I profitti della Shell cresciuti in un anno del 48 per cento
DI MAURIZIO BLONDET
Hanno motivo di brindare gli azionisti della Shell: la multinazionale anglo-olandese verserà loro dividendi per 10 miliardi di dollari. E’ la pioggia d’oro di un anno record per le petrolifere: la Shell ha dichiarato profitti per 18,5 miliardi di dollari, la Exxon Mobil per 25,3. L’entità delle cifre, quand’è astronomica, rischia di superare la comprensione dell’uomo della strada. Per capire, ecco qualche confronto: per giro d’affari, la Shell equivale a un paese ricco come la Svizzera, il fatturato Exxon è pari alla ricchezza prodotta dal popoloso Egitto. I profitti della Shell superano il prodotto nazionale del Libano, quelli della Exxon valgono quanto l’intero Lussemburgo. E gli azionisti Shell riceveranno l’equivalente della ricchezza prodotta in un anno dal Laos o dal Mali. Ma ancor più significative sono le percentuali. I profitti della Shell sono cresciuti, da un anno all’altro, di un siderale 48 per cento. Nulla di male, se quest’aumento fosse il frutto di grandi scoperte di nuovi giacimenti, dell’applicazione di tecnologie rivoluzionarie che hanno abbassato i costi, di genialità imprenditoriali. Invece, la ragione è più elementare: il greggio è salito a 50 dollari al barile, mentre Shell e Mobil estraggono gran parte del loro petrolio da giacimenti sauditi e del Golfo, dove il costo d’estrazione resta sui 5 dollari a barile. È uno dei paradossi del petrolio. Il suo prezzo è determinato sì dal “mercato”, ed oggi è rialzato dall’insaziabile domanda cinese, ma è anche il prodotto di un “cartello”, che del mercato è l’opposto.
Quando si parla di cartello petrolifero, il pensiero accusatore suole correre all’Opec e agli emiri; quasi mai alle multinazionali estrattive, che godono di stampa migliore: forse perché la stampa (ed altri media) la controllano o la possiedono loro. Fatto sta che come i neghittosi principi sauditi, anche Shell ed Exxon godono una rendita. Ogni dollaro di rincaro del greggio sui “mercati”, è un dollaro intascato senza averlo guadagnato. Non è tanto un profitto, quanto una “cresta”, simile a quella che fanno certe badanti filippine sulla spesa al mercato. Il problema sta nell’entità. Quando la “cresta” supera la ricchezza annua di stati come il Lussemburgo o il Mali, e cresce del 48 per cento in un anno, c’è da chiedersi a danno di chi questa rendita viene lucrata. Perché l’economia mondiale non è certo cresciuta del 48% dal 2003 al 2004. Anzi interi settori (dai trasporti aerei alla grande distribuzione) vedono assottigliarsi i loro profitti in parte proprio a causa del petrolio caro, e gran parte della modesta crescita mondiale è basata sui bassi salari della Cina (“competitivi”, nel gergo liberista).
Se, diciamo, l’economia mondiale cresce di un 3%, chi ricava invece il 48% lo fa a spese di altri, che ricevono meno perché le petrolifere si sono accaparrate di più. In breve, si tocca con mano la verità non detta del sistema finanziario globale: esso compensa sempre più il capitale a scapito del lavoro e dei salari. Non è il capitalismo, ma la sua malattia: l’effetto finale è che i prodotti che il capitalismo sforna restano invenduti, per mancanza di potere d’acquisto dei compratori. È già avvenuto in passato, e non è mai finita bene.
Maurizio Blondet
Fonte:www.avvenire.it
5.02.05