DI ISRAEL SHAMIR
counterpunch.org
Adesso, nella stagione dei monsoni, la Cambogia è verdeggiante, fresca e rilassata. Le risaie allagano i fianchi delle colline basse, foreste quasi impenetrabili nascondono antichi templi, il mare in tempesta scoraggia i nuotatori. E’ un momento piacevole per rivisitare questo modesto paese: la Cambogia non è affollata, i cambogiani non sono avidi, ma per lo più pacifici e amichevoli. Pescano gamberi, calamari e orate. Coltivano riso non contaminato da erbicidi, piantato, coltivato e raccolto manualmente. Ne producono abbastanza per se stessi e per l’esportazione anche – non proprio un paradiso, con la presenza dei soldati stranieri.Il socialismo si sta smantellando rapidamente: le fabbriche di proprietà cinese continuano a produrre t-shirts per il mercato americano ed auropeo, impiegando decine di migliaia di ragazze cambogiane che guadagnano 80 dollari al mese. Vengono licenziate in tronco al primo accenno di sindacalismo. I nuovi ricchi vivono in palazzi; si trova una quantità di macchine Lexus e qualche occasionale Rolls-Royce. Enormi, bellissimi tronchi d’albero rossi e neri vengono costantemente trasportati sul fiume verso il porto per l’esportazione, distruggendo le foreste ma arricchendo gli affaristi. Nella capitale sono spuntati molti ristoranti francesi; i rappresentanti delle ONG guadagnano in un minuto il salario mensile di un operaio.
Non molto rimane, del turbolento periodo in cui i cambogiani tentarono di cambiare radicalmente l’ordine delle cose nel corso della loro, unica al mondo, rivoluzione tradizionalista, conservatrice, contadina, sotto la bandiera comunista. Fu il tempo glorioso di Jean Luc Godard e del suo La Chinoise, della Rivoluzione Culturale Cinese che inviava i bonzi alle fattorie remote per la rieducazione, della marcia dei Khmer Rossi il capitalismo corrotto. Il movimento socialista giunse ad una biforcazione: avanzare verso il socialismo più radicale in stile Mao, o ritrattare su un socialismo più leggero alla maniera di Mosca. L’esperimento dei Khmer Rossi durò solo tre anni, dal 1975 al 1978.
Contrariamente a quanto ci si aspetti, i cambogiani non hanno un brutto ricordo di quel periodo. Per un visitatore occasionale può essere una scoperta sorprendente. Io non ho mai cercato di ricostruire “la verità”, qualunque essa sia, ma piuttosto mi sono interessato alla memoria collettiva dei cambogiani, la loro percezione rispetto agli eventi del tardo ventesimo secolo, quale narrativa sia filtrata nel corso del tempo. L’onnipotente macchina fabbrica-narrative dell’Occidente ha incorporato nelle nostre coscienze l’immagine dei sanguinari comunisti dei Khmer Rossi mentre divorano la carne del loro stesso popolo in campi di concentramento, guidati da un Pol Pot da incubo, l’essenza stessa della nozione di despota spietato.
Un quotato professore americano, R.J. Rummel, scrisse (1) che “su una popolazione di circa 7 milioni e 100 mila persone nel 1970, …quasi 3 milioni e 300 uomini, donne e bambini furono assassinati …molti dei quali… furono uccisi dal movimento comunista Khmer Rouge”. Un morto al secondo, era la sua stima.
In ogni caso la popolazione della Cambogia non solo non si è dimezzata, ma è più che raddoppiata dal 1970, a dispetto dei presunti genocidi multipli. A quanto sembra, o i perpetratori di genocidio erano degli incapaci, o si sono decisamente esagerate le cifre.
Il Pol Pot che i cambogiani ricordano non era un tiranno ma un grande patriota e nazionalista, amante della cultura nativa e dello stile di vita nativo. Era cresciuto nella cerchia del palazzo reale; sua zia era una concubina del re precedente. Studiò a Parigi, ma invece di soldi e carriera scelse di tornare a casa, e rimase alcuni anni con le tribù delle foreste per imparare dai contadini. Sentiva compassione per la tanta gente della campagna, sfruttata ogni giorno dal compratore parassita della città. Costruì un esercito per difendere le campagne da questi rapinatori a mano armata. Pol Pot, uomo religioso e di poche necessità, non ha mai cercato ricchezza, fama o potere per se stesso. Aveva una sola grande ambizione: distruggere il decadente capitalismo coloniale in Cambogia, tornare alla tradizione contadina, e da lì costruire da zero un nuovo paese.
La sua visione era molto diversa da quella dei soviet. I sovietici avevano costruito le industrie sul sangue dei contadini; Pol Pot voleva prima ricostruire la campagna, e solo in seguito istituire industrie per venire incontro ai bisogni della società contadina. Disprezzava gli abitanti della città; a suo modo di vedere non erano di alcuna utilità. Molti di essi erano legati agli squali della finanza, una caratteristica particolare della Cambogia post-coloniale; altri aiutavano le compagnie straniere a depredare la popolazione delle sue ricchezze. Essendo un nazionalista convinto, Pol Pot guardava con sospetto alle minoranze vietnamita e cinese. Ma ciò che odiava di più era l’avidità, l’ingordigia, il desiderio di possedere cose. San Francesco e Lev Tolstoj lo avrebbero capito.
I cambogiani con cui ho parlato irridevano le spaventose storie sull’Olocausto Comunista come una invenzione degli occidentali. Mi ricordavano come effettivamente si svolsero i fatti: la loro breve storia problematica iniziò nel 1970, quando gli americani cacciarono via il loro legittimo capo, il principe Sihanouk, e lo rimpiazzarono con il loro compiacente dittatore militare Lon Nol. Corruzione era il suo secondo nome, e i suoi seguaci rubarono tutto ciò che riuscirono, accumularono i guadagni illeciti all’estero e poi si trasferirono in USA. Come se non bastasse, gli Stati Uniti si misero a bombardarli. I contadini si unirono al gruppo di guerriglieri dei Khmer Rossi nella foresta, guidati da alcuni laureati della Sorbona, e finalmente riuscirono a buttare fuori a calci Lon Nol e i suoi sostenitori americani.
Nel 1975, Pol Pot prese in mano il paese, devastato da una campagna di bombardamenti degna della ferocia di Dresda, e lo salvò, dicono. E davvero, gli aerei USA (ricordate La cavalcata delle valchirie in Apocalypse Now?) (2) hanno gettato più bombe in questo povero piccolo paese che nella Germania nazista, e sparso le loro mine per tutto il territorio restante. Se spinti a fare il nome del loro grande distruttore (e non hanno una grande passione per rivangare il passato) chi nominano non è il Compagno Pol Pot, ma Henry Kissinger.
Pol Pot e i suoi amici hanno ereditato un paese devastato. I villaggi contadini si erano spopolati; milioni di rifugiati erano ammassati nella capitale per scappare dalle bombe e dalle mine americane. Indigenti e affamati, dovevano essere nutriti. Ma, come conseguenza della campagna di bombardamenti, nessuno piantò riso nel 1974. Pol Pot ordinò che tutti uscissero dalla città e andassero alle risaie a piantare riso. Fu un passo duro ma necessario, e nel giro di un anno la Cambogia ebbe abbastanza riso da sfamare tutti e addirittura da vendere il surplus per comprare materie prime necessarie.
La nuova Cambogia (o Kampuchea, come era chiamata) sotto Pol Pot e i suoi compagni era un incubo per i privilegiati, per i ricchi e i loro servitori; ma per la povera gente c’era abbastanza cibo e venne loro insegnato a leggere e scrivere. Come per gli omicidi di massa, questi sono solo racconti dell’orrore, affermavano i miei interlocutori cambogiani. Sicuramente i contadini vittoriosi spararono a traditori e spie, ma vi furono molti più morti per le mine disseminate dagli americani e durante il successivo dominio vietnamita, dicono.
Al fine di ascoltare anche l’altra campana, sono andato ai Killing Fields (campi di uccisione) di Choeung Ek, il memoriale dove le presunte vittime furono uccise e sepolte. E’ un posto a circa 30 km da Phnom Penh, un parco verde e pulito con un piccolo museo molto visitato dai turisti, il Cambodian Yad va-Shem. Una targa diceva che le guardie dei Khmer Rossi vi avrebbero portato da venti a trenta detenuti due o tre volte al mese, e ne uccisero la maggior parte. Per tre anni, fanno poco meno di duemila morti, ma un’altra targa diceva invece che seppellirono circa ottomila corpi. Comunque, un’altra targa parlava di oltre un milione di morti. Noam Chomsky valutò che il conteggio dei morti in Cambogia potrebbe essere stato gonfiato “a colpi di migliaia”.
Non ci sono foto delle uccisioni; invece, nell’umile museo si trovano un paio di dipinti naïf, raffiguranti un uomo grosso e forte mentre ne uccide uno debole e piccolo, in uno stile piuttosto tradizionale. Un’altra targa recita: “Qui venivano tenuti gli strumenti di morte, ma oggi non rimane nulla” ed altre iscrizioni simili. Secondo me, tutto ciò richiama ad altre storie di Terrore Rosso sponsorizzate dalla CIA, che fosse il Terrore Staliniano o l’Olocausto Ucraino. La gente ora al potere in USA, Europa e Russia vuole presentarsi sotto una luce alternativa al loro effettivo ruolo di incapaci, o sanguinari, o entrambe le cose. Odiano in modo particolare i leader incorruttibili, come Robespierre o Lenin, Stalin o Mao – e Pol Pot. Preferiscono i leader propensi al cambio di bandiera, meglio se installati direttamente da loro. Gli americani hanno una buona ragione in più: le stragi di Pol Pot servono a coprire le atrocità da loro stessi perpetrate, i milioni di indocinesi che hanno mitragliato e innaffiato di napalm.
I cambogiani dicono che molte altre persone furono uccise in seguito all’invasione vietnamita nel 1978; mentre i vietnamiti preferiscono scaricare la colpa sui Khmer Rossi. Ma il governo attuale non sta incoraggiando questa o altre rivendicazioni sul passato, e per una buona ragione: praticamente tutti i personaggi ufficiali di una certa età erano membri dei Khmer Rossi, spesso anche in posti di comando. Ciononostante, quasi tutti collaborarono con i vietnamiti. L’attuale Primo Ministro, Hun Sen, era un comandante dei Khmer Rossi, e più tardi sostenne l’occupazione vietnamita. Quando i vietnamiti se ne andarono, lui rimase al potere.
Anche il principe Sihanouk, quello esiliato dagli americani, sosteneva i Khmer Rossi. Se ne tornò a casa nel suo bel palazzo reale con il suo tempio d’argento con il Buddha di Smeraldo, dopo la partenza dei vietnamiti. Incredibilmente è ancora vivo, anche se ha abdicato in favore del figlio, un monaco che ha dovuto lasciare la vita monastica per salire al trono. Quindi neanche la famiglia reale è molto propensa a rivangare il passato. Nessuno ne vuole discutere apertamente; la storia ufficiale delle supposte atrocità dei Khmer Rossi rimane trincerata nella coscienza degli Occidentali, anche se i tentativi di trovare prove hanno portato scarsi risultati.
Guardando indietro, sembra che i Khmer Rossi di Pol Pot fallirono più nella politica estera che in quella interna. E’ vero che cancellarono il denaro, fecero saltare le banche e spedirono i banchieri a piantare riso. E’ vero che eliminarono i grandi parassiti succhiasangue, i grandi mercanti e finanzieri della città. Il loro errore fu di non calcolare la propria posizione rispetto al Vietnam, e così fecero il passo più lungo della gamba. Il Vietnam era militarmente potente -aveva appena sconfitto gli Stati Uniti- e non avrebbero tollerato queste follie dai loro fratelli minori di Phnom Penh. I vietnamiti stavano pianificando la creazione di una Federazione Indocinese sotto la loro propria guida, includendo Laos e Cambogia. Rovesciarono gli ostinati Khmer Rossi perché erano troppo fissati con la propria indipendenza. Poi diedero seguito alla leggenda del genocidio per giustificare il loro stesso sanguinario intervento.
Parliamo troppo del male commesso da regimi futuristi, e troppo poco dei mali perpetrati dai sovrani avidi del mondo. Non molto spesso ricordiamo la carestia in Bengala, l’olocausto di Hiroshima, la tragedia del Vietnam, e nemmeno Sabra e Shatila. L’introduzione del capitalismo in Russia uccise molte più persone dell’introduzione del socialismo, ma in quanti lo sanno?
Ora potremmo cautamente rivalutare i coraggiosi tentativi di lotta per il socialismo in vari paesi. Si sono sviluppati sotto la prepotenza, le condizioni avverse, la propaganda ostile. Ma ricordiamoci: se il socialismo ha fallito, ha fallito anche il capitalismo. Se il comunismo fu accompagnato dalla perdita di vite umane, lo stesso valeva e vale ancora per il capitalismo. Ma con il capitalismo, non abbiamo un futuro per cui valga la pena vivere, mentre il socialismo offre ancora una speranza a noi e ai nostri figli.
Israel Shamir
Fonte: www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/2012/09/18/pol-pot-revisited/
17.09.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di PUNDAMYSTIC
NOTE
1) http://www.hawaii.edu/powerkills/SOD.CHAP4.HTM
2) http://www.youtube.com/watch?v=Gz3Cc7wlfkI