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PENSIONE CRUDELE

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A cura di Davide
Il 11 Giugno 2010
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DI MASSIMO FINI
antefatto.ilcannocchiale.it

Noi moderni, intesi come massa, siamo molto meno liberi dal punto di vista economico degli uomini dell’epoca preindustriale. Questo è l’effetto-paradosso dell’aver scelto un modello di sviluppo basato sulla “libera intrapresa” e la concorrenza. Nel Medioevo e nel Rinascimento europei la stragrande maggioranza della popolazione, il 90%, era formata da contadini e artigiani (il restante 10% erano nobili, feneant a vario titolo come i preti, un ridotto manipolo di mercanti che rischiavano in proprio e un 1% di mendichi, ma era mendico solo chi voleva esserlo, un po’ come i clochard per scelta dei nostri giorni). Contadino o artigiano che fosse l’uomo preindustriale viveva del suo e sul suo. Il contadino quando dipendeva formalmente dal feudatario, non era cioè proprietario della terra ma la deteneva in un possesso secolare, pagava a costui una rendita ridicola come ammette anche Adam Smith che nota: “Coloro che coltivavano la terra…pagavano una rendita che non aveva alcun rapporto di equivalenza con la sussistenza che la terra forniva loro. Una corona, una mezza corona, una pecora, un agnello erano, pochi anni fa, nelle Highlands, una rendita ordinaria per delle terre che mantenevano una famiglia” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, III, IV).C’erano poi le corvées che a noi moderni abituati, almeno concettualmente, alle libertà individuali, fanno molta impressione perché consistevano in servigi personali che i contadini, un paio di giorni al mese, a rotazione, dovevano rendere al feudatario (aggiungersi ai domestici se dava una festa, dava una mano per qualche altra incombenza, e cose simili). Pagato questo scotto molto relativo (soprattutto se paragonato alle tasse che noi oggi versiamo allo Stato: fra rendita del feudatario, imposte reali, decima ecclesiastica, il prelievo non superò mai il 4-5%) la sussistenza del contadino dipendeva da lui e solo da lui e dalla sua famiglia. Ma, a parte la fatica (“la terra è bassa” dicono i contadini), da questo punto di vista non aveva problemi perché, come scrive lo storico Giuseppe Felloni in Profilo di storia economica dell’Europa dal Medioevo all’età contemporanea (Giappichelli, p. 107): “Le terre sono distribuite con criteri che antepongono l’equità distributiva all’efficienza economica, mentre quelle per loro natura inadatte alla coltivazione (boschi, pascoli, paludi eccetera) sono usate promiscuamente da tutti, ma entro limiti ben precisi…le terre…per consentire il libero accesso di quanti usufruiscono degli usi civici (vale a dire delle numerose servitù, di spigolatura, di pascolo, di acquatico, di legnatico e via dicendo, che gravano sulla proprietà e sul possesso privati senza peraltro metterli in discussione – era un regime “comunitario” non “comunista” della terra, ndr) devono essere lasciate aperte, senza barriere confinarie”.

La concezione di fondo era che ad ogni nucleo familiare doveva essere garantito il suo “spazio vitale”. Che valeva anche per il mondo artigiano. Se si prendono gli Statuti artigiani dell’epoca si leggono prescrizioni per noi, oggi, inconcepibili: “Non togliere agli altri alcuno dei suoi clienti”; “nessuno deve allontanare i clienti dal negozio del vicino né distoglierli dall’acquisto con cenni o gesti o altri segni”. Insomma era proibita la concorrenza, stella polare del nostro di mondo. Dirà il lettore moderno: ma allora l’artigiano poteva produrre oggetti scadenti sicuro di cavarsela lo stesso. Non era così. Non fosse bastato – e bastava – l’orgoglio dell’artigiano di far uscire dalle proprie mani dei capo-lavori, ci pensavano gli stessi Statuti a stabilire, con prescrizioni minutissime, degli standard estremamente severi per garantire la qualità del prodotto. Stiamo parlando dell’economia di sussistenza (sostanzialmente; autoproduzione e autoconsumo) che è stata in vigore in Europa e nei Paesi del Terzo mondo finché l’irruzione del modello di sviluppo industriale non ha cambiato tutti i termini della questione. Per la verità non proprio tutti. Esiste anche oggi una casta, quella dei politici, che come i nobili dell’ancien régime, non lavorano, non pagano le tasse su una porzione enorme dei loro emolumenti (100 mila euro), hanno un diritto proprio. Per il resto la mentalità del mercante, il più obbrobrioso degli esseri, considerato da tutte le culture preindustriali, d’oriente e d’occidente, all’ultimo gradino della scala sociale, sotto gli schiavi, perché si è sempre ritenuto indegno di un uomo scambiare per denaro, l’ha avuta vinta.

Si è nobilitato a “imprenditore”. Noialtri tutti siamo diventati degli “schiavi salariati”, come si esprime Nietzsche, la cui sussistenza dipende da chi ti fa lavorare (e lo dobbiamo anche ringraziare) e da congiunture economiche e finanziarie sofisticatissime e lontanissime sulle quali, in barba a tutte le balle sulla democrazia, non abbiamo nessun controllo né alcuna possibilità di incidere. Siamo completamente alla mercé altrui e di un meccanismo che è sfuggito di mano anche agli stessi apprendisti stregoni che pretendono di guidarlo e marcia ormai per conto suo.

Per impedire stragi umane eccessive e controproducenti (la forza-lavoro, cioè gli schiavi devono essere mantenuti in vita finché servono a qualcosa) gli Stati, dopo le dure lotte del XIX e del XX secolo, sono stati costretti a introdurre alcuni istituti: i sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione, eccetera. Per quelli che invece non servono più a nulla, i vecchi, c’è la pensione. Solo le astrazioni della Modernità, in combinazione con la smania codificatoria della borghesia per cui la legge deve entrare anche nelle vicende più private e intime dei rapporti umani, potevano inventarsi una cosa così crudele come la pensione. Da un giorno all’altro tu perdi il posto, per quanto modesto, che avevi nella società e vieni sbattuto nel magazzino dei ferrivecchi.

E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo. Per cui al pensionato, per riempire in qualche modo il vuoto che si è venuto a creare nella sua vita, per “ammazzare il tempo” (ma in realtà è il tempo che ammazza lui) monta una sorta di ossessione, alla Bouvard e Pécuchet, di conoscenza onnivora: vuol leggere tutto, vedere tutto, impadronirsi di tecniche e scienze di cui non gli è mai importato nulla e, di fatto, continua a non importargli nulla. “Quest’anno mi sono fatto il Nepal”. Non è amore di conoscenza, è una nevrosi catalogatoria da album di figurine di collezionisti bambini. È mettere una tacca sul coltello che ha perso il filo e non serve più.

Non è un piacere, ma un dovere, una faticaccia consumata sui pullman dei tour operator specializzati nella “terza età” o su traghetti carontici più infernali di quelli dei boat people alimentati almeno dalla speranza, dove ogni tanto qualcuno si accascia e muore mentre gli altri, come nella Vergogna di Bergman si voltano dall’altra parte e fingono di non vedere. In età premoderna, preindustriale, preilluminista, preborghese non c’era una crasi così netta, così feroce, fra vita attiva e un riposo che somiglia troppo all’eterno riposo. Il capofamiglia, man mano che invecchiava, lasciava i lavori più pesanti e impegnativi ai membri giovani del gruppo, ma continuava ad aver-ne la guida e quindi conservava un ruolo e la sua vita un senso. Adesso che un modello che ha puntato tutto sull’economia, marginalizzando tutte le altre esigenze umane, sta fallendo anche e proprio sull’economia, ci si dà, in Europa, a smantellare il welfare, compreso l’istituto della pensione che verrà portata, si dice, a settant’anni, cioè ai limiti della vita visto che la media, per gli uomini, è di 78 anni.

Alla luce di quello che abbiamo detto potrebbe essere un vantaggio. Se non fosse che, nella stragrande maggioranza dei casi, i vecchi (e la vecchiaia, a onta di altre balle che ci raccontano, comincia, oggi come sempre, a sessant’anni come sa, nel suo intimo, chiunque abbia compiuto questo fatidico compleanno) e anche coloro che ancora tali non sono, non reggono le vorticose accelerazioni che, per competere, la società moderna, con la sua sfavillante tecnologia, impone alla nostra esistenza. Per cui il nostro futuro è, più o meno, questo: o schiattare sul campo o languire, negli ultimissimi anni, in una noia e in una solitudine senza luce e senza speranza. En attendant Godot.

Massimo Fini
Fonte: http://antefatto.ilcannocchiale.it

Da il Fatto Quotidiano del 10 giugno

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