DI ALESSANDRO VISALLI
Un post (trad. ita QUI) di giugno 2013 di Paul Krugman su un tema sul quale da qualche tempo cresce il dibattito: se cioè si stia riproducendo, in questo avvio di secolo, quella condizione che in Inghilterra sul finire del settecento provocò la rivolta dei luddisti. Una rivolta che, dice l’economista americano, aveva più di una buona ragione.
L’epicentro della protesta era nell’industria della stoffa, in cui nuove macchine provvidero a ridurre enormemente la necessità di lavoratori qualificati alla produzione.
Il punto, e Krugman lo mette bene in evidenza, era che venivano spiazzati soprattutto i lavoratori che avevano investito ingenti risorse umane per apprendere gesti, movimenti e comportamenti adatti ai vecchi cicli produttivi, ed in essi erano molto richiesti. Mentre le nuove macchine richiedevano meno abilità e quindi deprezzavano il capitale umano. In altra epoca Sterling Bunell disse: “gli uomini da due soldi hanno bisogno di apparecchiature costose… mentre gli uomini molto abili hanno bisogno di poco, oltre alla loro cassetta degli attrezzi”. Nel 1786 a Leeds, nel grande centro dell’industria della lana al nord dell’Inghilterra la protesta è quindi agitata dalla manodopera qualificata, dall’aristocrazia del lavoro operaio, che teme di non poter mantenere più le loro famiglie e di aver avviato i propri figli per anni a mestieri che scompaiono.
Nella petizione, comparsa (“umilmente”) su un giornale locale, si legge: “…Come sono quegli uomini, così buttati fuori prima di essere impiegati per provvedere alle loro famiglie; e che cosa sono per avviare i loro figli all’apprendistato, in modo che la nuova generazione possa avere qualcosa per essere al lavoro, in modo che possano non essere come vagabondi, passeggiando nell’ozio? Alcuni dicono, iniziate e imparate qualche altra attività. Supponiamo che lo facciamo; con cosa mantenere le nostre famiglie, mentre intraprendiamo l’arduo compito; e quando lo abbiamo imparato saremo meglio per tutti i nostri dolori? dal momento che abbiamo terminato il nostro secondo tirocinio, può sorgere un’altra macchina, che può togliere anche tale attività; in modo che le nostre famiglie, avendo già sofferto mentre stavamo imparando a fornire loro il pane, resteranno così anche durante il periodo del nostro terzo apprendistato”. Non erano domande sciocche, dice Paul. La meccanizzazione, ma dopo un paio di generazioni, alla fine portò in effetti ad un ampio aumento generale del tenore di vita britannico, ma durante la rivoluzione industriale non ha portato benefici ai tipici lavoratori manuali. O almeno “è tutt’altro che chiaro”. Una delle cose meno note è che chi ottenne il massimo danno non erano i lavoratori dequalificati, ma quelli che avevano un buon adattamento al sistema che era stato spiazzato. Chi aveva speso tempo, soldi e competenza per acquisire abilità che improvvisamente non servivano più.
Krugman si chiede se viviamo di nuovo in una epoca simile. E risponde che è possibile; precisamente che la situazione è mutata radicalmente dall’inizio del secolo. Se negli ultimi anni del novecento (quelli del “education, education, education” di Blair) poteva sembrare che in ultima analisi i benefici si distribuissero in modo corrispondente alla curva di competenza, per cui la soluzione poteva essere l’istruzione (diciamo, dimenticando che per l’1% che univa all’istruzione il potere le cose andavano molto, molto meglio), dall’inizio del duemila la musica è cambiata. “Sta emergendo un quadro molto più scuro”, ora i lavoratori altamente istruiti e quelli anche solo istruiti possono trovarsi in difficoltà, spiazzati e svalutati. In un post del 2012 lo stesso Krugman sottolineava che si era creata una distanza tra i redditi da lavoro e da capitale. E che questa era una cosa nuova. La quota lavoro era fortemente diminuita per due motivi: le macchine svantaggiano molte forme di lavoro e i rapporti di forza sono diventati svantaggiosi.
Krugman cita a suo sostegno niente di meno che David Ricardo, in Principi di Economia, politica e dell’imposta, a pag. 516 (della mia edizione Utet) dice, in effetti “sono [diventato] convinto che la sostituzione delle macchine al lavoro umano è spesso molto dannosa agli interessi della classe dei lavoratori. … la stessa causa che può far aumentare il reddito netto del paese, può allo stesso tempo rendere la popolazione eccessiva e peggiorare le condizioni del lavoratore.” Naturalmente è questione di velocità, come la successiva discussione mostra. Fatto sta che dagli anni novanta, anche per l’introduzione massiccia di automazioni in settori prima garantiti da competenza umana, la quota di lavoro della torta è fortemente diminuita e non solo in America. Il rapporto dell’ILO sottolinea che succede in molti paesi. La stessa cosa risulta dal rapporto di McKinsey Global Institute sulle tecnologie distruttive che in particolare aggrediranno lavoratori oggi considerati altamente qualificati. Molti “lavoratori della conoscenza”, come nel settore medico. Certo possono riconvertirsi, ma come nel 1786, che succede se il processo va avanti (e mentre un infermiere diventa medico, l’automazione li disintermedia, risalendo la catena; poi quando diventa neurochirurgo esplodono le sale operatorie automatizzate?). Che ne è del debito che si accumula mentre si spendono gli anni di apprendimento?
La conclusione di Krugman è che l’educazione non è più la risposta alla domanda sulla crescente ineguaglianza. Forse non lo è mai stata.
L’unico modo di avere invece ancora una classe media (senza la quale avremo una società molto diversa e forse non avremo più la democrazia, di certo non ne avremo una che vale) è “avere una forte rete di sicurezza sociale, che garantisca non solo l’assistenza sanitaria, ma anche un reddito minimo”. Questo, con una quota sempre crescente di reddito che si concentra nel capitale, deve venire dalla tassazione dei profitti. Questa idea, fondamentalmente, è la stessa che sollevava Keynes in “Prospettive economiche per i nostri nipoti“, o veniva evocata in questo post riassuntivo, ma anche in questo, o Evans-Pritchard in questo, o questo, questo post, o Lanier in questo, Milanovic in questo, o questo dell’ILO.
La discussione del post illumina diversi problemi, un lettore sottolinea come in effetti il legame tra istruzione e qualità del lavoro sia tutt’altro che lineare, infatti anche “ogni economia è un vasto ecosistema con molti livelli trofici, molti dei quali non richiedono educazioni avanzate”. In realtà c’è un limite piuttosto stringente a quanti ruoli di alto livello siano disponibili nella società, a quanti avvocati, professionisti, medici siano effettivamente necessari. La ragione degli squilibri è di potere di accesso non di valore intrinseco. Un altro mette il dito nella piaga della possibilità che la distribuzione possa portare ad eccessi di trattamento amministrativo, secondo le parole di Damian, in effetti viviamo in un’economia che è riuscita a capire come produrre le necessità di base della vita economica e che è abbastanza efficiente da far sì che teoricamente potremmo avere forse per il 70% della popolazione il sussidio di disoccupazione. “Non lo facciamo in gran parte perché gli esseri umani hanno bisogno di essere produttivi, soprattutto quando sono giovani. Per quanto riguarda la redistribuzione della ricchezza, il vero problema è definire il modo in cui viene distribuita ai poveri. Ragionare semplicemente come se gli esseri umani abbiamo solo il desiderio di reddito trascura che essi hanno bisogno di uscire, socializzare, e di impegnarsi in attività produttive. Il rischio è di potenziare un sistema clientelare di massa che avvantaggi le persone sbagliate.
Sono problemi seri. Ma l’alternativa quale è?
Alessandro Visalli
Fonte: http://tempofertile.blogspot.it
Link: http://tempofertile.blogspot.it/2014/10/paul-krugman-simpatia-per-i-luddisti.html
25.10.2014