DI MARIO DRAGHI
Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, Prometeia40,Bologna, 14 dicembre 2015
Al termine di una crisi durata otto anni l’economia europea sembra finalmente reggersi su basi più salde. La ripresa è ora sospinta dalla domanda interna piuttosto che dalle esportazioni; ha mostrato di saper resistere al recente rallentamento del commercio mondiale.
A ciò la politica monetaria ha dato un impulso decisivo. Gli strumenti messi in campo dal giugno del 2014, in particolare il programma di acquisto di attività di titoli privati e pubblici avviato nel settembre dello scorso anno e ampliato nel gennaio di quest’anno, stanno determinando gli effetti voluti. Dopo la ricalibrazione dei nostri strumenti attuata questo mese dal Consiglio direttivo, ci attendiamo che l’inflazione raggiunga il nostro obiettivo senza indebiti ritardi.
Ma continuiamo a osservare attentamente gli andamenti delle condizioni economiche e finanziarie. Come ho avuto modo di dire in occasione dell’ultima riunione del Consiglio e anche più recentemente, “non c’è dubbio che, se dovessimo intensificare l’utilizzo dei nostri strumenti per raggiungere il nostro obbiettivo di stabilità dei prezzi, lo faremo”.
Ma gli shocks che hanno colpito la nostra economia dal 2008 non hanno avuto natura meramente ciclica, bensì anche strutturale.
In questo contesto, la politica monetaria può assicurare la stabilità dei prezzi, ma da sola non può rendere durevolmente prospera un’economia. È quindi essenziale intervenire sia sulla domanda, sia sull’offerta e agire in modo coerente su tutti i fronti, per consolidare l’inversione del ciclo e creare allo stesso tempo le condizioni per una solida e duratura ripresa. Nel mio intervento di oggi vorrei discutere come politiche diverse possono contribuire a raggiungere questo risultato, non agendo sequenzialmente ma simultaneamente nei loro rispettivi ambiti di competenza.
Il ruolo della politica monetaria
Una delle caratteristiche di questa crisi è stata la caduta del tasso di crescita potenziale dell’area dell’euro, vale a dire il ritmo a cui l’economia può crescere stabilmente, senza surriscaldarsi e senza quindi generare inflazione. Si stima che esso sia oggi nell’area pari all’1 per cento, a fronte del 2 per cento negli Stati Uniti dove pure la crisi è stata accompagnata da un abbassamento del tasso di crescita potenziale. Ciò significa che anche con una forte ripresa ciclica la crescita si collocherà su un valore abbastanza basso. Per assicurare una ripresa strutturale dobbiamo però elevare non solo la crescita ciclica, di breve periodo, ma anche quella potenziale, di lungo periodo.
Nel determinare la crescita potenziale cruciale è il ruolo degli investimenti. Essi accrescono al contempo la domanda di oggi e l’offerta di domani. Nell’area dell’euro, però, la ripresa ha sinora riguardato soprattutto i consumi e in misura minore gli investimenti, che si collocano ancora su valori del 15 per cento inferiori a quelli pre-crisi. Questa debolezza è peraltro comune anche ad altre economie avanzate.
Nell’area dell’euro gli investimenti sono frenati soprattutto da tre fattori: la debole dinamica della domanda, l’accumulo di debito, già ingente nel periodo precedente la crisi, la precaria fiducia del settore privato nelle prospettive di crescita delle nostre economie.
Allo stesso tempo, come in un circolo virtuoso, l’aumento degli investimenti, rafforzando la domanda, consolida la ripresa, rende più leggero il peso del debito, accresce la fiducia. A questo scopo la politica monetaria può svolgere un ruolo fondamentale nell’accelerare il ritorno del prodotto verso il suo livello potenziale se l’output gap è ampio e l’inflazione al di sotto dell’obiettivo. Ciò è quanto la BCE sta facendo con le misure varate a partire dalla metà dello scorso anno, in un contesto di prolungata e bassa inflazione.
Abbiamo tagliato i tassi ufficiali fino a valori negativi, varato pacchetti di agevolazione del credito – in particolare con le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine – e abbiamo ampliato il nostro programma di acquisto di titoli pubblici e privati. Dal giugno 2014, i tassi sui prestiti delle banche alle imprese sono scesi fortemente, di circa 80 punti base per l’insieme dell’area dell’euro, con flessioni fino a 100 – 140 punti base nei paesi più colpiti dalla crisi. La trasmissione della politica monetaria è tornata a essere penetrante: nel giugno del 2014, per avere un effetto analogo sui tassi attivi delle banche, avremmo dovuto abbassare i tassi di politica monetaria di 100 punti base, in quel momento ovviamente cosa impossibile. Queste misure, secondo recenti verifiche dell’Eurosistema, contribuiscono ad aumentare la crescita dell’area dell’euro di circa 1 per cento complessivamente tra il 2015 e il 2017.
Alla discesa dei tassi ha corrisposto un recupero dei prestiti alle imprese. Nello scorso maggio, prima dell’annuncio delle misure di agevolazione creditizia, i prestiti flettevano a un tasso annuale pari a circa il 3 per cento nell’area nel suo complesso. Dallo scorso luglio la tendenza si è arrestata; nella media dell’area dell’euro i prestiti hanno ripreso a crescere, pur se a tassi modesti. Al culmine della crisi, nel 2012, le piccole imprese segnalavano l’accesso al credito come il loro problema principale, subito dopo l’esigenza di trovare clienti. Dallo scorso aprile, invece, l‘accesso al credito è risultato fra i fattori di freno allo sviluppo dell’attività delle piccole e medie imprese meno importanti tra quelli rilevati dalle indagini. I termini e le condizioni dei prestiti hanno preso a convergere rapidamente verso l’assetto di cui beneficiano i grandi prenditori.
Le nostre misure sono dunque risultate efficaci in due direzioni: hanno ridotto la dispersione nelle condizioni di finanziamento fra i paesi dell’area dell’euro e hanno compresso la dispersione fra differenti categorie di prenditori.
Tutto ciò ha contribuito non solo a consolidare la ripresa ma anche a renderla più flessibile. L’indebolimento della domanda estera da parte dei paesi emergenti è stato compensato da una maggiore domanda interna all’area dell’euro proveniente soprattutto dalle economie dei paesi ‘non core’. Le nostre misure di politica monetaria, sostenendo la incipiente ripresa, hanno così permesso di attenuare gli effetti negativi dell’indebolimento delle economie dei paesi emergenti sui maggiori paesi esportatori dell’area dell’euro.
E’ importante che gli effetti positivi delle nostre misure abbiano raggiunto anche le imprese minori perché ciò significa che essi sono stati percepiti da una grande platea di agenti, non solo da particolari gruppi economici e sociali, come qualche volta si sostiene. Non si dimentichi che le piccole e medie imprese rappresentano il 99 per cento del numero totale delle imprese in Europa e, fatto più importante, impiegano due terzi degli occupati totali.
Perché le nostre misure di politica monetaria sono state efficaci?
Una delle ragioni per cui i tassi sui prestiti alle imprese erano elevati in passato era che, data la debolezza delle condizioni economiche, le banche temevano in modo particolare il rischio di fallimento delle imprese e per questo accrescevano i premi al rischio. I tassi più elevati però facevano flettere anche la domanda di credito da parte delle imprese sane, aggravando le condizioni dell’economia e giustificando ex post gli elevati premi al rischio. Si generava così un circolo vizioso.
Le nostre misure, specialmente le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, riducendo i costi di provvista per nuovi prestiti, hanno incoraggiato le banche a riavviare il credito. L’accresciuta concorrenza sui mercati ha compresso i tassi, sospingendo il credito e migliorando il quadro macroeconomico. Siamo così riusciti a invertire il circolo vizioso.
Anche il programma di acquisto di titoli privati e pubblici ha alimentato la concorrenza sui mercati del credito, spingendo verso il basso i rendimenti sui titoli sovrani, riducendo così l’attrattività di questi ultimi rispetto ai prestiti, settore verso il quale si rivolge un volume crescente dell’attività bancaria. Oltre all’impatto diretto delle operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, le analisi condotte nella BCE hanno mostrato che i programmi di acquisto di titoli hanno esercitato un effetto indiretto sulle condizioni di offerta di credito, migliorando anche le prospettive macroeconomiche e riducendo ulteriormente i premi al rischio.
E queste misure non hanno danneggiato le banche. Tutt’altro. Sebbene talvolta possano aver portato a una contrazione del margine di interesse, le nostre misure hanno anche determinato guadagni in conto capitale dal lato dell’attivo delle banche, volumi e qualità del credito più elevati. Considerando tutti questi effetti, lo staff della BCE stima che l’impatto delle nostre misure sulla profittabilità del settore bancario sia stato sostanzialmente nullo per l’area dell’euro nel suo complesso.
Il ruolo delle altre politiche
L’efficacia della nostra politica monetaria dimostra che la BCE dispone di tutti gli strumenti idonei a cogliere il nostro obiettivo di stabilità dei prezzi e quindi a sostenere la domanda . Nell’ambito del nostro mandato non abbiamo vincoli che limitino la nostra scelta di quali strumenti utilizzare o il modo di impiegarli. Possiamo sempre portare l’inflazione al nostro obiettivo, dobbiamo farlo e lo faremo.
Ma la politica monetaria non può e non deve essere l’unico strumento. Da un lato i rischi di una politica monetaria molto accomodante per molto tempo devono essere affrontati con gli strumenti macroprudenziali più appropriati. D’altro lato è chiaro che vi sono altri strumenti di politica economica che possono aumentare l’efficacia della politica monetaria nel chiudere l’output gap. In passato, i ristretti margini a disposizione per l’impiego della politica fiscale hanno aggravato l’onere posto sulla politica monetaria; oggi le due politiche appaiono sotto questo profilo più coerenti. In altre parole, la politica monetaria trae benefici se le altre politiche fanno la loro parte nei loro ambiti di competenza. Allo stesso tempo, nella misura in cui essa ha successo nel sostenere la ripresa ciclica, ne risulta agevolato il varo di politiche strutturali che possono incontrare più forti resistenze in un contesto macroeconomico debole.
Tutto ciò non è controverso. I ministri finanziari e i governatori delle banche centrali dei paesi del G20 lo hanno chiaramente precisato nel comunicato diffuso dopo la riunione di Ankara dello scorso settembre : “ Le politiche monetarie continueranno a sostenere l’attività economica coerentemente con i mandati delle banche centrali, ma la politica monetaria da sola non può condurre a una crescita bilanciata.” Per l’area dell’euro ciò significa che bisogna compiere ulteriori passi, oltre che sostenere la domanda, per contrastare gli altri due fattori che frenano gli investimenti: l’eccessivo accumulo di debito e la fragilità della fiducia.
Che cosa implica ciò? Mi soffermerò su due punti in particolare.
In primo luogo, le riforme strutturali sono chiaramente parte essenziale della questione. Al di là della domanda corrente, gli investimenti dipendono largamente dalla fiducia delle imprese sulle prospettive future: su quanto possano essere favorevoli le condizioni in cui esse svolgono la loro attività a livello micro, sulla crescita futura a livello macro. Se gli ostacoli posti all’attività di impresa sono significativi o se sussiste troppa incertezza sulle prospettive di crescita, gli investimenti saranno inferiori a quanto potrebbero essere altrimenti. Per questo sono importanti le riforme strutturali.
Riducendo gli oneri burocratici e amministrativi, queste diminuiscono i costi di avvio di nuove attività e accrescono di conseguenza il rendimento effettivo degli investimenti. Incentivando una partecipazione maggiore del lavoro e elevando la produttività, le riforme migliorano le aspettative di domanda e incoraggiano le imprese nelle decisioni di investire oggi. L’investimento, in fondo, è una scommessa nel futuro.
Le riforme strutturali sono quindi essenziali per adempiere a quella parte del Trattato che fa propri gli obiettivi di una crescita bilanciata, della piena occupazione, dell’avanzamento sociale e della promozione del progresso tecnologico e scientifico. Nessuno di questi obiettivi verrà raggiunto se le imprese non investono in ricerca e sviluppo, nello sfruttamento delle nuove tecnologie, nello sviluppo degli skills, nei segmenti alti delle catene del valore; se, in altri termini, non verranno ristabilite le condizioni che favoriscono un’ elevata accumulazione di capitale nel settore privato.
E’ importante notare che le riforme che elevano la crescita potenziale generano un aumento permanente del reddito, non solo per l’insieme dell’economia ma anche per i governi, tramite entrate fiscali più copiose e una maggiore sostenibilità del debito che amplia lo spazio fiscale. Ciò allarga le capacità della politica fiscale di affiancare la politica monetaria nell’azione di stabilizzazione dell’economia.
In secondo luogo, nell’ambito delle riforme strutturali occorre rivolgere un’attenzione particolare alle misure che portano a una riduzione dell’eccesso di indebitamento. Certamente, importanti passi sono stati compiuti nel settore bancario con la creazione del meccanismo di sorveglianza unico, e come parte integrante di questo, con l’esercizio di valutazione approfondita e con la conseguente rilevante ricapitalizzazione del settore. Ciò ha altresì favorito il ripristino della piena funzionalità del credito bancario e del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. E’ peraltro evidente che in alcuni paesi l’elevato stock di prestiti deteriorati ancora ostacola una piena ripresa del credito.
Consistenze elevate di prestiti deteriorati comprimono l’offerta di credito per varie ragioni: assorbono risorse e capacità operativa, immobilizzano il capitale bancario in impieghi improduttivi e riducono la redditività delle banche, gravando sulla loro capacità di generare capitale internamente. Questi effetti colpiscono in misura più accentuata le imprese minori, che sono più dipendenti dal credito bancario.
Inoltre, la lentezza nel riassorbimento dei prestiti deteriorati impedisce il necessario processo di ristrutturazione nel settore delle imprese nel corso del quale le imprese sane riducono il loro debito e riprendono a investire mentre le altre escono dal mercato. Creare le condizioni per un rapido smaltimento dei prestiti deteriorati deve essere parte delle misure di politica economica volte a ripristinare condizioni favorevoli all’ accumulazione.
Ogni paese ha la propria lista di azioni da compiere per accelerare questo processo. Ritardi su questo fronte costituiscono un serio freno alla crescita. In particolare, una ben disegnata disciplina normativa sull’insolvenza è essenziale per distinguere i debitori solvibili dagli altri e per agevolare la valutazione delle attività da liquidare. Un efficiente sistema della giustizia è anch’esso di importanza fondamentale. Analisi condotte dallo staff della BCE mostrano che la velocità di riduzione dell’indebitamento è ben maggiore nei paesi che dispongono di un apparato giudiziario efficace.
Da questo punto di vista, la recente riforma della normativa che disciplina lo stato di insolvenza in Italia è da valutarsi positivamente. Si stima che la durata media delle procedure fallimentari verrà dimezzata e che i tempi delle procedure di pignoramento diminuiranno in misura non trascurabile. Il recupero più tempestivo delle garanzie avvicina il valore di mercato degli attivi deteriorati al livello al quale le transazioni possono avere luogo, accelerando il processo di deleveraging.
L’impegno per una Unione dei mercati dei capitali è una opportunità per accelerare i progressi su tutti i fronti. Una genuina Unione deve avere l’obiettivo di armonizzare i regimi di insolvenza e di elevare complessivamente la loro qualità, convergendo verso le “migliori pratiche”. Ciò dovrebbe a sua volta ampliare il mercato secondario per le partite deteriorate, agevolando così il loro collocamento da parte delle banche. Se l’Unione riuscirà a sviluppare mercati europei di titoli garantiti da assets delle piccole e medie imprese, le banche potranno diversificare più agevolmente i rischi di credito connessi con i prestiti a questa categoria di imprese, irrobustendo l’offerta di credito.
Infine, per sostenere fino in fondo la fiducia è importante non perdere di vista la necessità di completare la nostra unione monetaria, anche quando fronteggiamo priorità più urgenti. In questo contesto, diversi passi compiuti dalla Commissione orientano questo processo nella giusta direzione. Per consolidare la fiducia è anche importante che questi passi siano parte di una visione di più lungo periodo, che elimini le fragilità della nostra unione.
In sintesi, la combinazione della nostra politica monetaria dal lato della domanda con le riforme strutturali dal lato dell’offerta contribuisce grandemente a creare le condizioni per una ripresa genuinamente strutturale. Insieme, la politica monetaria e le riforme strutturali sostengono la domanda, il processo di riduzione dell’indebitamento e la fiducia, tutti fattori essenziali per accrescere gli investimenti.
Ma quando si tratta di dare concretezza all’agenda riformatrice, sembra che In molti paesi dell’eurozona prevalga più l’esitazione che la determinazione. E certamente occorre ricordare come i cambiamenti necessari siano di portata tale da non poter essere attuati senza un vasto consenso. Ma occorre anche ricordare come il ritardo nell’attuazione delle importanti riforme strutturali, che rendono un paese più ricco e più capace di affrontare le sfide di oggi, può avere talvolta spiegazioni politiche, mai economiche.
Mario Draghi
Fonte: www.ecb.europa.eu
Link: https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp151214.it.html
14.12.2015