalità americana, avevano già fatto molta ricerca, avevano raccolto materiali, avevano tratto conclusioni parziali. Non tutto era oro colato, ma molte cose preziose erano già state scoperte. I dubbi che ciascuno di noi nutriva sulla versione ufficiale erano già stati dilatati dalle numerose ricostruzioni e dai dettagli che erano emersi . Il web era, sotto questo profilo, una riserva pressochè inesauribile di pezzi del mosaico che avremmo dovuto comporre. Si trattava dunque di selezionare con cura i materiali, di andare alla ricerca dei testimoni (di quelli ascoltati e di quelli mai ascoltati) per verificare direttamente e senza intermediazioni le loro deposizioni, di cercarne di nuovi. Si trattava di effettuare una serie di verifiche delle versioni note, alternative a quella ufficiale, e di scartare tutto quello che poteva essere considerato dubbio. Si trattava di consultare esperti e specialisti, integrando, completando e correggendo l’opera di chi ci aveva preceduto. L’oggetto della ricerca sarebbe stato, molto più semplicemente, quello di verificare se, dove, come i responsabili avevano mentito. Sospettavamo, fortemente, che avessero mentito. Se fossimo giunti alla conclusione, dimostrabile, che era effettivamente così, avremmo raggiunto l’obiettivo. Fatto questo primo passo, fondamentale, di dimostrare che la versione ufficiale era un falso, avremmo aperto la strada alla seconda domanda: “perché ci hanno raccontato il falso?”. Una domanda inesorabile, che tutti si sarebbero posta, che non sarebbe stato possibile eludere. E, ad essa, avremmo aggiunto una richiesta: riaprire l’inchiesta. Negli Stati Uniti in primo luogo, associandoci alle richieste di decine di comitati e organizzazioni americane. E, se negli Stati Unti fosse stato impossibile ottenerlo, avremmo chiesto la costituzione di una commissione internazionale indipendente, composta di personalità autorevoli della cultura, della politica e della scienza, per riesaminare l’intera questione da un punto di vista che non potesse essere preventivamente irriso, svalutato, sepolto nel silenzio.

Così decidemmo di muoverci. Su queste basi si costituì il “Gruppo Zero” che avrebbe poi costruito non solo il film che gli ha dato il nome, ma avrebbe elaborato una originale strategia produttiva, coinvolgendo il pubblico, desideroso di sapere, nel finanziamento dell’intera operazione. Restava il punto b) da affrontare. E qui venne in aiuto la Rete, sotto le sembianze di Beppe Grillo. Sapevamo che il Beppe nazionale aveva, girando l’Italia con i suoi spettacoli, qualche volta alzato il libro di Thierry Meyssan sulla Grande Impostura, indicandolo al pubblico come uno degli esempi dell’inganno dei media. Il suo potente blog – pensammo – avrebbe potuto servire da amplificatore. Lo chiamai, chiedendogli di sottoscrivere il nostro manifesto d’intenti (2). La risposta sebbene tiepida, fu utile: “Ho qualche dubbio sulle vostre conclusioni – mi disse al telefono – ma se mi scrivete una lettera in cui illustrate la vostra proposta ve la pubblico volentieri”. Così fu fatto e il 22 maggio la lettera venne pubblicata sul blog di Grillo. Il giorno dopo il sito www.megachip.info, che era stato indicato come il punto di riferimento dell’appello, contò 108 904 accessi individuali. Nell’ora tra le 8 e le 9 del mattino si toccò il record orario di 14.413 accessi. In tre giorni, fino al lunedì successivo, il totale delle persone che erano andate a leggere, per capire meglio, la documentazione del dossier sull’11 settembre, superò le 245 mila persone.

Fu un clamoroso successo, che confermava molte delle nostre supposizioni: esisteva cioè un grande pubblico desideroso di informazioni proprio sulla questione 11 settembre. L’appello per la riapertura di un’inchiesta indipendente superò in fretta le quattromila firme. Ma sospetto anche che la performance di Megachip, trainata dal blog di Grillo, sia stata all’origine della successiva chiamata che ricevetti poche ore dopo da Enrico Mentana, conduttore del talk show “Matrix”, sulla rete 5 berlusconiana. Un invito sorprendente a partecipare a un talk show dedicato interamente all’11 settembre. Era l’occasione che cercavamo. Come era prevedibile la trasmissione fu organizzata sapientemente, per produrre uno scontro, suscettibile di trasformarsi in rissa, tra i sostenitori di una “teoria del complotto” e i non meno accaniti difensori della versione ufficiale. Ma non ci fu verso: i secondi avevano più insulti da distribuire che argomenti da esporre, e poterono soltanto ostacolare, non impedire, l’esposizione di alcuni aspetti del problema.

Ma i dati di ascolto confermarono che, sebbene la trasmissione fosse andata in onda a serata molto tarda, ben oltre la mezzanotte, più di un milione di spettatori era rimasto incollato davanti allo schermo televisivo per seguire quel dibattito. All’uscita dallo spettacolo (perchè di questo si tratta, di regola, quando si parla di un talk show , non certo di una discussione reale tra persone che vogliono capire qualche cosa di un qualche problema) Enrico Mentana, uscendo soddisfatto dallo studio mi disse, con un chiaro sorriso di soddisfazione: “Caro Giulietto, questa sera abbiamo fatto una grande operazione”. Io gli risposi: “Caro Enrico, io ho fatto una grande operazione!” E lui, di rimando: “No, no, sono io che ho fatto una grande operazione. Perchè sarò io il primo giornalista che ha portato in televisione l’11 settembre”.

Non replicai perchè mi resi conto che stavo assistendo alla dimostrazione pratica di una parte del mio esperimento. Mentana, uomo assolutamente interno al mainstream , sua creatura integrale, aveva scoperto che il tema dell’11/9 era diventato una “notizia” per il mainstream. Una notizia che bisognava stravolgere, naturalmente, come tutte le altre, ma una notizia che faceva audience , che attirava gli spettatori, e che quindi doveva essere cavalcata. Seguirono altre tre o quattro trasmissioni di “Matrix”, con altri ospiti del nostro gruppo, con altri rivali disparati, e con uguale successo. Tutte realizzate con un contraddittorio squilibrato dal trucco consistente nel fatto che il conduttore stava dalla parte degli “anticomplottisti” (trucco elevato al quadrato, verbale in questo caso, consistente nello screditare una tesi affibbiandogli una qualifica sgradevole prima ancora che essa venga esposta.). Ma il conto finale del dare e dell’avere stava sempre dalla parte nostra, perchè per quanti sforzi mistificanti, per quanto gli ospiti avversari fossero aggressivi e offensivi, sarcastici o ironici, per quanto il confronto fosse sempre dispari, le immagini che venivano pescate dalla Rete, cioè dalla nicchia, si riversavano sugli schermi e raggiungevano milioni di spettatori per volta, e la gran parte degli spettatori reagiva positivamente agli stimoli. Bastava andare a vedere i blog delle trasmissioni per rendersi conto da che parte pesava la bilancia del consenso. E così l’11 settembre cominciò a dilagare anche su altre reti, con altri conduttori. La seconda rete di stato, con Milena Gabanelli, con maggiore serietà professionale e anche, s’intende, maggiore coraggio e maggiore lealtà verso il materiale informativo, decise di mandare in onda integralmente uno dei primi lungometraggi che già da tempo si poteva scaricare dalla Rete, il pionieristico “Confronting the Evidence”, realizzato dal milionario americano Jimmy Walter, accompagnato da alcuni frammenti già pronti del nostro film “Zero”, allora in fase di realizzazione.

Seguirono proteste dei politici di destra e silenzio di quelli di sinistra, che, salvo eccezioni rarissime, hanno mantenuto la stessa linea di totale mutismo fino al momento in cui scrivo queste righe. La prima rete della tv di stato, che inavvertitamente aveva – mesi prima – mandato in onda un talk show condotto da Roberto Olla, intitolato “Il mistero del Pentagono”, nel quale lo stesso conduttore aveva cercato di porre domande sensate a ospiti in studio troppo impauriti per poter dire qualche cosa di interessante, ma impossibilitati a negare tutto, decideva allora di tornare sui propri passi, affidando allo stesso conduttore una trasmissione di segno opposto, completamente sdraiata sulle tesi ufficiali.

Ma Mentana, ormai sempre più convinto della utilità dell’11/9 a fini di spettacolo, rincarava la dose, questa volta mandando in onda, senza contraddittorio, un altro brano del film “Zero”, ormai in dirittura d’arrivo. E la svolta avvenne infine con la presentazione (e l’accettazione) del film al Festival Internazionale del cinema di Roma, nell’ottobre 2007. Il successo del film, le recensioni dei critici, tutte favorevoli, producono alcune reazioni rabbiose degli editorialisti politici. La Repubblica scomoda Carlo Bonini per un articolo che, in sostanza, non ha niente da dire, nel merito, salvo la ben nota capriola concettuale in base alla quale il complotto non esisterebbe in quanto non esisterebbe la “gola profonda”. E una gola profonda non potrebbe non esistere, in base all’assunto che all’operazione avrebbero partecipato svariate centinaia di persone.

Stessa tesi, del resto, sostenuta da Umberto Eco in una delle sue “Bustine della Minerva” dell’Espresso. Alle quali obiezioni è facile rispondere, come feci, ricordando che per l’incidente del Golfo del Tonchino, da cui prese avvio la guerra del Vietnam, non ci fu nessuna gola profonda. Semplicemente gli archivi vennero aperti qualche decennio dopo e da essi emerse che l’incidente non era mai esistito e che i capi del Pentagono dell’epoca lo avevano inventato per trascinare l’America in una guerra in cui morirono oltre 50 mila soldati americani, oltre agli svariati milioni di vietnamiti. Il più invelenito di tutti, come era già accaduto a più riprese, fu Pier Luigi Battista, del Corriere della Sera. E si capisce.

Riassumendo anche qui, la cosa più evidente era che tutti erano costretti a parlarne. Anche a parlarne male, ma a parlarne. La tattica che avevamo adottato si rivelava efficace sotto ogni profilo. Il tema dell’11/9 diventava parte del dibattito pubblicistico, se non di quello politico in senso stretto. E, nel contempo, milioni di persone che non ne avrebbero saputo nulla, venivano messe a conoscenza dal mainstream di cose che il mainstream aveva taciuto fino a quel momento. E la rottura degli argini del silenzio è continuata e continua ancora oggi, mentre ci apprestiamo a proiettare “Zero” all’interno del Parlamento Europeo con un’iniziativa che, una settimana prima dall’evento, ha già mobilitato decine di giornalisti europei di altri paesi, e che sarà seguita da decine di parlamentari europei che non hanno mai visto nulla del genere, che non ne sanno nulla nemmeno loro, come l’uomo della strada.

Il film “Zero” non ha trovato un distributore italiano. Questo non è un dettaglio e va ricordato. Nonostante la critica positivamente unanime, nonostante i nomi prestigiosi degli attori che vi hanno lavorato: Dario Fo, Moni Ovadia, Lella Costa, Gore Vidal. Ma, anche senza distribuzione, il film gira per l’Italia, e girerà per il mondo. Decine di proiezioni sono già state fatte nei centri grandi e piccoli. Centinaia sono già programmate. Nel momento in cui scrivo il film è già stato visto da almeno diecimila spettatori. Non ho dubbi che, nelle sale cinematografiche nei circoli culturali, nelle scuole, supereremo i centomila. Questo libro esce insieme al DVD del film. E il DVD sarà poi venduto nelle edicole d’Italia. E sarà (anzi è già) venduto, alle televisioni straniere, che moltiplicheranno inesorabilmente il numero degli spettatori sotto diverse latitudini e longitudini. Tra il dicembre 2007 e il febbraio 2008 altre uscite televisive della squadra di “Zero” si sono verificate con il “Costanzo Show”, con numerose televisioni regionali. La rete 2 di stato ha ospitato chi scrive in uno spettacolo molto simile a una corrida, denominato “Dodicesimo round”, dove certo giornalismo italiano è stato messo al tappeto ripetutamente. Corrado Augias, che già aveva toccato il tema parlando del libro senza ostilità preconcetta in una sua trasmissione, “Le Storie” , ritenta la sorte invitandomi una seconda volta per parlare del film e del libro, come è lo stile della trasmissione. Ma viene investito da una pressione organizzata perchè trasformi la seconda occasione in una corrida con contraddittorio. E, forse per parare il colpo, si trasforma lui stesso da conduttore in contradditore. Un florilegio di situazioni una più curiosa dell’altra, una più istruttiva dell’altra. Anche e soprattutto per i telespettatori che – stando alle mail che ricevo dopo ogni incontro. – ringraziano. L’elenco è più lungo e articolato di quanto qui sia necessario descrivere. E credo si allungherà non di poco nei mesi a venire. Il nostro scopo era quello di giungere a una Commissione Internazionale d’inchiesta. Tutto questo lavoro servirà a far crescere il movimento mondiale per la verità. Che, come ho scritto nella prefazione del libro, non è un esercizio estetico. Senza trovare il bandolo della matassa che ha prodotto la tragedia dell’11/9 noi non potremo vivere in pace e, anzi, dovremo vivere in guerra. Perchè quell’evento è stato disegnato perchè non potessimo più liberarci della guerra; perchè affrontassimo in guerra, e non in pace, il tornante drammatico della storia del mondo che ci aspetta nei prossimi anni.

L’esperimento che stiamo tentando è anche un tentativo di capire come e se sarà possibile sconfiggere la Grande Fabbrica dei Sogni e della Menzogna, e di ricondurre i suoi macchinari ad una dimensione umana. Le due cose sono, a ben vedere, la stessa cosa. La verità della realtà può tornare a emergere dal mezzo? Il mezzo può essere sconfitto dal messaggio? Difficile rispondere in astratto. Uomini e donne di questo pianeta, i destinatari del messaggio, possono decidere questo dilemma. Noi abbiamo cominciato distillando una piccola goccia. La cosa più affascinante di questo risultato è che ciò che doveva rimanere fuori dalla politica, relegato nelle nicchie degli esperti, degli emarginati, fuoriesce dai contorni obbligati delle nicchie dei poveri e dei senza potere per erompere nel tempio della grande politica, dove ancora non è accettabile, né accettato.

Ma io credo che sia soltanto questione di tempo.

Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info/
Link: http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=6840
20.05.08

Note:

(1) Der Tagesspiegel, 13 Gennaio 2002
(2) www.megachip.info

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