DI CHRISTIAN CALIANDRO
minimamoralia.it
Da anni, ormai, i giovani italiani si sentono ripetere che sono e saranno i primi a dover affrontare nella loro esistenza condizioni materiali peggiori rispetto a quelle dei padri (ma non, significativamente, dei nonni). Lontani dunque i tempi del boom e dei baby-boomers, cresciuti in un’era di pace e prosperità, sicuri del proprio posto nella realtà: la nostra esperienza quotidiana è nel migliore dei casi simile alla navigazione a vista, nei più estremi a una situazione post-bellica.
La domanda da porci, però, è forse un’altra: siamo proprio sicuri che una vita più povera sia necessariamente anche più infelice? Che rapporto c’è tra la scarsità dei beni disponibili e i risultati che si ottengono?
Goffredo Parise – sulle medesime pagine del “Corriere della Sera” in cui Pasolini pubblicava i suoi affondi chirurgici al cuore della mutazione in atto negli anni Settanta – poteva portare avanti con la sua proverbiale elegante semplicità questo geniale ribaltamento dei (neonati, allora) paradigmi consumistici: “Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è ‘comunismo’, come credono i miei rozzi obiettori di destra. Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. (…) Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita” (Il rimedio è la povertà, “Corriere della Sera”, 30 giugno 1974, pubblicato in Dobbiamo disobbedire, Adelphi 2013, pp. 18-19 art integrale qui).
In questa differenza sostanziale tra povertà e miseria si gioca ancora oggi gran parte della questione italiana: urge una nozione nuovamente impegnativa e audace della nostra identità collettiva, da contrapporre all’insopportabile arrendevolezza e passività che ci circonda; una nozione in grado di riscoprire l’“educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita”.
Del resto, se ci pensiamo, anche il meglio del design italiano del dopoguerra si fondava sull’estrema scarsità delle risorse, e sul loro impiego efficiente e creativo. Nel territorio dell’innovazione industriale, infatti, i limiti oggettivi imposti dalle condizioni dello sviluppo nazionale rappresentarono dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale il contesto in cui videro la luce nuovi oggetti, semplici e complessi: nacque così la Vespa (1946), commissionata da Enrico Piaggio all’ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio e destinata a divenire uno dei veicoli di maggior successo, al tempo stesso maneggevole, economica e sofisticata. O la Lexicon 80 (1948) della Olivetti, disegnata da Marcello Nizzoli, con la sua scocca apribile in metallo di colore beige, dalla forma sinuosa e compatta. Oppure, la macchina per il caffè espresso Modello 47 (1949), disegnata da Gio Ponti per La Pavoni e soprannominata per la sua forma “la Cornuta”, la prima macchina da caffè a caldaia orizzontale, essenziale e interamente realizzata in ottone cromato.
Lo stesso neorealismo consiste principalmente nella ricostruzione di uno sguardo culturale sulla realtà condotta a partire dalla mancanza di tutto: una ridefinizione radicale della prospettiva attraverso cui gli italiani percepiscono il mondo che li circonda, e se stessi; una rinascita del cinema – e della letteratura – come “campo di contraddizioni” (Gian Piero Brunetta). Nell’immediato dopoguerra, l’Italia riuscì quindi a ricostruire una forma alta ed efficace di consapevolezza guardando la propria realtà tragica, non certo continuando a negarla e a rifiutare di considerarla per quello che era: il suo ‘grado zero’ non era solo un’ipotesi, ma la situazione concreta in cui era piombata la collettività.
Nei nostri momenti migliori, il pensiero culturale riesce a riconoscere nella massima chiusura di orizzonti, nella negazione di ogni possibilità, il momento in cui altri orizzonti si schiudono. È capace così di generare un immaginario che prima non esisteva nella percezione comune: si infila in un interstizio della realtà perché lo crea.
Bando dunque a qualsiasi “grande bellezza”: questo tipo di retorica condensa molto probabilmente tutta la nostra tendenza a interpretare la cultura in chiave esclusivamente consolatoria, autocelebrativa e autoassolutoria. La bellezza, la cornice interpretativa della bellezza, è di fatto uno dei motivi che ci sta impedendo di accedere al nuovo. Costruire cose piccole, ingegnose, resistenti e ben fatte, e attraverso queste costruire una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio, oltre la stupidità e l’ignoranza e la miseria e la sconfitta: la povertà, intesa in questo modo, è stata ed è in grado di dare forma all’Italia del futuro.
Fonte: www.minimaetmoralia.it/
Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/perche-la-poverta-salvera-litalia/
21.09.2015
Questo pezzo è uscito su Linkiesta.
Era anche mia questa idea della povertà, poi ho capito alcune cose che mi hanno stravolto il quadro. La prima è l’evidente distanza concettuale tra l’intento dei padri, quello di rifondare una identità culturale autonoma anche con i gesti piccoli e grandi e in un contesto che da miserabile doveva diventare desiderabile. I padri, nel bene o nel male, della Italia del primo dopoguerra, credevano in quello che facevano, avevano ideali spesso in violento contrasto con la società, univano senza soluzione di continuità la lotta ideale con quella materiale quotidiana.
Già dopo gli anni ’60 però le cose sono cambiate: la società è diventata lentamente ma inesorabilmente di consumisti e quindi senza la "misura del minimo". "Happy Days" mostrava come la bellezza dell’eccesso era un compedio perfetto per il desiderabile cittadino medio. Se qualcuno non ci ha fatto caso, di quella serie non vediamo mai un opera di lavoro (a parte forse il "meccanico Fonzie"?!) dalla prima all’ultima scena pare che da quelle parti si passi il tempo nell’eterno divertimento fine a se stesso condito con qualche litigata che però immacabilmente si risolve da sé e per la felicità di tutti. La famiglia "Happy Days" vive d’aria, anche non allegoricamente dato che sta solo dentro la TV.
Quel modello, principalmente creato per riformattare il design della cultura dell’epoca, usando per leva la famiglia media borghese è l’anticipatore dei primi reality moderni, entra nei salotti delle case e nelle menti dei proprietari per dirci come ci si comporta, qual’è "il bene" a cui attenersi.
Oggi siamo pieni di ninnoli, come computer, cellulari e altro che spesso non notiamo se non distrattamente, come la pubblicità dei pannelli elettronici luminosi stradali, o la TV nelle metropolitane, elementi che sono destinati a dominare il prossimo futuro.
Pensare di poter diporre di uno spazio dove abita la ragione della parsimonia quando ci viene sbatutto in faccia continuamente con palazzi di cristallo colossali quanto inutili di potere e sfarzo senza limiti la nostra indecente limitatezza, non è possibile per il grande pubblico, troppo esposto ai borbardamenti mentali costanti che tendono a renderlo succube.
Funzionava con i templi in egitto, funziona oggi con i palazzi del Governo in ogni angolo del mondo, e in aggiunta potenziata dalle promesse di una tecnologia superbamente fascinosa che promette di risolvere tutto, persino i guai che essa stessa combina. Come una puttana che ti promette notti di follia indimenticabili ogni volta che vuoi, salvo poi attaccarti la sifilide, il tifo e una dozzina d’altre schifezze che però, ha sempre modo di farti dimenticare la volta successiva.
Non ci salverà la povertà, come non salva il Messico, come non salva l’Egitto, come non salva mille altri luoghi del mondo sempre più disastrati e dove l’unica cosa che si ottiene, oltre a un Governo più inguardabile dell’altro è una corsa emorragica del senso critico in peggioramento della gente inerme, una ignoranza dilagante, prepotente, sempre più ottusa e incrostata di dolore e di paura.
Ci può consolare solo non è noi il peggio. Noi siamo solo tra i carri delle avanguardie.
Il peggio sarà per chi pensa di stare al riparo da tutti questo, solo perché sta in posizione relativamente migliore su questo trabicolo di caotica follia globalista.
Qualcuno ha detto che la felicita consiste nel desiderare le cose che si hanno.
Anche Mida che trasforma tutto in oro è l’esempio lampante di "che dolcezza vuoi che senta chi ha sete tuttavia". Un mio amico ha una fiat 128, acquistata nuova credo nei primi anni 70, è felice di averla e l’idea di sostituirla con una moderna tdi piena di congegni elettronici non lo ha mai sfiorato, anzi considera folli coloro che cambiano auto ogni dieci anni. Ha torto?
Si certamente: esattamente come la pensano chi sta demolendo il sistema ITALIA.
POVERTA’ SIGNIFICA CHE QUANDO NON HAI I SOLDI NON MANGI, FAI IL GIRO DEI CASSONETTI.
POVERTA’ SIGNIFICA CHE QUANDO NON HAI I SOLDI TI PROSTITUISCI PERCHE’ HAI FAME.
Un vecchio detto dice che CHI E’ SAZIO NON CREDE A CHI HA FAME.
Evidendemente l’articolista la miseria non l’ha mai conosciuta.
Prima di dare un giudizio sull’articolo mi piacerebbe sapere quale sia il reddito dell’articolista, quali le sue proprietà e le eventuali rendite, conto in banca ecc.
Questa distinzione tra miseria e povertà era molto cara a padre David Maria Turoldo, che raccomandava di combattere la miseria avendo, al contempo, cura di non eliminare la povertà.
Condivido in pieno. Dalla miseria nasce solo miseria e anche qualcosa di peggio visto che la gente deve combattere per sopravvivere.
Da un prete non si poteva pretendere di meglio… Pfui.
articolo assai poco onesto… tutto questo avrebbe un senso.. se la povertà intesa come frugalità fosse per tutti e non come stanno realizzando: una massa di poveri DERUBATI DA UNA MASSA DI SCIAGURATE CAVALLETTE che fingono di amministrare e governare… dai su..che non ci si frega nessuno co ste fuffe al cubo!!!
Chissà chi pagava le bollette del citato padre. O chi gli provvedeva un letto, dei pasti caldi, un ricambio d’abiti decente…
I predicatori vanno giudicati dal pulpito da cui sentenziano verità che non conoscono che dai libri e dalle meditazioni a tempo perso ma a pancia piena e letto caldo.
La misura della diversa povertà di ieri rispetto a quella di oggi.
Ieri, dopo la guerra, la sfida era portare corrente elettrica, acqua potabile e riscaldamento in ogni parte del paese, di garantire a tutti quel minimo necessario per accdere almeno al primo gradino della scala di Maslow: quello del tetto, del caldo, della salute.
Oggi, la sfida è riuscire a pagare in tempo una bolletta, perché già un ritado di pagamento di 5 gg ti fa scivolare per l’azienda fornitrice nella categoria di "utente a rischio insolvenza".
M’è capitato di scoprirlo giusto ieri: dovendo aprire una nuova utenza del gas, per la necessità di cambiare casa, allo sportello, dopo un’attesa interminabile, mi è stato comunicato che devo attendere perché un paio di pagamenti ritardati (di qualche giorno ma tutti saldati senza mai un sollecito), mi aveva fatto scivolare in una delle categorie di rischio. Così, prima di avere l’ok a una nuova apertura utenza, devo attendere che il centro prevenzione insoluti mi dia il via.
In sostanza, la povertà di oggi mina quel primo gradino di Maslow basandosi sulle presunzioni e sul potenziale rischio di non incassare entro la scadenza prevista.
Senza gas, niente acqua calda, niente riscaldamento, niente cottura cibo.
Sarebbe interessante capire come avrebbe vissuto questo il borghese Parise o come lo vivrebbe il (forse) altrettanto borghese autore del pezzo postato.
Puniscono ormai anche solo l’ipoteso di non poterti usare come cassa continua: la sola difficoltà di arrivare a pagare una bolletta ti mette fuori dall’accesso a quei servizi essenziali senza i quali non parliamo più di povertà, ma di vita miserabile.
Essere poveri oggi non è poetico, è una condanna all’esilio dalla società civile.
Era nato poverissimo, dai suoi ricordi d’infanzia ha scritto un libro "Io non ero un fanciullo", e tratto un film, "Gli ultimi":
Ballata del pellegrino
Andiamo di primo mattino
usciamo dalla notte
lavate le mani e il cuore
e sul volto riflessa la gloria
della sua Schekinah (manifestazione)!
Andiamo senza turbare
la luce che sorge e il canto
degli uccelli lungo la via.
Andiamo col passo del Pellegrino,
nel sacco appena un tozzo di pane
che inzupperemo all’acqua di fonte
sull’altipiano: la necessaria
eucaristia di Natura
avanti di assiderci a sera
per l’ultima Cena.
E come usavano gli antichi oranti
dal “Tetto del mondo”, ognuno
appenda al proprio bastone
il velo della sua sospirata preghiera
e il vento la porti
nella direzione che vuole.
Andiamo leggeri, prodigiosa-
mente leggeri,
per non offender la terra,
e nulla alteri il ritmo
del misurato respiro.
E con l’alito appena
a bolle di luce diciamo
”Gesù, figlio di Dio”
”abbi pietà di noi”
perché tutta la terra
sia irrorata dalla
infinita pietà.
Tutte le ferite fasciate
sozzure e immondizie
bruciate nella Geenna,
colmate
tutte le solitudini.
O anche senza a nulla pensare,
lasciare libero Iddio
che usi grazia
cole a Lui piace:
perché noi non sappiamo,
non sappiamo!
E’ già grazia
essere amati, e più ancora
lasciarsi amare; e scendere
al centro del cuore
e portare la veste nuziale
e tornare all’innocenza premeva,
tornare ad essere in pace.
Ricondurre la mente
al centro del cuore dove
finalmente celebrare l’incontro:
poiché là Egli innalza
la sua preferita dimora
la tenda dei suoi ozi,
per i giochi d’amore.
E fare del corpo
il castello
delle nozze!
Amen.
Grazie, molto bella…
Non dubito delle buone intenzioni e forse un tempo la povertà aveva nel seminario una via di riscatto, spesso un obbligo di sopravvivenza per le famiglie numerose.
Cosa direbbe, cosa penserebbe oggi quest’uomo?
Ciò che è forse difficile da comprendere oggi, per tutti, me compresa, è che la povertà di molti oggi non è la conseguenza di una guerra né la conseguenza di una vita disordinata e dissoluta né una condizione sociale difficile della famiglia, come fin qui spesso è stato.
Oggi la povertà è un’operazione violenta proprio perché indotta da precise scelte di impoverimento di tutta una popolazione che finisce per trovarsi prima senza lavoro, poi senza speranza e alla fine ricattata e condotta allo schiavismo in cambio del pane e di un tetto.
Nemmeno una guerra ha mai depredato così tanto i popoli senza nemmeno ucciderli, lasciando loro anche l’incombenza di provvedere da sé così da lavarsene coscienza e mani
Ho letto il tuo intervento, e sono d’accordo con quanto dici.
come mai chi parla di queste cose, mediamente è una persona agiata????
Il desiderio di tutti i ricchi è proprio quello che tutti i poveri si accontentino della miseria senza rompere le scatole .
Il loro obbiettivo è quello creare una massa di schiavi felici di esserlo .
E quando leggo articoli come questo mi rendo conto su come ci stiano riuscendo alla grande .
Non credo di aver mai letto una tale montagna di assurdità in vita mia.
Andasse a chiederlo ad un povero, che cosa significa vivere in miseria, visto che lui non lo sa.
Le idiozie del sig. Caliandro e del sig. Parise non cambiano il fatto fondamentale che se la povertà esiste è perché altri hanno più, molto più del necessario.
L’apologia della povertà è un’invenzione dei ricchi (tra le cui fila molto spesso troviamo trafficanti, evasori, mafiosi, politici corrotti e imprenditori corruttori) per giustificare le loro nefandezze.
L’autore fa riferimento ad un articolo del 30 giugno 1974 di Goffredo Parise.
-" Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto ……."
"Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. ……… I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. …… L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo."
Ed ecco il senso di concetto di povertà espresso da Parise
"La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità
. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona……."
Quindi nulla a che vedere con la DEPLOREVOLE SCHIAVITU’ cui siamo arrivati in questi ultimi 40 anni volutamente pilotati tramite i MERCATI!!!!!
La POVERTA’ come strumento culturale contrapposto alla mancanza di un paese( l’Italia ) della capacità di distinzione e di educazione elementare delle cose l’ITALIA che fu un paese agricolo e artigiano e quindi COLTO.
La povertà come strumento contrapposto al consumismo che distrugge e ha distrutto l’AGRICOLTURA e l’ARTIGIANATO , la FANTASIA LAVORATIVA che era fonte di ricchezza culturale
La povertà intesa come capacità di non sentirsi ricchi perchè consumatori.
E’ un concetto di POVERTA’ come strumento CULTURALE contrapposto al CONSUMISMO.
OGGI siamo schiavi non poveri, massificati, non poveri, e gli strumenti con cui opera il progetto di schiavizzazione sono così sottili da impedire anche la più minima reazione proprio per la mancanza di cultura AGRICOLA, ARTIGIANALE tolta la quale MUORE la Fantasia, la CREATIVITA’.
Quanti di noi sanno cucirsi un vestito
Quanti di noi sanno dalla lana di una pecora costruirsi una scarpa
Quanti di noi sanno realizzarsi un cesto
Quanti di noi sanno mungere il latte da una mucca
Quanti di noi sanno prodursi l’olio dai propri alberi
quanti di noi sanno seminare, far crescere, raccogliersi, macinarsi il grano per il proprio PANE
QUESTA FU CONSIDERATA POVERTA’
QUESTA ERA VERA RICCHEZZA
Quindi è fuori dal concetto di povertà espresso da Parise questa sorta di riferimento che il nostro autore ha pretese di accostare allo stesso.
Questo mondo che descrivi è morto due secoli e mezzo fa quando è partita la rivoluzione industriale.
il punto non è questo, il punto è che il consumismo E’ ciò che l’élite usa per controllare la massa come uno spacciatore coi suoi clienti. Finchè non ti liberi da questa cultura il sistema è al sicuro, è inutile che chiedi più droga a prezzi più bassi, è inutile chiedere la dose minima garantita, non sei e non sarai mai libero finchè non riesci ad essere diverso da come ti hanno programmato.
L’Italia si sta impoverendo ma quì il discorso non è morire di fame, almeno per ora!
ho pagato raramente le bollette in tempo e ho subito diversi distacchi di luce e gas ma non ho mai problemi ad aprire una nuova utenza anzi le compagnie mi si contendono come un trofeo.. altro che condanna, se la società è incivile l’esilio è salvezza, siamo noi miserabili che ci piangiamo tanto addosso ma non riusciamo ad essere diversi da come ci vogliono.
non credo proprio hamelin.. al contrario è il desiderio di consumo a spingere il povero a lavorare per il ricco rendendolo tale. Il ricco è ricco, la sua forza è che il povero si misuri sul suo territtorio, la capacità di spesa.
l’autonomia, l’indipendenza e la conoscenza non servono a niente.. non resta che sperare in babbo natale e la sua bontà così che ogni povero stolter abbia i soldi per comprare quel che vuole, sempre sperando che babbo natale doni i soldi a stolter ma non a chi produce a stipendi da fame ciò che stolter desidera tanto, altrimenti il povero stolter non potrà più permetterselo e dovrà affaticarsi appresso a cose grette e meschine come l’autonimia, l’indipendenza e la conoscenza
non voglio resuscitare nulla, so che la schiavitù del consumismo ha preso tutti.
naturalmente questo commento si riferiva a Stodler, che invito a leggere bene quanto scritto prima là dove dico che OGGI non siamo POVERI, ma schiavi.
grazie
Ma per carità, la tecnica ha completamente cambiato le regole del gioco ed è appunto un altro gioco che bisogna affrontare.
Non si può pensare di disgiungere la povertà dalla cultura che ne era pervasa di grette meschinità, fame e ben poca solidarietà.
Questi Parise prima e Caliandro poi sono gli esempi di ideologia da eradicare.
Concordo con questa visione. Ma più che la povertà sarà l’autosufficienza a salvare l’Italia. L’autosufficienza, e’ soprattutto coscienza di cio’ che necessita prima per sopravvivere e poi per vivere. E’ grande la volontà di celare questi dati, sarebbero l’inizio della fine di molti sprechi e arricchimenti indebiti. Per un esame di sociologia studiai il testo " Comunità come bisogno" di Ulderico Bernardi e mi continua a influenzare la sua analisi perfetta sul cosmo rurale autosufficiente pronto ai cambiamenti e funzionante nei sui ritmi umani e naturali, a mio avviso nucleo portante di ogni società anche la più complessa. La scissione che ci ha portati dall’ autosufficienza alla dipendenza ha fatto leva sulla pigrizia fisica e sulla mediocrità intellettuale , debolezze umane da correggere e non da esaltare con l’imbonimento: antico e moderno reato da punire . Ora, a comunità disgregata, le forze fisiche impossibili da assopire, e le forze mentali ed emotive forse piu’ allertate che nel passato, girano a vuoto in assenza di contenuti. Palestre, animali domestici, social network ne sono espressione. Esse creano non poca preoccupazione in chi continua a credere in un’umanità assopita e alla mercè di un consumismo ormai indecente e insostenibile. E’ solo questione di tempo,ma certe decisioni possono raccorciarlo. Quella del Governo francese e i 25cent al chilometro in bici ne è un bell’esempio.
qui, dove io vivo a fare legna nel bosco, beata me!
Non cambio casa spesso, e non mi capitava di dover aprire una nuova utenza da parecchi anni.
Quindi la cosa, cioè l’aver scoperto in questa occasione di esser finita in una categoria di rischio per ritardati pagamenti, è stata una sorpresa (seccantissima, visto che devo attendere un ok dalla sede di Milano della società del gas per sapere se mi apriranno il contatore nuovo).
Non so quante nuove utenze ti sei trovato ad aprire tu negli ultimi due anni, perché il cambio di valutazione e trattamento clienti è abbastanza recente ma riguarda ormai tutte le utilities e tutte le compagnie telefoniche: un ritardo di pagamento di pochi giorni e sei sul libro nero.
Solo che non lo sai finché, appunto, non apri nuove utenze.
Che poi si sia tutti corteggiati per cambiare fornitore non c’entra nulla: prova ad accettare un nuovo contratto e vedi se poi va davvero a buon fine senza problemi.
O forse la Spa con cui ho l’utenza del gas io è la più pestifera di tutte: può essere, ma così è: bloccato il contratto, già sottoscritto, in attesa che Milano dia l’ok all’attivazione contatore.
Di più o di altro non ti so dire…