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PER UN NUOVO ACROMATISMO RIVOLUZIONARIO

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A cura di Davide
Il 15 Febbraio 2011
57 Views

DI GIANLUCA FREDA
blogghete.altervista.org

Attendiamo, con serena rassegnazione, qualche notizia in più sul sequel della “rivoluzione verde” in Iran. Al momento in cui scrivo, non si è ancora ben capito – tanto per cambiare – quanta parte delle notizie che arrivano sui nostri media “da Teheran” corrisponda al vero, quanta sia frutto di esagerazioni, quanta ancora sia pura invenzione e creazione dei cialtroneschi corrispondenti occidentali. Una categoria, quest’ultima, che le autorità iraniane dovrebbero imparare al più presto a neutralizzare, possibilmente con la massima durezza, riservando anche a loro qualche metro delle corde di canapa già utilizzate come degna cravatta per molti dei traditori della nazione che fomentarono e sostennero le rivolte nel 2009. Il pochissimo che si è visto finora in Tv e sul web lascia sperare che il governo dell’Iran riesca a resistere anche a questo secondo assalto del manipolo di guastatori finanziati da Soros e dalle ONG americane. I TG italiani hanno mostrato, col titolo altisonante di “rivolta a Teheran”, un paio di scazzottate sulla pubblica piazza dai fotogrammi saltellanti; dal solito Twitter arrivano fotografie con didascalie grottesche, che definiscono “caos nella capitale” l’immagine di un gruppo di persone assiepate su un marciapiede, le quali sembrerebbero in attesa del tram, più che di un glorioso e rivoluzionario rivolgimento democratico del destino. Vedremo. In ogni caso, l’esito di queste operazioni di rovesciamento dei governi per mezzo di masse di babbei accuratamente manipolate, non dipende, com’è ovvio, da ciò che i babbei possono fare o non fare. Dipende invece dalla capacità dei finanziatori e organizzatori delle kermesse di progettare una gestione politica alternativa, stringendo accordi con i poteri che contano davvero all’interno di una nazione: l’esercito, i servizi segreti, gli apparati finanziari e industriali, esattamente com’è avvenuto in Egitto. Per ora si ha comunque l’impressione assai netta che i media occidentali, come al solito, stiano cercando di aizzare e provocare la rivolta in Iran molto più di quanto cerchino di descriverla. Mohammad Reza Naghdi, comandante delle milizie Basij iraniane, sembra consapevole di quanto sta per accadere. Ha dichiarato: “Le agenzie d’intelligence occidentale stanno cercando una persona mentalmente disturbata che si dia fuoco a Teheran per scatenare eventi simili a quelli verificatisi in Egitto e in Tunisia. Ma sono loro i ritardati se credono che imitando azioni del genere possano emergere vittoriosi”. Gli auguro di avere ragione.

Nel frattempo, potrà essere utile per il futuro – anche quello che riguarda direttamente il nostro paese – fare un bilancio provvisorio delle recenti “rivoluzioni” in Egitto e Tunisia, allo scopo di scoprire quanto possa essere davvero vantaggiosa per un popolo una sollevazione organizzata su input altrui, senza la minima comprensione dei progetti geostrategici che presiedono al rivolgimento politico delle nazioni e avente per obiettivo la defenestrazione non dei veri aguzzini, ma dei loro fantocci, prontamente sostituiti con altri fantocci più crudeli e più servili dei precedenti verso i reali padroni. Dubito che i mascalzoni che ieri l’altro strepitavano “se non ora, quack!” insieme alle oche di Piazza del Popolo possano trarne qualche insegnamento, inebetiti come sono dall’ebbrezza dell’ideologia; ma non è certo a loro che mi rivolgo, bensì a tutti gli altri, quelli che sanno ragionare sul mondo come è, anziché sulla sua versione arcade per Nintendo.

L’esito attuale della rivolta in Tunisia è ben descritto in questo articolo della Montreal Gazette, che sintetizza molti altri simili resoconti della stampa occidentale; la quale ha adottato toni un po’ più sinceri e spudorati e un po’ meno retoricamente risorgimentali dopo che, con la rimozione di Ben Ali, gli obiettivi destabilizzanti della rivoluzione gelsominica sono stati stabilmente raggiunti.

 

“Viviamo nel terrore”, racconta una signora di Entilaka, sobborgo alla periferia di Tunisi. “I nostri bambini non possono più andare a scuola. Non riusciamo a dormire la notte, ci sono una quantità di furti e di saccheggi”. Intere cittadine come Kasserine e Kef, spiega l’articolo, sono alla mercé delle ruberie e delle violenze del glorioso popolo rivoluzionario, che distrugge e depreda negozi ed edifici pubblici. E questo in cambio di cosa? Ce lo spiega l’improvvisamente illuminato Mustapha Ben Jaafar, leader del Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà (FDTL), una delle tante organizzazioni fondate sull’ideologia dei “diritti umani” e sulle belle parole che gli USA hanno finanziato per creare il caos in Tunisia. “Non c’è una reale volontà politica di rompere con il passato. Le decisioni del nuovo governo sono arrivate con un ritardo che ha messo in dubbio la sua legittimità e ha provocato una crisi di fiducia”. Gli fa eco Moncef Marzouki, membro fondatore del Comitato Nazionale per la Difesa dei Prigionieri di Coscienza, appena tornato dall’esilio e attualmente aspirante alla presidenza: “I vecchi boss sono ancora dietro le quinte”, dichiara, folgorato da un attacco tardivo di comprendonio. I tunisini stanno per imparare che esiste qualcosa di peggio di un dittatore finanziato dallo straniero per mantenere l’ordine pubblico con il pugno di ferro: e cioè un dittatore finanziato dallo straniero per mantenere il paese nel caos con il pugno di ferro, affinché la debolezza politica ed economica ponga le strutture politiche ed economiche alla totale mercé dei dominanti.

Per un Ben Jafaar e un Marzouki che vedono la luce, ci sono comunque migliaia di utili idioti che smanettano felici sulla loro playstation cerebrale. “La paura è sparita, ora mi sento un uomo libero. Per 30 anni non abbiamo avuto il diritto di esprimerci”, esulta un bazariota 43enne di nome Mohamed Neji. Se l’assenza di ordine pubblico e la caduta libera dell’economia gli consentiranno di arrivare ai 44 anni, Mohamed Neji avrà modo di comprendere a fondo il senso della celebrata “libertà d’espressione” occidentale, in cui ciascuno è libero di esprimersi come vuole, tanto nessuno lo sta a sentire. Molti suoi saggi compatrioti hanno preferito fuggire a gambe levate dalla Tunisia “liberata” dalla rivoluzione CIA-NED e affollano in questo momento le coste di Lampedusa. A guardare l’andamento del mercato azionario tunisino post-gelsominico (vedi figura) è difficile dar loro torto.

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Qualcosa di molto simile si può dire per l’esito della rivoluzione egiziana. Di Mubarak sono state doverosamente ricordate tutte le nefandezze compiute in un trentennio: la sua politica filo-israeliana, la segregazione dei palestinesi, la corruzione, la dipendenza dai finanziamenti USA, gli accordi con i servizi segreti occidentali per la tortura e la sparizione dei prigionieri sospettati di “attività terroristiche”. Tutto vero. Siccome però la completezza non fa mai male, ricordiamo anche quel poco di utile che egli ha fatto per l’Egitto: ha garantito per 30 anni l’ordine pubblico, il quale ha a sua volta garantito la pacifica convivenza di molteplici gruppi religiosi all’interno dello stesso paese; ha garantito la stabilità politica, la quale ha assicurato – per quante balle possano raccontare i media nostrani – un tenore di vita mediamente decoroso alla popolazione. Lo spiega, cifre alla mano, questo articolo di Keith Marsden. La storia che il 40% degli egiziani viva “con meno di un dollaro al giorno”, ampiamente propagandata dai media occidentali, è una stronzata, seppure passibile di trasformarsi in dura realtà nel prossimo sfolgorante futuro postrivoluzionario. In realtà, le cifre della Banca Mondiale dicono che meno del 2% degli egiziani viveva nel 2005 (ultimi dati disponibili) con meno di 1.25 dollari al giorno. In altri paesi, tale percentuale è molto più alta (in India è del 41,6%, in Sudafrica del 26,2%, in Pakistan del 22,6%, in Cina del 16,9%). Negli anni di Mubarak si è ridotta la forbice economica tra i ceti più ricchi e quelli più poveri; sono cresciuti i salari, è migliorata la qualità dell’alimentazione, è stata implementata l’assistenza sanitaria e l’aspettativa di vita è salita nel 2008 fino a 70 anni. Non dico tutto questo per difendere Mubarak. Lo dico per sottolineare che sbarazzarsi di un fantoccio per sostituirlo con un altro che ne possiede tutti i molti difetti, senza replicarne le poche qualità, può non essere un’idea felice. Suleiman, il nuovo presidente che ha agguantato il potere con l’appoggio israelo-americano, è pagato per devastare e dividere ciò che di integro e di unitario era rimasto nel paese. Ha già iniziato a strillare i suoi allarmi sulla presenza di al-Qaeda nel Sinai; il che – considerato che Suleiman, in quanto ex capo dei servizi di sicurezza egiziani, sa benissimo cosa è al-Qaeda, a cosa serve e da chi è realmente finanziata e controllata – prelude probabilmente ad un lungo periodo di attentati “terroristici” contro le minoranze religiose, che divideranno il paese in una molteplicità di fazioni, aprendo la porta ad un intervento “difensivo” israeliano nella penisola del Sinai, snodo fondamentale dei progetti strategici israelo-americani. Con l’avvento di Suleiman, temo che anche gli egiziani avranno tempo e modo di sperimentare l’”effetto Saddam”, simile, per molti versi all’”effetto Ceaucescu” rumeno e al nostrano “effetto Craxi”: e cioè di rimpiangere amaramente, come una perduta età dell’oro, i decenni trascorsi sotto il tallone di governanti illiberali e corrotti, ma ancora dotati di un barlume di spirito nazionalistico capace di assicurare un minimo di stabilità economica e di coesione culturale e politica al proprio paese.

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Per ricordare al colto e all’inclita chi sia realmente Omar Suleiman, innalzato gioiosamente ai vertici del potere egiziano dai muggiti del popolo bue in democratica rivolta, traduco di seguito qualche brano del libro La mia storia, scritto nel 2008 dal cittadino australiano di origine egiziana Mamdouh Habib (foto). Habib è uno dei tanti innocenti catturati in giro per il mondo dai servizi segreti Usa dopo l’11 settembre 2001 e poi spediti, con le “extraordinary renditions”, in Egitto per essere torturati e costretti a confessare reati di terrorismo a cui non avevano mai neppure lontanamente pensato. Nel libro racconta le sue esperienze di prigioniero innocente, finito nel buco nero delle carceri segrete e impossibilitato a difendersi. Parla anche del suo incontro con Omar Suleiman, attuale e futuro quisling dell’Egitto. Penso si tratti di una lettura istruttiva, più utile a comprendere la stupidità delle rivolte impulsive ed eterodirette di mille discorsi teorici sull’argomento.

pp. 112-115:

La guardia mi disse con concitazione che il grande boss in persona era venuto a parlare con me e che avrei dovuto comportarmi bene e cooperare. Tutti erano nervosi. Io a quel punto avevo già capito che il boss era Omar Suleiman, capo di tutta la sicurezza egiziana. Era noto per supervisionare personalmente gli interrogatori dei sospetti membri di al-Qaeda, inviando poi rapporti alla CIA. All’inizio, egli presenziò spesso ai miei interrogatori.  Forse pensava di aver catturato un pesce grosso dopo che australiani e americani mi avevano mandato da lui.

Ero seduto su una sedia, bendato, con le mani bloccate dietro la schiena dalle manette. Lui venne da me. La sua voce era roca e profonda. Mi parlò in egiziano e in inglese. Mi disse: “Ascolta, tu non sai chi sono, ma io sono quello che tiene la tua vita nelle sue mani. La vita di ogni persona in questo edificio è nelle mie mani. Sono io quello che decide”.

Io dissi: “Spero che la sua decisione sia di farmi morire immediatamente”.

“No, io non voglio che tu muoia adesso. Voglio che tu muoia lentamente”, proseguì. “Non posso più restare con te. Il mio tempo è troppo prezioso perché io resti qui. Devi solo desiderare che io ti salvi. Io sono il tuo salvatore. Devi raccontarmi tutto, se vuoi essere salvato. Che cosa rispondi?”.

“Non ho nulla da raccontarle”.

Non credi che io possa distruggerti in un attimo?”. Battè le mani.

“Non lo so”. Ero confuso. Tutto sembrava irreale.

“Se Dio in persona scendesse dal cielo e cercasse di prenderti per mano, io non glielo permetterei. Sei sotto il mio controllo. Permettimi di mostrarti qualcosa che ti convincerà”.

“Ora mi confesserai che stavi progettando un attacco terroristico”, insistè Suleiman.

“Non ho progettato nessun attacco”.

“Hai la mia parola che diventerai un uomo ricco se mi confesserai di aver progettato gli attacchi. Non ti fidi di me?”, domandò.

“Non mi fido di nessuno”, risposi.

Immediatamente mi colpì con violenza sul viso, facendo saltare via la benda; ora vedevo chiaramente la sua faccia.

“Basta! Basta! Non voglio più vedere quest’uomo fino a quando non si deciderà a cooperare e a confessare di aver progettato un attacco terroristico!”, urlò agli altri presenti nella stanza, poi uscì furibondo.

La guardia venne da me, indispettita per il mio rifiuto di cooperare.

Io gli dissi: “Presto dovrete lasciarmi andare; sono quasi passate 48 ore”.

Lui mi guardò con sorpresa e mi chiese: “Quanto tempo credi di essere rimasto qui?”.

“Un giorno”, risposi.

“Amico, sei qua dentro da più di una settimana”.

Poi mi condussero in un’altra stanza dove mi torturarono senza interruzione, denudandomi e infliggendomi scosse elettriche in ogni punto del corpo. La cosa successiva che ricordo è che mi trovavo di nuovo davanti al generale. Entrò nella mia stanza insieme ad un uomo che veniva dal Turkestan; era un uomo robusto, ma camminava piegato in avanti perché aveva le mani incatenate alle caviglie, il che gli impediva di stare eretto.

“Questo tizio non ci serve più. Ed è quello che succederà anche a te. Lo abbiamo interrogato per un’ora ed ecco che cosa lo aspetta”.

Improvvisamente, un tipo soprannominato Hamish, che significa “serpente”, colpì il poveretto alle spalle con un calcio spaventoso che lo mandò a sbattere dall’altra parte della stanza. Una guardia andò a scuoterlo, ma lui non rispose. Rivolgendosi al generale, la guardia disse: “Basha, credo che sia morto”.

“Buttatelo via. Lasciatelo ai cani”.

Trascinarono il cadavere fuori dalla stanza.

“Che ne pensi?”, mi domandò il generale, fissandomi in volto.

“Almeno adesso può riposare”, risposi.

Poi portarono dentro un altro uomo. Questo credo venisse dall’Europa: le sue urla di dolore non sembravano quelle di un mediorientale. Era in condizioni terribili. La guardia portò dentro un macchinario e iniziò a collegare i cavi a quel poveretto. Gli dissero che gli avrebbero inflitto una scossa elettrica della massima potenza, di livello dieci. Prima ancora che potessero accendere il macchinario, l’uomo iniziò ad ansimare e poi si abbattè sulla sedia. Credo che fosse morto per un attacco cardiaco.

Il generale disse che c’era un’altra persona che voleva farmi vedere. “Questa persona ti farà capire che possiamo tenerti qui per tutto il tempo che vogliamo, anche per tutta la vita, se lo riteniamo opportuno”.

Nella stanza c’era una finestra, coperta da una tenda. Il generale scostò la tenda e io vidi la metà superiore di un uomo molto magro e malato. Era seduto su una sedia dall’altra parte del vetro, di fronte a me.

“Lo conosci?”, mi domandò il generale.

“No”, risposi.

“Che strano. Eppure è un tuo amico dell’Australia”.

Guardai di nuovo e mi accorsi con orrore che era Mohammed Abbas, un uomo che avevo conosciuto in Australia e che lavorava per la Telstra [la compagnia di telecomunicazioni australiana]. Era partito per l’Egitto nel 1999 e nessuno lo aveva più visto da allora.

“Sarà il tuo vicino per il resto della tua vita”.

Fu in quel momento che compresi di essere in Egitto, senza alcun dubbio. Poi portarono via Abbas e richiusero la tenda.

p. 118:

Dopo il primo interrogatorio con Suleiman, mi convinsi che agli egiziani non interessava sapere dove ero stato realmente; volevano solo che confessassi di essere un terrorista e di aver progettato attentati, in modo da poter vendere queste informazioni agli Stati Uniti e all’Australia. Allora decisi che non avrei risposto a nessuna domanda, né spiegato nulla; ma a causa di ciò, in Egitto venni torturato con ferocia.

Agli egiziani, Maha [la moglie di Habib] non piaceva per niente. Un giorno sentii che Omar Suleiman diceva a qualcuno: “Mi piacerebbe molto far venire Maha qui”. Non ho idea di quando successe, ma il ricordo di queste poche parole è assai vivido nella mia mente. Fortunatamente, Suleiman non avrebbe mai potuto mettere le mani su Maha, perché lei è di origine libanese e cittadina australiana. Prima che venissi estradato dall’Egitto, Suleiman venne spesso a minacciarmi, dicendo che mi avrebbe riportato indietro se avessi detto qualcosa di negativo sugli egiziani.

Da quanto esposto fin qui si può ben capire per quale motivo io non voglia più sentir parlare di rivoluzioni del popolo, manifestazioni studentesche, adunate della “società civile”, proteste di piazza dei lavoratori, marce e raduni per i diritti della donna o degli omosessuali o dei gatti randagi ed altra simile paccottiglia. Il popolo (del quale io stesso faccio parte a pieno diritto) non possiede per il momento né le competenze, né la strategia, né la forza per porre in atto un sovvertimento politico consapevolmente gestito e organizzato. Può solo attuarlo per conto terzi, con sciagurata irragionevolezza, con grave danno dei propri interessi e pregiudizio del proprio futuro. Non comprende da solo gli obiettivi, ha bisogno di qualcuno che glieli indichi; e questo qualcuno è sempre un gruppo dirigente ristretto che sceglie i bersagli in funzione dei propri interessi e della propria strategia. Certo, nulla esclude la possibilità che tale elite possa nascere un giorno nel corpo stesso delle masse popolari; ma i risultati perniciosi e miserabili osservati in Egitto e Tunisia – e quelli altrettanto gravi cui assisteremo in Italia dopo la defenestrazione ormai prossima di Berlusconi – ci dicono che quel giorno è ancora molto lontano e che sono ben altre élite quelle che guidano in questo momento le masse vocianti.

Per poter gestire, una volta tanto per proprio vantaggio, una rivoluzione, i ceti popolari dovrebbero abbandonare le asce e imparare l’arte della semina; chiedersi cosa si vuole costruire, non chi bisogna abbattere; dare più retta al cervello che alla bile, domandandosi meno chi è il cattivo di turno e più chi sarà a sostituirlo una volta che sarà caduto.

Soprattutto, dovrebbe imparare a riconoscere i burattinai e a rivolgere la propria furia contro di loro, non contro i loro fantocci, che vengono fabbricati in serie e prontamente sostituiti da altri fantocci quando le necessità lo richiedono.

Lasciate perdere le piazze delle carampane strepitanti, dei sindacati al soldo del nemico, degli operai affamati, degli studenti cialtroni che prima di prendere a calci un bancomat si assicurano di non aver messo le Timberland buone. Dimenticatevi degli assalti ai parlamenti e ai palazzi del potere fasullo. Rivolgete invece le vostre armi contro le strutture che realmente vi opprimono, quelle invisibili, edificate a questo preciso scopo dagli occupanti del vostro paese. Assediate le ambasciate americane e israeliane. Distruggete le sedi delle organizzazioni di propaganda mediatiche e partitiche, che deviano dolosamente la lotta verso la tutela di fumosi “diritti umani”, stendendo il silenzio sulla rivendicazione di ben più concreti diritti economici, sociali, politici. Costringete alla fuga questi venditori di fumo. Assaltate le sedi dell’Unione Europea, pretendete che tutti i rappresentanti del FMI e della Banca Mondiale vengano cacciati dal territorio nazionale. Rifiutate e mettete a morte qualunque nuovo governante che intrattenga rapporti con loro o che prenda anche solo in vaga considerazione il proposito di ottemperare alle loro richieste. Scegliete leader spregiudicati – non necessariamente “onesti”: non è con la moralità che si fanno le rivoluzioni – che sappiano intrattenere relazioni solide con le potenze emergenti e con le sole istituzioni che realmente contano all’interno di qualsiasi paese, democratico o non democratico: e cioè l’esercito, i servizi segreti, i settori di punta dell’industria e dell’economia nazionale. Se farete questo, avrete una rivoluzione vera, ma vi avverto che sarà dura. Non ve la caverete con qualche decina di morti, non potrete tornare alla quiete delle vostre case quando i pupazzi statunitensi fuggiranno in esilio e nuovi fantocci vi prometteranno “riforme e democratiche elezioni”. Obama non avrà parole di apprezzamento per il vostro coraggio e la vostra impetuosa “sete di democrazia”. Le riforme e le elezioni dovrete farvele da voi, ed è questo il bello e contemporaneamente il difficile di tutta la faccenda. Si fa presto a buttare giù un burattino. I burattinai offrono assai maggiore resistenza.

Imparate a riconoscere una rivoluzione vera da una rivoluzione fasulla, dipinta dei colori dell’arcobaleno da imbonitori fraudolenti, che vogliono solo attirarvi nel padiglione dello spettacolo per dare un nuovo giro di chiave ai lucchetti delle vostre catene. Non è una cosa così difficile, in fondo. La rivoluzione vera è quella in cui i tiranni non applaudono la furia del popolo in armi fino a spellarsi le mani.

Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.altervista.org
Link: http://blogghete.altervista.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=774:gianluca-freda&catid=32:politica-internazionale&Itemid=47#comments
15.02.2011

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