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La Redazione

 

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PAURA E DELIRIO A MACERATA

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A cura di Davide
Il 12 Agosto 2011
87 Views

DI LUCA PAKAROV

rollingstonemagazine.it

Quando leggo Rigoletto lo considero uno scherzo. Quando vedo l’accredito credo ad uno sbaglio. Quando telefono per la conferma penso ad una brutale cospirazione. Sono finiti i concerti rock? Nemmeno un vomitoso gruppo hardcore con cui ruttare nel backstage? Dove poi? Cristo santo Macerata, certo che la conosco, ci sono nato. Ah, per questo vado bene, per l’ambientamento, sicuro, ho capito, sono la cavia di un esperimento. Avrei comunque preferito la festa della piadina in qualche remoto paesino della Basilicata.

Così prendo la faccenda di petto: i melomani sono tipi pacifici e disadattati e Rigoletto, di conseguenza, non dovrebbe darmi troppi problemi. Quanto basta per rassicurarmi che tutto andrà bene. Allora faccio un ordine delle priorità: libretto, protagonisti, atti, orchestra, qualcosa su Verdi e se becco un gossip demenziale fra tenore e soprano suono pure io lo zufolo. Il luogo migliore dove ottenere tante informazioni è il tavolinetto di un bar di rumeni sulla piazza dietro l’arena. Dopo un’ora e mezza di Wikipedia e tre Tennent’s mi convinco di poter scrivere un buon articolo senza spettacolo, tanto che mi distraggo cercando sui giornali locali qualcosa da combinare in serata. Se poi riuscissi a piazzare pure l’accredito sarei Dio in terra ma forse sono i rumeni a non essere un buon target.

Più la sera cala sulla piazza più vedo frusciarmi davanti tutti prototipi umani che, almeno alla quinta birra, diventano particolarmente inconsueti e quindi, a causa di un’intrinseca e misteriosa esigenza d’alterità, fascinosi. Perché no, mi dico?

Mi presento quindi all’ingresso in eleganti short avana, una camicia bianca Briatore e un vistoso braccialetto di pelle nera borchiato, omaggio di un motoraduno. Pacchiano forse ma efficace. In un borsellino ben sigillato due Tennent’s tintinnano amorevolmente. La mascherina mi fa notare che è tardi, le luci si spengono e con una pila e un passo da centometrista mi accompagna proprio di fronte al palco, nel mezzo di tanta gente per bene. Come minimo ci avrei tirato su un centone con un biglietto del genere.

Vicino ho un ragazzino anche lui molto per bene ma quello al suo fianco, con i suoi capelli lunghi e il foulard di seta, non mi ispira niente di buono. Ci saremo mica visti al motoraduno? Sto per chiederglielo ma l’orchestra attacca. Io tiro fuori l’accendino e stappo. Mi concentro sul dramma però tenendo sempre d’occhio i miei due vicini che, come detto, hanno qualcosa da nascondere.

La storia è abbastanza semplice, c’è un tipo lì, Rigoletto, che è un piccolo bastardo di corte che di mestiere fa il giullare ma riesce ad attirare solo antipatie perché, per abitudine, prende per il culo tutti i cortigiani. Poi c’è un duca che tenta di scopare tutte le femmine del cucuzzaro. Rigoletto non pago schernisce anche i nobili padri delle nobili battone che lo scopatore folle seduce senza pausa. Per questo e per altro ancora Rigoletto viene maledetto. Rigoletto ha una figlia che, perché no, piace al duca e la quale viene rapita per vendetta da un branco di nobili fatti di acido, i quali, per ovvi intrecci lisergici, a loro volta credono sia l’amante di Rigoletto. Ecco, fine primo atto. Sì, è quello che ho pensato anch’io, le somiglianze fra Montecitorio e il libretto di Francesco Maria Piave sono impressionanti, ma rimaniamo al tema.

A questo punto non ho più birre nel taschino e prego iddio santissimo, che pure se sono stato una carogna e non merito attenzione, di non perdere definitivamente questa mia anima frustrata e di regalarmi un bel temporale. E invece è in atto la mia conversione e ottengo di meglio, da una tasca del borsellino a farmi ciao con la manina spunta fuori un prezioso ricordo di un amico tornato da Amsterdam. Mi chiudo in bagno, un bagno signorile non c’è che dire, ne ammiro proprio tutte le cromature ringalluzzito dal benefico popper olandese. Già figlioli, altre epoche, vecchi amori, ma lo si poteva forse sprecare? Prima che ricominci la gazzarra sul palcoscenico cerco di raggiungere il bar. Barcollo ma non mollo (si perdoni lo slogan di nera memoria), pago e chiedo con voce spocchiosa da tipo navigato un bloody mary solo che, al rientro nell’arena, mi ritrovo una birra in una mano e un Fernet nell’altra.

Il miei oscuri vicini sono sempre lì, ora bambino e capellone hanno qualche sospetto e si fanno dei segnali che non vedo ma percepisco. Mi viene voglia di attaccarci discorso in modo da scoprire quali siano i loro piani e anche per sapere che pensano di quel Rigoletto lì che a me non piace proprio. Magari ha steccato e non me ne sono accorto, o forse non me lo ricordo. Comunque sia comincia il secondo atto ma ne perdo un pezzo perché la fottuta bionda alla mia destra è anch’essa una drogata ma di Autan – malgrado l’assenza di insetti – e mi viene da sboccare. Di fretta costringo una fila intera ad alzarsi. Una mascherina mi insegue. Mi chiudo in bagno, vomito e riparto di popper. Quando ritorno nessuno in questa piccola landa sotto le stelle mi ama, anzi la mascherina/carceriera vorrebbe farmi sedere in un punto laterale ma io insisto sventolando come distintivo una penna e un’agenda, che devo scrivere una recensione. Così, dal mio posto centralissimo, realizzo innanzitutto che i miei due vicini sono dei sadici sbirri in borghese ma soprattutto e, più importante, che anche Rigoletto, il gobbo Rigoletto, è un tossico. A forza di sfasciarsi di crack nei ghetti del ducato di Mantova ha i riflessi di un mentecatto e l’intuizione di un pesce rosso; solo quando i giochi sono fatti afferra che è sua figlia quella rapita e che ora, nel palazzo, se la sta spassando col superduca. Scherzi del cazzo caro Rigoletto, colpa dei tempi che corrono. Per lo meno la cosa si fa interessante perché il piccolo bastardo in un rigurgito adrenalinico si ricorda che, oltre a non far ridere, è anche un balordo rancoroso e tira un forte vento di vendetta.

Il terzo atto è un delirio sgargiante di colpi di scena. Rigoletto assolda Sparafucile, un killer della mala figlio di un verbo e di un sostantivo. La faccenda si svolge in una locanda dove il duca viene attirato dalla sorella bona di Sparafucile. Qui riconosco l’unica aria che m’è nota, La donna è mobile, foss’anche in onore dei generosi anni del liceo e delle canzoncine zozze decido, nel mezzo del trionfo del tenore, senza un minimo di pudore per i piedipiatti che mi spiano o di pietà per la bionda Autan, di tirare fuori la mia fialetta made in Paesi bassi. In un microsecondo da un nervo sotto il collo mi sale una zaffata di calore, sento scoppiare una bolla nel lobo occipitale, rimango a bocca aperta paralizzato a testa in su, ho anche il tempo di pensare che sia un colpo apoplettico, ma poi quando il soprano stacca, fra il respiro e l’applauso, mi rilasso completamente e scoppio in un pianto a dirotto deficiente. Arriva anche un mal di testa nucleare che la mia mano tremante placa estraendo dal nècessaire tre pasticche di ibuprofene.

Quando mi riprendo la figlia di Rigoletto è morta ammazzata ma ne ignoro il motivo. Di fatto però la maledizione ha funzionato. Ed ho anche l’impressione che il crimine in sé non sia così rilevante (almeno finché non vedrò il plastico da Vespa). Da parte mia invece concludo la serata con una serie di umiliazioni di basso calibro come inciampare rovinosamente sul tappeto rosso, fumare una sigaretta al contrario, chiedere il numero di telefono ad una minorenne e, non in ultimo, dare del bastardi ai due presunti poliziotti.

Tirando le somme, se mai ci fosse una morale, è sempre unanimemente la stessa: un disgraziato storpio contro un ricco potente sciupafemmine, per quanti Sparafucile voglia comprarsi, si ritroverà sempre una figlia dentro un sacco di plastica nero. Ma forse Verdi pensava ad una metafora sportiva dove l’attacco non è la miglior difesa. Meditate.

Luca Pakarov
Fonte: www.rollingstonemagazine.it
Link: http://www.rollingstonemagazine.it/eventi/reportage/paura-e-delirio-a-macerata/41510
4.08.2011

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