''PER LORO TAGLIARE TESTE ERA NORMALE COME RESPIRARE''

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«Attorno a noi decapitati quattro ostaggi. Ci hanno detto: non tornate più»

Georges Malbrunot racconta i suoi 124 giorni nelle mani dei sequestratori in Iraq assieme al collega Christian Chesnot. Il giornalista del Figaro ieri ha detto di aver saputo dell’assassinio dell’italiano Enzo Baldoni il 18 settembre: «Un carceriere ci ha detto che un italiano, rapito contemporaneamente a noi, era stato poi ucciso perché era una spia. Quello che posso ora dire è che non era una spia, e che il poveretto ha pagato con la sua vita».

DI GEORGES MALBRUNOT

LA CATTURA – Siamo stati sequestrati venerdì 20 agosto, alle 8.50, sulla strada per Najaf, dove l’esercito americano aveva cinto d’assedio il mausoleo di Ali, rifugio di Moqtada Al Sadr e dei suoi miliziani. Avevo un pezzo da scrivere per la diretta di Rtl.
Telefono in redazione e chiedo di essere richiamato alle 8.55 ora di Bagdad per trasmettere il pezzo con il satellitare Thuraya. Il problema con i Thuraya è che occorre fermarsi. Ci fermiamo alle 8.55, scrivo il pezzo, e ripartiamo. Siamo intercettati circa quaranta minuti dopo. Suppongo ci abbiano localizzati nei cinque minuti in cui ho fatto il collegamento.
Alle 9.45 circa troviamo dei bambini su un ponte ai quali domandiamo la strada per Karbala. Ci dicono che dobbiamo tornare un po’ indietro e girare a sinistra. Prendiamo questa strada e cinque minuti dopo due auto – una davanti e una dietro – ci fermano, ci fanno uscire e noi non opponiamo resistenza. Mi infilano nel cofano di una macchina. MANI LEGATE – Il viaggio dura una ventina di minuti. Ci portano in una capanna, bendati e con le mani legate. Ci fanno sedere. Christian è alla mia sinistra, lo sbendano e gli mostrano una foto del generale Kimmitt con il figlio del nostro autista. Christian è senza occhiali e non riconosce Kimmit: si prende una sberla perché credono che li stia prendendo in giro. Christian mi dice: «Siamo nella m…».
Ripartiamo in auto. Questa volta nel cofano ci va Abu Ayman, io sul sedile posteriore con Christian, bendati, legati. Lungo la strada, il tipo a destra del conducente insulta Chirac in arabo: «Chirac kelb», ovvero «Chirac è un cane».

SOTTO CHOC – Ci levano le bende dagli occhi ma ci mettono le manette: Abu Ayman e Christian legati insieme, io da solo. Un’ora dopo ci portano da mangiare: fagioli secchi, cattivi, e del té. «Siamo giornalisti francesi», ripetiamo in arabo. Ci chiedono chi siamo, cosa siamo venuti a fare qui? Rispondiamo che siamo giornalisti venuti qui per fare il nostro lavoro e mostrare quello che fa la resistenza. Dato che per la Francia l’occupazione è illegale, la guerra pure, e quindi, come sempre nella storia, è nata una resistenza. Ribadiamo che non siamo affatto sulle posizioni americane, non abbiamo nemmeno il badge della Cpa.

ORGANIZZATI – Tutto questo smentisce l’ipotesi che a rapirci siano stati dei briganti: in seguito sapremo che l’Esercito islamico ha infatti una ripartizione dei compiti, ovvero qualcuno che compie il sequestro, altri che interrogano, altri che custodiscono i prigionieri, altri che li giudicano.
Il tipo ci dice che la seconda delegazione avrà una telecamera e registrerà un video. Sono le 17 di venerdì. La situazione è abbastanza calma, registriamo il video, che loro dicono di voler mandare ad Al Jazira . Alle 20 arriva un uomo con il mio zaino con il computer, fa per renderci i passaporti. Poi si avvicina a Abu Ayman e tira fuori furioso una foto. Inizia una situazione da pazzi: hanno trovato nell’auto la foto di Kimmitt con il figlio di Abu Ayman, urlano che Abu Ayman è una spia recrutata dagli americani per spiarci. «Ha una faccia da spia», urlano. «E’ fidato, è anti-americano», diciamo. Lo portano fuori e lo interrogano. Ci dicono: «Voi, ok, ma lui è una spia». Abu Ayman torna e ci dice: «Mi condanneranno a morte».
Ci portano nella capanna. Dormiamo tra le zanzare, al mattino arrivano tre persone, tra cui un ferito. Sono due macedoni che lavoravano in una base americane e il loro autista, che perde molto sangue dal volto. I macedoni non parlano nè arabo nè inglese. Noi facciamo da interpreti, loro sono persi, non capiscono niente di quanto sta avvenendo.
La domenica arriva un tipo che si presenta come il capo dei servizi di informazione dell’Esercito islamico in Iraq. «Abbiamo quattro nemici – dice – i soldati americani e della coalizione; i loro collaboratori ovvero gli uomini d’affari italiani o francesi che lavorano con loro, la polizia irachena che è in parte infiltrata, e le spie». Non facciamo parte di nessun gruppo gli diciamo.
Lui, il portafoglio pieno di biglietti da 100 dollari, ci dice: «Avete perso l’auto, i telefoni, il computer. Non siamo ladri, vogliamo indennizzarvi. Chi vi ha rapiti pensava che foste americani, che doveste essere uccisi, così vi hanno rubato tutto ». Quindi ci domanda: «Il tuo computer, quanto vale?». Insiste. Ci dà 100 dollari per ogni computer. Surreale.

LA FATTORIA – La fattoria dove stavamo era davvero in attività. E’ là che tengono gli ostaggi. C’erano degli animali, un asino e un gallo al mattino, un campo di mais sul retro, e blocchi di pietra.
Riceviamo ancora una visita del capo dei servizi d’informazione. Gli chiediamo: «Allora, la nostra liberazione?». Ci risponde: «Sapete, c’è quel problema in Francia, la patria dei diritti dell’uomo, il divieto di indossare il velo a scuola. Non è bello da parte di un Paese come la Francia». Quindi mi dice: «Immagina che la tua vita sia in pericolo, cosa diresti al tuo presidente se rischiassi di essere ucciso?». Gli rispondo: «Non saranno due giornalisti francesi uccisi a far abrogare la legge». Ribatte in inglese: «Vogliamo usarvi. Dipende da voi». Dico: «Imploro il presidente Chirac». Christian fa lo stesso. Tenuta da guerrieri, kalashnikov puntato alla tempia, e così via. Tutto filmato.

MALE ALL’ORECCHIO – Le 2, forse le 3 del mattino. all’improvviso qualcuno apre la porta. «Va tutto bene?» ci domanda. «Mi fa male l’orecchio. Voglio vedere un medico domani mattina». Quello mi risponde: «È mattina e io sono un medico». Christian, che è un po’ più ironico di me, dice: «Straordinario, ti capita un rapitore dottore». Un’ora dopo, mi porta delle medicine. Vogliono che restiamo in salute, ci diciamo. Il morale non è alto, ma questo è un buon segno.

GUARDIA DEL CORPO – Arriva un tipo. È ferito. Veniamo a sapere che è una delle guardie del corpo di Chalabi, il suo convoglio è stato attaccato sulla strada per Najaf, nello stesso punto in cui siamo stati catturati noi. Non possiamo parlargli. I guardiani gli ripetono: «Sei un cane. Lavori con gli americani».

DECAPITATI – I due macedoni, la guardia del corpo di Chalabi, tutti decapitati. Decapitato il responsabile di una centrale elettrica. A noi dicevano: «Questa è la terra della guerra. non tornate in Iraq. Non abbiamo bisogno della stampa straniera».
Avrebbero potuto ricevere l’ordine di tagliarci la testa da un momento all’altro, e noi saremmo stati decapitati. E’ stato allora che abbiamo capito quanto instabili e fragili siano i rapporti tra carcerieri e ostaggi. Uccidono con la stessa facilità con la quale respirano.

IL RILASCIO – Ci nascondono in una specie di bara di cartone, ci coprono con più strati. Ci permettono di tener fuori solo la testa, per respirare almeno. E’ una posizione molto scomoda, perché abbiamo le mani legate dietro la schiena. Non sappiamo dove stiamo andando. Ci fermiamo sul bordo di una strada. «Ci spostano da una macchina all’altra come sacchi di patate», mi dico. Qualcuno apre il cofano e lì, a cinque metri, vedo uno scudo blu, bianco e rosso. E un viso che riconosco. L’iracheno dice al francese: «Vuoi vederli?». Il francese risponde: «Non voglio vederli. Li voglio e basta!».
Non avevamo mai smesso di ripeterci, Christian e io, «Finché non saremo in un’auto dell’ambasciata o in una qualsiasi auto francese, non saremo liberi». Da quattro mesi non vedevamo il sole. Liberi.

Georges Malbrunot
Fonte:www.corriere.it
26.12.04

Le Figaro/Agenzia Volpe
(traduzione di Maria Serena Natale)

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