DI MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
Non sono per niente d’accordo con l’articolo (*) di Marco Travaglio (22/9) in cui il vicedirettore del Fatto ritiene ingiusto, e quasi obbrobrioso, che il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, rischi di scontare un anno e due mesi di carcere in seguito a una condanna che la Corte d’appello di Milano gli ha inflitto per aver diffamato, su Libero, un giudice tutelare di Torino. Si tratta di una difesa corporativa.
Noi giornalisti siamo una corporazione, attenti, come ogni altra corporazione, a mantenere i nostri privilegi (in oltre sessant’anni di vita repubblicana un solo giornalista, che io ricordi, ha scontato effettivamente il carcere: Giovannino Guareschi che aveva diffamato il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi).A differenza di Travaglio io considero Sallusti un ottimo professionista, lo stimo come tale e ne sono ricambiato tant’è che più volte, e ancora pochi mesi fa, mi ha proposto di andare a lavorare per i giornali che dirige (ma io non posso, non ho la disinvoltura dei Santoro e dei D’Alema).
Ma qui non è in discussione se Sallusti sia o meno un ottimo collega, sono in gioco questioni di principio come dice lo stesso Travaglio (“ciò che conta è il principio”). E questa volta Travaglio, in genere così lucido e incisivo, si ingarbuglia in un articolo insolitamente faticoso e contorto.
Prima scrive che il carcere dovrebbe essere riservato ai delitti dolosi, poi che “in tutti i Paesi civili nessun giornalista può rischiare in prima battuta il carcere per quello che scrive… neanche se è intenzionalmente diffamatorio”. Il diffamato, secondo Travaglio, dovrebbe accontentarsi della rettifica, solo se questa non c’è potrebbe adire le vie legali, penali e civili.
Il fatto è che il nostro Codice penale non fa distinzione fra diffamazione dolosa e colposa e non prevede che la rettifica sia esaustiva. Se la Cassazione confermerà la sentenza della Corte d’appello Sallusti deve andare in carcere, come qualunque altro cittadino che sia nelle sue stesse condizioni. Che la legge debba essere “uguale per tutti” è proprio una battaglia del Fatto, quasi la sua ragione sociale, e non possiamo sconfessarla perché oggi nei guai è un nostro collega, simpatico o antipatico che sia. Noi giornalisti non siamo cittadini speciali, killer con la “licenza di uccidere” come gli agenti della Cia.
Dobbiamo rispondere di ciò che scriviamo. Io, che ho qualche anno più di Travaglio, ho assistito a troppi massacri perpetrati dalla stampa, con conseguenze tragiche, prima che “lorsignori”, con Mani Pulite, scoprissero improvvisamente, e del tutto strumentalmente, il “garantismo”. Cito, per tutte, la vicenda, del 1969, di Adolfo Meciani, implicato nel “caso Lavorini”, che si uccise, innocente, in carcere impiccandosi a un lenzuolo. Un autentico omicidio di stampa. Questo de iure condito come suol dirsi. De iure condendo si possono e si debbono fare delle riforme sulla questione della diffamazione a mezzo stampa.
1) Un tempo, quando le persone avevano più a cuore il proprio onore che i quattrini, si querelava “con ampia facoltà di prova”. Se il giornalista dimostrava di aver scritto il vero era a posto. La “facoltà di prova” dovrebbe essere resa obbligatoria in ogni procedimento penale per diffamazione.
2) Dovrebbero essere inibite le azioni civili di danno prima della querela penale. Perché nell’azione civile quel che conta, più della verità dei fatti, è il danno e anche un ladro può essere danneggiato se viene definito ladro “in termini non continenti”. La definizione è talmente generica e vaga che il giornalista viaggia col freno a mano tirato. Se io attraverso col rosso so di aver commesso un’infrazione. Se uccido un uomo so che è un omicidio. Ma quali sono i termini non continenti?
3) Ha ragione Travaglio quando scrive che i politici inondano i giornalisti con azioni penali e civili per diffamazione con richieste milionarie di risarcimento che sono chiaramente intimidatorie. Se un presunto diffamato perde la causa dovrebbe essere obbligato a pagare una penale proporzionata alla sua richiesta. Così ci penserebbe due volte. Il corporativismo dei giornalisti è anche una delle cause per cui non si riesce a risolvere l’annosa questione delle intercettazioni.
Qui sono in gioco tre interessi contrastanti.
1) L’interesse all’efficacia delle indagini e quindi a una efficiente amministrazione della Giustizia.
2) L’interesse del cittadino, coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento pena-le, a non veder lesa anzitempo la propria reputazione.
3) L’interesse del giornalista a informare e, soprattutto, quello della comunità a essere informata. Sappiamo benissimo che i berlusconiani (e non solo loro) vorrebbero limitare al massimo le intercettazioni perché hanno la coda di paglia. Non è questa la strada. Oggi per i reati associativi, soprattutto quelli finanziari, in una società complessa come l’attuale, le intercettazioni, telefoniche e ambientali, sono uno strumento indispensabile e la magistratura deve poterlo utilizzare, anche a tappeto.
Degli altri due interessi in gioco, nella fase istruttoria deve prevalere quello della difesa dell’onorabilità delle persone, perché nella fase delle indagini preliminari, inevitabilmente incerta, a tentoni, possono essere coinvolte, con dettagli scabrosi sulla loro vita privata ma del tutto irrilevanti, persone che risulteranno poi estranee al procedimento in corso e che hanno il sacrosanto diritto alla tutela della loro privacy.
Al dibattimento il discorso si capovolge: l’interesse della comunità a essere informata prevale su quello della tutela dell’onorabilità degli indagati e anche dei comprimari, perché in quella fase arrivano solo i materiali effettivamente utili al processo. Questo (istruttoria segreta, dibattimento pubblico) era il sistema del Codice penale di Alfredo Rocco che sarà stato anche un fascista, ma era un giurista di primissimo ordine. Oggi siamo in mano a dei dilettanti allo sbaraglio e, quasi sempre, anche in malafede.
Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
25.09.2012
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