DI AMBROSE EVANS-PRITCHARD
The Telegraph
Tuteliamo i terreni agricoli o rischieremo le carestie
Un gruppo di scienziati americani ha fatto una scoperta preoccupante.
Negli ultimi due secoli, le attività agricole svolte nelle praterie hanno causato un drastico impoverimento dell’ecosistema naturale del suolo.
Non sono ancora riusciti a capire quale sia il ruolo svolto dai micro organismi presenti in esso, (un vero e proprio nuovo campo di ricerca). Né sanno se sia un processo reversibile al quale si possa ancora porre rimedio.
Un’equipe dell’università del Colorado, sotto la guida del professore Noah Fierer, ha usato una tecnologia genetica per esaminare il particolare insieme di microbi presenti nel suolo delle praterie, confrontando la qualità della terra coltivata con quei pochi campioni di terra vergine di cui ancora disponiamo, prelevata da alcuni cimiteri e riserve naturali. Le conclusioni dello studio, pubblicate sulla rivista US Journal Science denunciano quanto le attività agricole abbiano sostanzialmente alterato la composizione biologica del terreno esaminato.
Potreste dire che tutto ciò era prevedibile. In realtà non è così. Mai era stato eseguito un confronto genetico di questo livello. Il prof. Fierer lancia un monito: “Conosciamo solo marginalmente il sistema microbiologico del suolo, sappiamo però che è di assoluta importanza e non possiamo continuare ad usare indiscriminatamente i fertilizzanti”.
Gli studiosi dell’università Witwatersrand del Sud Africa temono che l’eccessivo sfruttamento dei terreni agricoli ci conduca ad un punto di non ritorno e alla carestia.
Il loro studio, intitolato “Da polvere a polvere”, denuncia una perdita di terreno vergine, a livello globale, del’1% all’anno, per un totale del 70% del suolo del pianeta ormai compromesso. Il terreno può considerarsi come la membrana che separa l’ecosistema biologico superficiale, nel quale viviamo, da quello presente al di sotto, altrettanto importante per la nostra sopravvivenza. Sicuramente i fertilizzanti chimici incrementano i rendimenti agricoli, ma ciò avviene solo nel breve periodo, ma causano il successivo impoverimento del terreno.
Il tema è assolutamente di rilievo, considerando che la popolazione mondiale è in aumento, probabilmente sino a metà secolo, e la domanda di cibo cresce più che proporzionalmente nei paesi in via di sviluppo. L’uscita dalla povertà dei paesi asiatici, così come avvenuto per la Corea del Sud ed il Giappone, comporta anche l’adozione di una dieta simile alla nostra, basata su un significativo consumo di proteine animali: si pensi che per produrre un solo chilo di carne occorrono tra i 4 e gli 8 chili di cereali per nutrire il bestiame.
Il prof. Robert Scholes, tra gli autori dello studio, ammonisce i governi che per sfamare oggi le popolazioni con l’agricoltura intensiva ne mettono a repentaglio il futuro.
Per esempio la parte orientale del Madagascar ha subito una violenta deforestazione, probabilmente irreversibile. Nel decimo secolo gli islandesi ridussero la loro isola ad una landa deserta, ancora oggi non hanno ricostituito completamente il suolo sebbene lo coltivino con estrema attenzione.
“Rischiamo seriamente la carestia nei prossimi 30-40 anni se non ricostituiamo il “capitale di nutrienti” presente nel terreno adottando nuove tecniche di coltivazione.”
La civiltà sumera inaugurò l’era agricola insediandosi nella regione compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate e probabilmente scomparve a causa dell’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali: l’epica di Gilgamesh descrive le coltivazioni di cedro dell’Iraq prima della loro distruzione a causa del commercio di legname verso il 2600 a.C.
La storia si ripete allo stesso modo, dai Maya, all’impero Khmer, all’Inghilterra orientale, come raccontato da Jared Diamond nel saggio “Collasso”. Una volta abbattuta l’alberatura che ricopre le colline, le naturali infiltrazioni d’acqua che nutrono il terreno sono compromesse. Diviene sempre più complicato rendere fertile il suolo ed i “rimedi” finiscono per aggravare ancor più la situazione: si impiegano più fertilizzanti e si incrementano le superficie coltivate, riducendo sempre più la riserva di terreni vergini. La Convenzione dell’ONU contro la desertificazione (UNCCD) avverte che la domanda di cibo aumenterà del 50% entro il 2030, con una richiesta di ulteriori 170-220 milioni di ettari di terra vergine da destinare all’agricoltura. Nei prossimi 25 anni però, proprio a causa dell’impoverimento della qualità del suolo, la resa agricola scenderà del 12%.
La commissione UNCCD mira ad azzerare, a partire dal 2015,il saldo negativo delle terre compromesse dall’agricoltura piantumando nuove foreste. Il responsabile Veerle Vanderweerde sostiene che forse si è ancora in tempo per recuperare la situazione, ma occorrono investimenti, progetti e soprattutto volontà politica che invece sembra mancare. Yacouba Sawadogo, “l’uomo che fermò il deserto”, reintrodusse l’antica tecnica agricola trent’anni fa riuscendo a contenere l’erosione del suolo nei suoi appezzamenti in Burkina Faso. Sfortunatamente, le autorità locali lo espropriarono delle sue terre. Mrs Vanderweerde accusa le grandi multinazionali che producono fertilizzanti di sfruttare i terreni senza preoccuparsi di porvi rimedio.
Un nuovo gruppo di ricerca, il “Land Matrix Global Obervatory”, stima che vi siano compravendite di terreni coltivabili per 48 milioni di ettari, pari alla superficie della Spagna. Potrebbe essere una sottostima poiché le grandi aziende coinvolte tendono a mantenere un basso profilo per evitare possibili proteste popolari come quelle avvenute in Africa e in America Latina. Conducono le compravendite tramite intermediari locali per non destare sospetti.
L’osservatorio ha scoperto che i principali investitori sono americani, malesi, arabi, inglesi (molte compagnie hanno sede a Londra). La Cina, sebbene non primeggi, può scalare rapidamente la classifica, si pensi al contratto di affitto del 5% dei terreni coltivabili ucraini per un periodo di 50 anni, pari alla superficie del Belgio. Un terzo della preziosa foresta pluviale della Papua Nuova Guinea già oggi è di proprietà di compagnie straniere.
Le preoccupazioni per le carestie sono per il momento diminuite rispetto al 2008. I prezzi dei cereali erano triplicati nei tre anni precedenti e rimasero alti, conducendo alle rivolte popolari conosciute come “primavera araba”. Le Nazioni Unite affermano che grazie ai raccolti americani, canadesi ed ucraini la produzione agricola è aumentata dell’8% a fronte di un aumento del consumo di “solo” il 3,5%.
Le riserve globali di grano sono ad un livello di relativa sicurezza, essendo salite del 13%, tuttavia sono pari a soli 69 giorni di consumo. Le medesime riserve erano pari a 107 giorni di consumo negli anni ’80 e ’90. Abbiamo quindi un margine di sicurezza che si è ridotto. Né i prezzi sono tornati ai livelli di quel periodo. L’indice dei prezzi cerealicoli è aumentato del 105% negli ultimi 10 anni.
La cruda verità è che il pianeta non può permettersi di perdere neanche un ettaro, figuriamoci 12 milioni all’anno! La consapevolezza dell’importanza della varietà microbiologica che compone il suolo dovrebbe spingerci ad agire: parliamo spesso del riscaldamento climatico, che forse è in parte indipendente dalle attività umane, quando invece dovremmo badare allo sfruttamento agricolo che sicuramente è solo colpa nostra. Ne dobbiamo essere consapevoli ed indurre i nostri governi a rimediare a questa situazione.
Ambrose Evans-Pritchard
Fonte: www.telegraph.co.uk
Link: http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/ambroseevans_pritchard/10479872/Dust-to-Dust-a-man-made-Malthusian-crisis.html
27.11.2013
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CRISTIANO ROSA
[il titolo originale: “Dust to Dust: a manmade Malthusian crisis” fa riferimento alla ricerca intitolata “Dust to Dust” condotta da un gruppo di scienziati sudafricani dell’università Witwatersrand, Ndt]