DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com
Intanto non è affatto vero che “la terra è bassa”. Almeno, non così bassa come mi avevano terrorizzato che fosse. Ora mi bastano tre-quattro ore alla settimana: parlo di un piccolo orto, sia chiaro, non di un terreno da arare con i buoi e zappare per giornate intere, naturalmente. E poi a un certo punto è diventata una questione di principio: qualche anno addietro mi sono reso conto che per me, concepito, nato e diventato adulto in città, i pomodori praticamente crescevano dentro al supermercato. Non poteva andare no?
E in ogni caso c’è voluto un trentennio, qualche centinaia di libri studiati e sedimentati, una quindicina d’anni da inviato, l’aver conosciuto Massimo Fini e l’aver passato una sera a cena con Maurizio Pallante.
Queste le cose determinanti. Il colpo di grazia me lo ha dato Ivan Illich quando ho letto che la modernità ha espropriato, tra le altre cose, la capacità di fare da noi ciò che altrimenti sapremmo fare benissimo. O quanto meno, a giudicare dai miei – parziali, per ora – risultati, non così male.
Insomma alla fine mi sono detto che non sarei potuto andare avanti senza aver almeno provato e dimostrato a me stesso di poter fare un orto. Tra la costernazione (iniziale) della mia compagna dunque mi sono messo a cercare un pezzettino di terra al fine di iniziare quello che ho forse troppo pomposamente chiamato, all’inizio, “esperimento di università agraria personale”. Il tutto, sia chiaro, ben prima dello scoppio dei mutui subprime eccetera eccetera.
Tanto per essere subito chiari: non credo di essere in grado di dare consigli in merito, e su internet, o in tanti libri, ci sono spiegazioni pratiche su come iniziare e cosa fare anche per i principianti. E se ci sono riuscito io, poi. Che per la cronaca: ci sono riuscito eccome. Non viene fuori tutto, non tutto è proprio bello da vedersi, ma sicuramente è sano, e vero. E cento metri quadri bastano per due persone. Con ampi margini di miglioramento, peraltro. Che l’orto è una scienza, precisiamo. Tra consociazioni, rotazioni e fasi calendario da rispettare e composizione del terreno, sul serio è una materia di studio. L’antico adagio non sbaglia: “contadino, scarpe grosse ma cervello fino”.
Ma questo per dire che la pratica dell’orto, più che altro, è una sorta di Zen personale. Di dissidenza diretta dalla società che abbiamo intorno. Insomma è qualcosa che si avvicina molto di più a una esperienza spirituale piuttosto che a una materiale. Per intenderci: non mi chiedete quanto si risparmi, in denaro, a fare un orto rispetto a comperare verdura e ortaggi e patate e il resto al supermercato. Non lo so. Dalla regia mi dicono almeno il 90%, ma davvero, non è questo il punto. Dicevo: sono convinto che l’orto sia oggi una vera e propria rivendicazione culturale. Che poi, a pensarci bene, che cosa è in fin dei conti “cultura” se non la stessa radice di coltivazione e culto, terra e cielo?
Torniamo a bomba: il punto all’inizio era soprattutto trovare il tempo per farlo, l’orto. Che non avevo. Ma all’epoca non avevo ben capito che liberare tempo per fare l’orto sarebbe stato in realtà il primo atto in assoluto di “preparazione della terra stessa”. Una sorta di concimazione naturale e necessaria, intima e personale, e propedeutica in fin del conti a tutto il resto. E così per altre cose analoghe. Non so, faccio un esempio a caso. Pallante una sera mi accende la luce: per ogni vasetto di yogurt che comperi, hai prodotto inquinamento per chilometri di tir che te lo portano al supermercato dietro casa, un vasetto di plastica e un coperchietto di alluminio da buttare. Per 125 ml di prodotto ingerito. A un euro e mezzo la coppia, toh, a 0.90 centesimi “in offerta”. Oggi – rigorosamente in bicicletta – vado a 400 metri da qui e prendo un litro di latte crudo alla spina in una bottiglia di vetro, che è sempre la stessa. Lo porto a casa e mischiandolo con un vasetto di yogurt autoprodotto che mi tengo da parte a ogni tornata, ne preparo altri 7 (di vetro, sempre gli stessi). Tempo dell’operazione, tra i sei e i sette minuti in tutto. Costo? Un euro. Per sette vasetti. A consumi, rifiuti, conservanti e inquinamento zero.
Anche Zamboni, ogni tanto a casa mia, mi guarda di traverso quando faccio questa operazione serale (ci vuole la notte intera, per far trasformare il tutto in yogurt, ma tanto fa tutto da solo lui, mentre io dormo). Ma Zamboni non mangia yogurt, si può capire. L’unico inconveniente è il pensiero che mi viene in mente e che mi turba, ogni tanto, quando immagino quanti coglioni ci siano che ogni giorno vanno al supermercato e comperano yogurt. Per non parlare delle pubblicità in televisione con le pance che ridono. Ma insomma – e questo è discorso generale – non è che in questa vita possiamo sperare davvero di cambiare la situazione nel suo intero dopo che sono serviti decenni, forse un paio di secoli, per farla arrivare a questo punto, no?
Dico quest’ultima cosa perché nelle pieghe di tante conversazioni, anche nei commenti qui sul sito, uno dei temi più ricorrenti si può sintetizzare nella certezza, che i più hanno, di non riuscire a imprimere più di tanto, per quanto ci si impegni e si speri, una rivoluzione generale in grado di cambiare radicalmente la situazione della nostra società. Ora, dovrebbe essere chiaro che sperare in una cosa del genere è condannarsi alla delusione. Come potremmo mai, nell’arco di qualche anno, o di qualche decennio, pensare di sovvertire del tutto un sistema così potente e capillare, militare e ancora di più a livello di immaginario, che ha impiegato secoli per arrivare allo stato attuale? E chiaro che il massimo che si possa sperare è, da una parte, innescare qualcosa che possa arrivare a compimento, o comunque a direzione diversa, per le prossime, due generazioni. E dall’altra parte che, malgrado non si possa sperare di vincere su tutto il campo, in questa vita, esistono però ancora ampi margini di dissidenza. Di parziale, imperfetta, incompleta quanto si vuole e non determinante rivalsa. Ma quei margini ci sono eccome. Insomma se la scelta deve essere tra il tutto, e in tempi rapidi, oppure il niente, allora è persino inutile ingaggiarla, questa battaglia. Se ci poniamo invece nell’ordine di idee di guerreggiare metro per metro, avamposto per avamposto, ribellandoci e dissentendo non appena si può, e magari innescando ciò che un domani altri vedranno finalmente alla loro portata, allora potremo dire di non aver passato invano il tempo che ci tocca in sorte di vivere in questi anni.
Dice: ma falla finita con questa storia dell’agro-bio e di “love love love” da figlio dei fiori fuori stagione. Che del denaro, dell’euro-Bce serve sempre, altrimenti come lo paghi il terreno e le tasse che ti ci mettono sopra? E chi lo nega. Anzi direi che tenerlo a mente è utile, perché così si evita di cadere nella trappola di darsi alla macchia e basta. Come dire: sempre tenere a mente che la guerra grande da combattere è l’altra. Volete che non lo sappia?
Sintetizzo: lotta dura “contro il sistema”, sempre e comunque, che le cose da estirpare sono i banksters e i loro alleati, non (solo) la gramigna sul terreno. E ci sono milioni di persone da persuadere alla cosa, da convincere, alle quali tentare di aprire gli occhi. Ma intanto? Non vorrete mica che mentre ci battiamo allora perdiamo di vista tutto il resto no?
Sintetizzo ancora: mi viene da vomitare quando sento storie di persone che fuggono in campagna e per farlo usano un Suv da 3000 di cilindrata. O quando i tabloid fotografano quella stronza di Michelle che fa l’orto nel giardino della Casa Bianca mentre il marito, dentro alla Casa Bianca, schiaccia un bottone per lanciare bombe sulla testa di altri popoli sulle montagne per conquistare mercati. E mi prudono le mani anche ogni volta, però, in cui sento o leggo qualcuno che sbraita a destra e a manca centrando l’obiettivo, almeno a parole, ma poi non prova nemmeno a fare un millimetro di percorso se al di fuori della strada ben segnata.
E allora discerniamo, per favore. Anche il “Che”, suppongo, dopo aver combattuto il giorno intero, la sera qualche schioppettata a un cinghialotto per mangiare la dovrà pure aver tirata no?
E non è una questione solo di libro e moschetto. Per quanto, ad avercene di persone così. Ecco, trovato: diciamo che la battaglia totale si deve muovere necessariamente su più piani. Dal libro al bastone alla vanga. Alle bombe. Ma sopra ogni altra cosa, anzi prima di ogni altra cosa, scrolliamo chi rimane fermo immobile ad aspettare. E prima di tutti quelli che rimangono fermi immobili ad aspettare mentre sproloquiano dal pulpito. O dalla poltrona di casa.
Non c’è nulla di più lontano, meglio, non c’era nulla di più lontano dalle mie abitudini fatte praticamente di soli studio e scrittura, libri e computer, che fare cose manuali e di autoproduzione come tante cui invece adesso non rinuncio (con aiuti di vario tipo: pane, dolci, conserve, marmellate…). E come ad esempio l’orto.
Ogni singolo pomodoro staccato da una pianta che io ho seminato a costo zero e che mi porto a casa nel paniere con la mia bicicletta è una rivincita contro le multinazionali del pelato in scatola. Dico in senso lato. Ma non solo. Contro il padrone datore di lavoro che mi avrebbe voluto invece al tavolo della sua scrivania per guadagnare lo sporco euro che serve per comperarlo, quel pomodoro. Euro sul quale lo Stato mi avrebbe peraltro taglieggiato per ingrassare la speculazione internazionale e che poi avrei utilizzato per andare (di fretta) al supermercato (in automobile che avrei dovuto pagare e mantenere) per potermelo procurare dopo che era stato raccolto da poveracci immigrati schiavizzati e trasportato per tutta la penisola inondando l’aria di veleni che poi sarebbero finiti nei polmoni nostri e in quelli dei nostri figli. Può bastare, per spiegare dal punto di vista pratico l’atto autenticamente rivoluzionario di piantare e far crescere una pianta di pomodoro?
Ciò non significa, beninteso, che si debba rinunciare a combattere in modo diretto con le multinazionali e con il sistema che le alleva e da cui si alimenta. Voglio dire che quella è la battaglia con la B maiuscola, e che a questa non rinunciamo affatto. Ma, come detto, se non è forse ancora il tempo dello scontro frontale, è invece assolutamente il momento della dissidenza di base, della ribellione personale e comunitaria. E di campi per questa guerriglia quotidiana, ognuno nella propria vita, ambito per ambito, settore per settore, ce ne sono a bizzeffe. Una azione alla volta. Un metro quadro alla volta. Uno scalpo alla volta.
Valerio Lo Monaco
Fonte: www.ilribelle.com
Link: http://www.ilribelle.com/la-voce-del-ribelle/2013/4/26/pomodori-rivoluzionari.html
26.04.2013