PATTO SEGRETO DI ISRAELE CON IL SUD AFRICA

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blank“Fratelli d’armi”: il patto segreto di Israele con il Sud Africa dell’apartheid

DI CHRIS McGREAL
The Guardian

Nel corso della seconda guerra mondiale, colui che stava per diventare il Primo ministro del Sud Africa dell’apartheid, John Vorster, fu arrestato dalle autorità britanniche per le sue attività in favore della Germania nazista. Ma trent’anni dopo, quell’uomo sarà accolto in pompa magna a Gerusalemme. Il giornalista del Guardian Chris McGreal, che ha svolto una grande parte della sua carriera tanto nel Sud Africa quanto nell’area israelo-palestinese, sta per pubblicare una lunga inchiesta sull’alleanza militare clandestina tra Israele ed il regime dell’apartheid, che trova il suo coronamento con lo sviluppo, in comune, dell’arma nucleare. Qualche anno fa, a Johannesbourg, incontrai una donna ebrea, della quale la madre e la sorella erano state assassinate ad Auschwitz. Poco dopo venne il suo turno di entrare nella camera a gas. Ma avvenne un miracolo, e la decisione di mandare a morte il gruppo dei condannati, di cui faceva parte Vera Reitzer, fu annullato all’ultimo momento. Vera Reitzer sopravvisse all’inferno di Auschwitz, si sposò poco dopo la guerra ed emigrò in Sud Africa.

All’inizio degli anni ‘50 aderì al Partito Nazionale (PN) che aveva appena vinto le elezioni (riservate alla popolazione bianca, Ndr) su una base apertamente razzista e segregazionista. Fu in quel momento che il Primo Ministro del PN, Malan, introdusse al Parlamento una nuova legislazione, che richiamava prepotentemente le leggi di Norimberga adottate da Hitler contro gli ebrei: la «Legge portante del censimento della popolazione» di Malan classificava i sudafricani secondo la loro razza, proibiva il matrimonio e le relazioni sessuali tra popolazioni di diverso colore, e impediva ai neri l’accesso a molte professioni.

Vera Reitzer non volle tuttavia contraddire il fatto che ella stessa, sopravvissuta al genocidio, potesse aderire ad un sistema che richiamava, nella filosofia di base se non nell’ampiezza dei suoi crimini, ciò al quale ella era riuscita a sopravvivere. All’epoca, ella pensava che l’apartheid era una necessità, tanto per prevenire la dominazione da parte dei neri, che per arginare il comunismo, che trionfava nello stesso momento nel suo paese d’origine, la Yugoslavia. La Reitzer dichiara oggi la sua convinzione che gli africani fossero inferiori agli altri esseri umani, e che di conseguenza non dovessero essere trattati allo stesso modo. Io le feci osservare che Hitler diceva la stessa cosa di lei in quanto ebrea. Ella mi chiese allora di porre fine alla conversazione.

La Reitzer non era un caso isolato in quella comunità ebraica del Sud Africa, della quale molti membri manifestavano entusiasmo per l’apartheid e la loro personale appartenenza al Partito Nazionale. Del resto, ella era una rappresentante in vista della comunità, impegnata nell’Associazione dei Sopravvissuti dell’Olocausto, mentre gli ebrei che militavano contro il sistema dell’apartheid al contrario erano frequentemente denunciati dalla loro stessa comunità.

Numerosi israeliani respingono con orrore l’idea che il loro paese, nato sulle ceneri del genocidio e che si è costruito sugli ideali del giudaismo, possa essere comparato ad un regime razzista. Pertanto, durante gli anni, la maggioranza degli ebrei sudafricani, non solamente non hanno lottato contro il sistema dell’apartheid, ma al contrario hanno prosperato sotto la sua ala protettrice, anche se qualche membro di quella comunità ha occupato un posto di rilievo nei movimenti di liberazione. Al contempo, gli stessi governi israeliani hanno sottovalutato le critiche ad un regime i cui dirigenti, precedentemente, avevano manifestato ammirazione per Adolf Hitler. Per trent’anni, la celebre «purezza dei soldati» – il termine usato da Israele per vantare la superorità morale dei suoi soldati – fu segretamente sacrificato, poiché l’avvenire dello Stato di Israele si stava intrecciando strettamente con quello del Sud Africa tanto che i livelli dirigenziali della difesa israeliana finirono per convincersi che la relazione con il Sud Africa fosse vitale per il loro stesso paese.

L’antisemitismo Afrikaner

(Nota del traduttore: la storia coloniale del Sud Africa si è sviluppata in più tappe. Nel XVII secolo, la conquista del paese comincia con l’arrivo dei coloni di origine olandese, che si definivano appunto «Afrikaner», e parlavano una lingua molto simile all’olandese, l’Afrikaans. Ma l’Impero britannico penetrò a sua volta nel paese. Entrò in competizione con i primi colonizzatori, gli Afrikaner. Ne scaturirà una guerra tra le due forze, la guerra dei «Boeri» (1899-1902, Boero in olandese significa paesano, la colonizzazione era stata prima di tutto rurale, prima lo sviluppo delle risorse minerarie e industriali del paese con una mano d’opera nera privata di ogni diritto. Dopo il 1902 e la disfatta degli Afrikaner, il Sud Africa entrò nella sfera dell’Impero britannico, senza che ciò mettesse fine alle volontà «indipendentiste» – per modo di dire, essendo la maggioranza nera condannata ad uno sfruttamento ancora più feroce – dagli Afrikaner che facevano parte della popolazione bianca. Nel 1948, il PN Afrikaner vince le elezioni com’era previsto, realizza il regime dell’apartheid, e rompe ufficialmente gli ultimi legami con l’Impero britannico nel 1961).

Obiettivo dell’apartheid era l’introduzione della segregazione in tutti i livelli di vita e della società, dal lavoro alle camere da letto, anche se i bianchi dipendevano dai neri, sia come mano d’opera che nei servizi domestici. La segregazione prese in seguito l’appellativo di «sviluppo separato» e si crearono i «bantustan», cinque aree nominalmente indipendenti, dove si ammucchiavano milioni di neri sotto la sferza di potentati locali, al soldo dei dirigenti (bianchi) di Pretoria, la capitale.

Allorché il PN prese il potere per la prima volta a Pretoria, nel 1948, i sudafricani ebrei – dei quali la maggior parte era arrivata alla fine del XIX secolo, fuggendo dai pogrom dell’Impero zarista in Lituania e in Lettonia soprattutto – avevano qualche problema di cui preoccuparsi. Una decina d’anni prima di prendere i comandi del governo, cioè nel 1937, Malan dirigeva in effetti l’opposizione all’accoglienza degli ebrei tedeschi cacciati che stavano per essere ammessi in Sud Africa. «Si dice che io me la prenda con gli ebrei in quanto ebrei. Ebbene, permettetemi di dirvi che questo è perfettamente esatto», si vantava così Malan davanti al Parlamento sudafricano nel 1937.

I pregiudizi antisemiti nella popolazione Afrikaner si erano sviluppati dopo il successo economico ottenuto dagli ebrei a partire dal 1860, consecutivamente alla corsa verso le miniere di diamanti di Kimberly. All’inizio del XX secolo, un inviato speciale del giornale The Manchester Guardian, chiamato JA Hobson, raccontava per esempio che la guerra dei Boeri era sentita, sul posto, come una guerra condotta nell’interesse «di un piccolo gruppo di finanziatori stranieri, principalmente di origine tedesca e di razza ebraica». Cinquantanni dopo, Malan ed i suoi uomini erano sempre convinti di queste teorie di complotti. Hendrik Verwoerd, direttore di un giornale violentemente antisemita, Die Transvaler, e futuro autore di un progetto di «Grande apartheid», accusava gli ebrei di controllare l’economia. Prima della seconda guerra mondiale, una confraternita segreta Afrikaner, la Broederbond – della quale Malan e Verwoerd erano membri – entra in relazione con i nazisti. Un altro membro della Broederbond e futuro Primo Ministro, John Vorster, fu incarcerato durante la seconda guerra mondiale (quando il Sud Africa era ancora dominato dalla Gran Bretagna), per i suoi legami con i nazisti, e con la milizia fascista locale delle «Camicie Grigie».

Don Krausz, che presiede oggi l’Associazione dei Sopravvissuti all’Olocausto, è arrivato in Sud Africa nel 1946, dopo essere passato attraverso i campi di concentramento di Ravensbrück e Sachsenhausen, ed ha perso gran parte della sua famiglia durante il genocidio. «I nazionalisti avevano un programma elettorale fortemente antisemita nel 1948. La stampa Afrikaans era scelleratamente anti-ebraica, la si poteva paragonare a ciò che era lo Stürmer nella Germania di Hitler. Quando si era ebreo, all’epoca, si aveva paura dell’Afrikaner. Mia moglie è originaria di Potchefstroom, in quella che era allora la provincia più Afrikaner del Transvaal. Ogni volta che un ebreo arrivava nella località, poteva essere sicuro di avere dei fastidi con le Camicie Grigie. Non c’è alcun dubbio che nelle città e località a predominanza Afrikaner, gli ebrei erano tormentati. Ecco chi erano i tipi saliti al potere nel 1948 … Si temeva il peggio », ricorda Don Krausz.

Helen Suzman, laica di origine ebraica, fu per lungo tempo la sola voce anti-apartheid al parlamento sud-africano. Racconta «Gli ebrei non paventavano una replica del genocidio, ma temevano l’adozione di leggi razziali tipo Norimberga, per esempio leggi che avrebbero impedito loro l’esercizio delle rispettive professioni. Il nuovo governo aveva previsto l’accentuazione della segregazione razziale, e gli ebrei si domandavano quale sarebbe stata la loro sorte in particolare».

La paura fu tuttavia di breve durata perché, se il governo adottò effettivamente delle dure leggi raziali, gli ebrei ne furono esonerati. Il governo dell’apartheid, fondato sulla supremazia bianca, doveva tenere conto delle realtà demografiche, e considerava che non poteva permettersi il lusso di privarsi di una parte della popolazione bianca, benché ebrea. Nello spazio di qualche anno, molti ebrei giunsero alla condizione nella quale non solamente essi non avevano più paura, ma avevano trovato sicurezza, ed il loro compito con il nuovo sistema. Vi furono anche quelli che vi trovarono un parallelo tra questo rinnovamento del nazionalismo Afrikaner ed il rinnovamento ebraico incarnato da Israele.

Molti Afrikaners consideravano che la vittoria elettorale del Partito Nazionalista li liberasse dal detestato ordine britannico. I campi di concentramento creati dai britannici, durante la guerra dei Boeri per rinchiudervi gli Afrikaners ribelli, non potevano certo essere paragonati a quelli dove i nazisti mettevano gli ebrei, ma la morte di 25.000 donne e bambini, per fame e malattie, aveva lasciato tracce profonde nella memoria Afrikaner, una memoria analoga a quella del genocidio, sulla quale Israele ha costruito la sua identità. Lo stesso regime Afrikaner, cavalcò l’idea che gli Afrikaners dovessero difendere i loro interessi, o affrontare l’annientamento.

(…)

E poi c’era Dio. La Chiesa Riformata Olandese andava cercando giustificazioni all’apartheid nell’antico testamento e nella storia Afrikaner, affermando che la vittoria, già antica, degli Afrikaners sul popolo Zulù nella battaglia di Blood River era un segno che l’Onnipotente era dalla parte dell’uomo bianco.

«Gli israeliani dicono di essere il popolo eletto, scelto da Dio, e trovano una giustificazione biblica al loro razzismo ed al loro esclusivismo sionista», dice Ronnie Kasrils, ministro delle informazioni del nuovo Sud Africa, post-apartheid. Ronnie Kasrils, che è ebreo, ha lanciato una petizione diretta agli ebrei del Sud Africa, chiedendo loro di protestare anche loro contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi.

«C’è una similitudine con gli Afrikaners dell’epoca dell’apartheid; essi stessi facevano un discorso biblico, nel quale la terra era la loro, perché Dio l’aveva donata a loro. Tutto come i sionisti i quali raccontavano che la Palestina negli anni ‘40 era una terra senza popolo per un popolo senza terra, i coloni Afrikaners diffondevano il mito secondo il quale non c’era popolo nero in Sud africa quando essi cominciarono ad arrivare nel XVII secolo. In realtà, essi hanno conquistato con la forza delle armi, del terrore, ed hanno sferrato una serie di guerre coloniali sanguinose», prosegue Kasrils.

L’antisemitismo non è mai scomparso, ma dopo qualche anno di potere del PN, un certo numero di ebrei del Sud Africa si sentiva davvero sullo stesso livello degli altri bianchi. «Si era bianchi, ed anche se l’Afrikaner non era nostro amico, era tuttavia un bianco anche lui», riconosceva Krausz. «Ciò che ci univa era il timore dei neri. Quando io sono arrivato nel 1946, gli ebrei non smettevano di dire “i neri qui, i neri la”. Io dicevo loro “sapete, ho sentito i nazisti dire e fare agli ebrei esattamente la stessa cosa che voi dite dei neri. Qui ci sono dei cartelli con la scritta «Riservato ai bianchi», ebbene là, in Germania, c’erano cartelli «Interdetto agli ebrei».

Ma nel corso dei decenni, la Federazione Sionista ed il Jewish Board of Deputies (equivalente sud-africano del CRIF, NDR) ha tenuto in grande stima uno dei suoi notabili, Percy Yutar, il procuratore che aveva pronunciato la requisitoria contro Nelson Mandela, accusandolo di sabotaggio e cospirazione, e che fece poi condannare alla reclusione perpetua nel 1964! Yutar svolse, in seguito, una bella carriera sotto il regime dell’apartheid: procuratore generale dello Stato «libero» d’Orange, poi della provincia del Transvaal, e fu pure eletto presidente della più grande sinagoga ortodossa di Johannesburg. Nell’establishment ebraico del paese, si lodava volentieri «il suo apporto alla comunità», è un simbolo del contributo degli ebrei allo sviluppo del Sud Africa.

«Pertanto, in termini d’immagine, quando si pensa agli ebrei, si pensa piuttosto ad Helen Suzman», secondo Alon Liel, ex ambasciatore d’Israele in Sud Africa. «A mio avviso, la maggioranza degli ebrei non amava l’apartheid e ciò che quel sistema imponeva ai neri, ma essi ne raccoglievano i frutti, e forse si consolavano dicendo che dopotutto, era la sola maniera di dirigere un tale paese», aggiunge.

L’establishment ebraico ha evitato tutti i confronti con il governo. La dottrina ufficiale del Jewish Board of Deputies era la «neutralità», in modo di «non mettere in pericolo» la comunità. Quanto agli ebrei che pensavano che tacere significasse approvare l’apharteid e l’oppressione razziale, e che si impegnavano nella lotta contro la discriminazione, venivano messi in disparte.

«Li si stigmatizzava fortemente, e li si accusava di porre in pericolo la comunità. Il Board of Deputies diceva che ogni ebreo avrebbe potuto aderire al partito politico di sua scelta, ma doveva soppesare tutte le conseguenze che la sua scelta avrebbe avuto per la comunità. Per farla breve, diciamo che gli ebrei appartenevano alla minoranza bianca privilegiata, e l’attitudine della maggioranza è stata: di non fare nulla», riassume Helen Suzman.

Gli interessi comuni

Lo Stato d’Israele, dal canto suo, criticò apertamente l’apartheid negli anni ‘50 e ‘60, in un’epoca durante la quale si costruivano alleanze con i governi dei paesi africani di nuova indipendenza. Ma la maggior parte degli Stati dell’Africa ruppe con Israele dopo la guerra del Kippur del 1973, e Gerusalemme cominciò ad essere più disponibile verso il regime isolato di Pretoria. L’evoluzione fu importante e rapida tanto che dal 1976, Israele mandò un invito ufficiale al Primo ministro John Vorster (l’ex Nazi di cui si è parlato più sopra, NDR)

Silenzioso sul comportamento di Vorster durante la seconda guerra mondiale, Yitzhak Rabin sorvegliò che non se ne parlasse soprattutto durante la visita obbligata al memorial di Yad Vashem, dedicato ai 6 milioni di ebrei massacrati dai nazisti. Durante il brindisi del pranzo di Stato offerto a Vorster, Yitzahak Rabin disse «agli ideali comuni di Israele e del Sud Africa: la speranza nella giustizia, e in una coesistenza pacifica». I due paesi, disse ancora Rabin «affrontano brutalità e instabilità ispirata dall’esterno».

Vorster, il cui esercito aveva invaso, in quel periodo, l’Angola, rispose che i due paesi erano l’uno e l’altro vittime di avversari della civilizzazione occidentale. Qualche mese dopo, il governo sud-africano. Nel suo bilancio di fine anno, scriveva che i due paesi avevano lo stesso problema: «Israele ed il Sud Africa hanno una cosa essenziale in comune: sono entrambi situati in un circondario ostile, abitato da popoli dalla pelle scura».

La visita di Vorster gettò le basi di una collaborazione che fece dell’asse Israele-Sud Africa un grande polo di sviluppo di attrezzature militari, e uno dei maggiori attori nell’ambito del commercio internazionale di armi. Liel, che dirigeva il dipartimento Sud Africa al ministero israeliano degli Affari Esteri negli anni ‘80, stima che quel processo condusse l’alta direzione israeliana in materia di sicurezza, all’intima convinzione che lo Stato israeliano non sarebbe sopravvissuto senza la relazione con gli Afrikaners.

«Siamo stati noi a creare l’industria militare sud-africane», stima Liel. «Essi ci hanno aiutato a sviluppare una vasta gamma di tecniche militari, perché essi avevano molti soldi. Il nostro modo di lavorare abituale era che noi apportavamo il know-how, ed essi il capitale. Dopo il 1976, c’è una vera storia d’amore iniziata tra i nostri dirigenti militari e le rispettive forze armate».

«Noi siamo stati implicati nella guerra dell’Angola, come consiglieri dell’esercito sudafricano. Avevamo ufficiali israeliani sul posto. La relazione era molto stretta».

Mentre le industrie dello Stato israeliane producevano materiali di guerra per il Sud Africa, il kibbutz Beit Alfa si diversificava in modo redditizio, producendo veicoli antisommossa, destinati alla repressione dei manifestanti neri nelle bidonville (NDT: è precisamente durante il 1976 che il movimento di liberazione del popolo nero emergerà nelle città, con il sollevamento del ghetto di Soweto, represso nel sangue)

Verso il nucleare

Il segreto meglio custodito era quello nucleare. Israele fornì esperienze e tecnologie che furono cruciali per lo sviluppo della bomba atomica sudafricana. Israele aveva già sufficienti difficoltà a giustificare tutte le sue strette relazioni con un regime fondato sulla discriminazione razziale, per non volere che la sua collaborazione militare fosse resa nota pubblicamente.

«Tutto ciò di cui parliamo oggi era totalmente segreto», prosegue Liel. «Fra i dirigenti degli affari della difesa, le persone messe al corrente erano molto poche. Ma alcuni Primi ministri ne hanno fatto parte, perciò si può dire che alcuni come Shimon Peres o Rabin ne erano evidentemente al corrente».

«Al tavolo delle Nazioni Unite ripetevamo: come popolo ebraico che ha subìto il genocidio, noi siamo contro l’apartheid, è intollerabile. Ma nella pratica, la collaborazione a livello militare continuava», continua Liel.

A livello politico anche. I gemellaggi tra le città dei due paesi si sviluppavano e, tra i paesi occidentali, Israele fu il solo a riconoscere la creazione, da parte del Sud Africa, il bantustan del Bophuthatswana, ed a permettergli di aprire una «ambasciata».

Negli anni ‘80, Israele ed il Sud Africa si aiutavano vicendevolmente per giustificare i loro rispettivi domini sugli altri popoli. L’uno e l’altro raccontavano che le loro stesse popolazioni erano minacciate di annientamento da forze esterne – in Sud Africa, dai governi neri del continente e dal comunismo; in Israele, dagli Stati arabi e dall’islam. Tutto ciò non impedì nè all’uno né all’altro di conoscere sollevazioni popolari: (Soweto nel 1976, l’intifada palestinese nel 1987) che erano locali e spontanee, e cambiarono radicalmente la fisionomia dei due conflitti.

«Noi riconosciamo bene, in quanto sudafricani, nella lotta dei palestinesi, la lotta per l’auto-determinazione ed i diritti umani», ci disse l’attuale ministro Ronnie Kastrils. «Coloro che hano subìto la repressione sono accusati di essere terroristi, allo scopo di trovare giustificazioni a violazioni ancora più grandi dei loro diritti. Si arriva a questi discorsi folli dove le vittime sono biasimate per la violenza esercitata contro di esse. Il regime dell’apartheid e Israele sono esempi sorprendenti di stati terroristi che accusano le loro stesse vittime».

C’è tuttavia un’importante differenza tra i due. Israele ha condotto tre guerre per la sua sopravvivenza, e la lotta armata in Sud Africa non è mai evoluta verso strategie di assassinio né ad una escalation di morti come si è vista da parte di taluni gruppi palestinesi in questi ultimi anni. Ma, nel decennio ‘80, la superiorità militare schiacciante d’Israele, l’abbassamento del livello della minaccia che potevano esercitare i suoi vicini, ed il trasferimento del conflitto verso i villaggi palestinesi hanno alterato la simpatia di cui aveva beneficiato, altre volte, Israele nel mondo.

Il Sud Africa, come Israele, si definiva come un’enclave della civilizzazione democratica, agli avamposti per la difesa dei valori del mondo occidentale. Ma essi hanno spesso domandato di essere giudicati attraverso il paragone con i loro stessi nemici, affermando che la loro missione era precisamente quella di proteggere il mondo libero dall’invasione da questi ultimi.

(…)

Allorché la pressione internazionale cominciò a farsi sentire sul dossier dell’apartheid, e che anche Israele di conseguenza iniziò ad operare verso un ritiro, la prima reazione dei militari israeliani fu il rifiuto, indica Liel. «Verso il 1986-87 si arrivò ad incrociare i cammini. Quando però il ministero degli Affari esteri fece sapere che era tempo di dare una svolta, e di sostenere ormai i neri e non più i bianchi, l’establishment della sicurezza urlò: “voi siete completamente folli, è un suicidio”, racconta l’ex diplomatico israeliano. I militari ci dicevano che non ci sarebbero state industrie militari né aeronautiche se non si avesse avuto il Sud Africa come primo cliente dalla metà degli anni ‘70; i sudafricani avevano salvato Israele, dicevano. Devo dire che questo probabilmente è vero», continuò Liel.

Dimenticare il passato

Shimon Peres era il ministro israeliano della Difesa al tempo della visita di Vorster, e due volte Primo ministro durante gli anni ‘80, al picco della collaborazione con il regime dell’apartheid. Di fronte a noi, riusciva a sovvertire le questioni sulla morale di tali vincoli con Pretoria. «Io non guardo mai in dietro. Dal momento che non si può cambiare il passato, perché dovrei occuparmene?», ci rispondeva.

Quando noi insistiamo e gli domandiamo se ha mai avuto dubbi sul fatto di sostenere un regime che rappresenta l’antitesi di ciò per cui Israele era stato creato, Peres ci risponde che all’epoca, Israele portava avanti una lotta esistenziale. «Non si ha mai la scelta tra due situazioni perfettamente definite. Ogni scelta che si fa è tra due opzioni imperfette. All’epoca, i movimenti neri del Sud Africa erano vicini ad Arafat, contro di noi. In effetti, noi non avevamo veramente scelta. Ma noi non abbiamo mai cessato di denunciare l’apartheid. Nessuno è mai stato d’accordo», conclude Peres.

E Vorster ? « Certo, io non lo metterei sulla lista degli uomini più grandi della nostra epoca», dice.

Il direttore generale aggiunto del ministero israeliano degli Affari esteri, Gideon Meir, dopo averci detto che lui non aveva alcuna conoscenza dettagliata della relazione israelo-sudafricana dell’apartheid, preferisce parlare di «sicurezza». «Il nostro principale problema, è la sicurezza. Non c’è nessun altro paese al mondo la cui esistenza sia così minacciata. Ciò vale dal primo giorno dell’esistenza del nostro stato fino ad oggi. Tutto questo dipende dalla geopolitica di Israele».

Quando l’apartheid sprofondò, l’establishment ebraico-sudafricano, quello stesso che poco prima incensava Percy Yutar – il magistrato che spedì Nelson Mandela in prigione – operò una brusca virata, e tese dimostrativamente le braccia a quegli ebrei che avevano ingaggiato la lotta contro l’apartheid, come Joe Slovo, Ronnie Kastrils ou Ruth First.

«Ho ricevuto i complimenti da parte di organizzazioni sioniste internazionali. Dicevano che erano le mie radici giudaiche che avevano dato un senso alla mia lotta. Ma quando ricordai loro di non aver ricevuto un’educazione ebraica, e che la frequentazione di una scuola religiosa cristiana non mi aveva affatto influenzato, essi dissero che era stato l’istinto ebraico ad operare in me!»

Oggi il discorso anti-apartheid, nell’establishment ebraico-sudafricano, è diventato un mezzo per difendere Israele. Il grande rabbino del Sud Africa, Warren Goldstein, descrive il sionismo come «movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico», e recupera la terminologia ufficiale dell’attuale governo del Sud Africa, che vuole migliorare le sorti dei neri «precedentemente svantaggiati». «Israele è uno Stato risoluto, creato per proteggere gli ebrei dal genocidio. Anche noi siamo un popolo precedentemente svantaggiato, e non si può contare sulla benevolenza del mondo», dichiara Goldstein, che ha declinato la nostra richiesta di intervistarlo.

Nel 2004, Ronnie Kasrils si era recato nei territori palestinesi, per fare il bilancio dell’offensiva israeliana del 2002 in Cisgiordania, dopo un’ondata di attentati suicidi che aveva fatto centinai di morti. «E’ ben peggiore dell’apartheid», ci disse. «Le misure israeliane, la loro brutalità, fanno sembrare l’apartheid un giochetto da ragazzi. Non ci sono stati da noi dei jet che attaccavano le bidonvilles. Noi non abbiamo avuto accerchiamenti ripetuti ogni mese. Neanche carri armati che distruggevano le case. Il Sud Africa aveva molti veicoli blindati, e la polizia utilizzava le armi leggere per sparare sulla gente, ma mai a questi livelli», è la sua analsi.

Petizione per una presa di coscienza

Più di 200 ebrei sudafricani hanno firmato una petizione di cui Ronnie Kasrils e un altro veterano della lotta anti-apartheid, Max Ozinsky, sono i promotori. Essi denunciano il trattamento riservato da Israele ai palestinesi, e fanno un parallelo con l’apartheid. Il documento, intitolato Una Dichiarazione di Coscienza, ha fatto rumore nella comunità ebraico-sudafricana. Tra i firmatari, Arthur Goldreich, uno dei primi compagni di lotta di Nelson Mandela, che era partito, giovanissimo nel 1948, per battersi a favore della creazione di Israele. Egli ha voluto sostenere con la sua firma un emendamento che denuncia gli attentati suicidi ed il loro impatto sulla percezione dei palestinesi da parte del pubblico israeliano.

Kasrils è sostanzialmente d’accordo con Goldreich, ma osserva che la «strategia dell’apartheid» di Israele era in corso ben prima dell’inizio dell’ondata di attentati suicidi. Egli rileva anche la somiglianza fra i territori occupati ed il patchwork di bantustan previsti dal regime sudafricano, essenzialmente destinato a rinchiudere la popolazione nera dei paesi in quelle enclavi, mentre la popolazione bianca si appropriava del grosso delle terre.

Oggi, circa 6 milioni di israeliani vivono sull’85% dell’antica Palestina Mandataria, mentre circa 3,5 milioni di palestinesi sono confinati nel rimanente 15%, e le loro città e villaggi sono incastrati fra blocchi di colonie israeliane in espansione costante, e dietro una maglia di strade separate, di barriere di sicurezza e di installazioni militari.

Si può considerare, certamente, che Israele come il Sud Africa, sia un prodotto degli eventi storici. Il mondo del 1948, anno della creazione di Israele e dell’accesso al potere degli Afrikaner, era un mondo che non si preoccupava troppo di questi «popoli dalla pelle scura» si metteva in mezzo ai loro grandi disegni. Alcuni di quei governi non facevano molto più di quanto avevano fatto altri prima di loro, i colonizzatori britannici specialmente.

E se si vuole pure ammettere che Israele, espellendo gli arabi dalle loro case, lottava anche per la sua stessa esistenza, chi poteva, nel mondo occidentale, biasimare gli ebrei, all’indomani della loro terribile sofferenza?

Ma il colonialismo si è spezzato in Africa, e Israele è diventato forte, e il resto del mondo è diventato sempre più reticente ai discorsi di Pretoria e di Gerusalemme. Come è noto, i dirigenti sudafricani bianchi hanno scelto la via del compromesso, ora che Israele si trova in un momento critico della sua storia.

Con Sharon in coma, senza dubbio non sapremo mai fino a che punto avrebbe sviluppato la sua strategia di «disimpegno unilaterale», dopo il ritiro da Gaza e da una parte della Cisgiordania. Come il dirigente sudafricano bianco de Klerk, che si decise ad iniziare lo smantellamento del sistema dell’apartheid, si può formulare l’ipotesi che Sharon sarebbe arrivato alla conclusione che avrebbe messo in moto forze per superarlo, forze in grado di giungere ad un compromesso accettabile da parte palestinese.

Ma agli occhi dei palestinesi, la politica di Sharon non era che una versione adattata del vecchio disegno che consisteva, per Israele, nello sbarazzarsi del più grande numero di arabi possibile, conservando il massimo di terre possibili.

Di fatto, mentre Tony Blair salutava il Primo ministro israeliano per il suo «coraggio» politico, con il ritiro da Gaza nell’agosto 2005, Sharon espropriava ancora nuove terre in Cisgordania, più di quante ne avesse rese a Gaza; proseguiva nella costruzione di migliaia di alloggi supplementari nelle colonie ebraiche, accelerava la costruzione di barriere di cemento e di filo di ferro spinato di 700 chilometri, senza lasciare dubbio alcuno che il suo obiettivo fosse di costituire una frontiera.

Per i palestinesi, lo Stato «castrato», disponendo al massimo «di elementi di sovranità» e di un controllo tra i più limitati sulle sue frontiere, le sue finanze, e la sua politica estera, ricorderà spiacevolmente i defunti bantustan del Sud Africa.

Prendiamo il caso della rete stradale. Israele procede la costruzione accelerata, di una rete di strade parallele in Cisgiordania, destinate ai palestinesi, i quali si vedono interdire l’utilizzazione di un gran numero di strade esistenti. L’associazione della difesa dei diritti umani B’Tselem, stima che la strategia israeliana in questo frangente «presenta somiglianze evidenti con il regime razzista dell’apartheid, come esisteva in Sud Africa».

Per i militari, che descrivono le strade interdette ai Palestinesi come «sterili», questa politica non fa altro che rispondere a considerazioni di sicurezza. Ma è evidente che il sistema stradale della Cisgiordania è uno strumento, come la barriera di 700 chilometri, per consolidare i blocchi dei colonizzatori e modellare il territorio. «Il regime stradale non è questione di una legge, è il risultato di decisioni prese a livelli governativi e militari», commenta Goldreich. «Quando io guardo tutte queste carte e guardo le strade, tutto ciò mi ricorda Alice nel Paese delle Meraviglie. Ci sono delle strade per gli israeliani, delle strade per i palestinesi, e delle strade per israeliani e palestinesi», aggiunge. «Strade, checkpoint, il muro, tutto stabilito. Io guardo e mi domando: chi c’è dunque dietro a tutto ciò?»

Tre anni fa, il quotidiano israeliano Haaretz aveva pubblicato alcune dichiarazioni dell’ex Primo Ministro italiano, Massimo D’Alema. D’Alema raccontava come, qualche anno prima ancora, Sharon gli avesse confidato che a suo avviso, il modello dei bantustan constituiva la migliore soluzione al conflitto con i palestinesi. D’Alema aveva fatto quella confidenza in occasione di un pranzo ufficiale a Gerusalemme. Uno dei partecipanti al pranzo mise in discussione il racconto di d’Alema, dicendo a quest’ultimo che non aveva potuto che interpretare a modo suo, e non riportare fedelmente le proposte di Sharon. «Niente di tutto ciò signore, ciò che ho detto non è un’interpretazione delle parole del vostro primo ministro. E’ una citazione esatta», ribatté D’Alema. Essendo Sharon ormai fuori gioco, il suo successore Ehud Olmert si è impegnato a definire definitivamente le frontiere di Israele, spingendosi profondamente all’interno, e conservando per lo Stato ebraico l’intera città di Gerusalemme.

Allora, è apartheid?

Tutti coloro che hanno conosciuto il vecchio Sud Africa e che mettono piede oggi in Israele a prima vista non trovano molte particolari similitudini tra i due paesi. Qui non ci sono segnali che indicano ciò che è riservato agli ebrei, e vietato ai non ebrei. Ma come nel Sud Africa bianco, c’è tutto un mondo di discriminazione e di oppressione che la maggioranza degli israeliani rifiuta di guardare in faccia.

I soldati israeliani umiliano e molestano regolarmente i palestinesi ai checkpoint; i coloni sistemano iscrizioni di odio razzista sui muri delle case arabe ad Hebron. A Gerusalemme Ovest, la polizia ha l’abitudine di fare controlli d’identità dei passanti che pensa siano arabi.

Alcune località ebraiche si rifiutano di accogliere gli arabi, adducendo «differenze culturali». Al sindaco di una colonia ebraica è addirittura venuta l’idea di esigere dagli arabi che entrano nella colonia, che portino un distintivo che li identifichi come palestinesi. Negli anni ‘90, l’estrema destra ebraica minacciò commercianti (ebrei), affinché licenziassero i loro impiegati arabi. Coloro che si piegarono a tale ingiunzione dovettero mettere la targa «Qui non ci sono arabi». Alcuni tentavano perfino di camuffare quest’odio razziale in combattimento religioso, ma negli stadi di calcio, è «morte agli arabi» che si sente, e non «morte ai musulmani».

La stampa israeliana tralascia largamente l’occupazione sui quotidiani nonostante i reportage di qualche giornalista coraggioso, che denunciava i numeri particolarmente alti di bambini palestinesi uccisi dai soldati (oltre 650 dall’inizio della seconda Intifada nell’ottobre 2000, dei quali un quarto aveva meno di 12 anni); gli attacchi dei palestinesi da parte dei coloni, e la continua umiliazione ai checkpoint.

Il muro alto 8 metri costruito a Gerusalemme è pressoché invisibile agli occhi degli abitanti ebrei della parte occidentale della città. La maggior parte degli abitanti ebrei della città non vede questo mammut di cemento che divide le strade e le famiglie, come non vede le case demolite – esattamente come la maggior parte dei bianchi del Sud Africa restavano lontani dalle bidonville, ed erano sordi a ciò che veniva compiuto in loro nome.

Poco dopo il mio arrivo a Gerusalemme, fui invitato a pranzo da una famiglia ebrea di sinistra. C’erano a tavola un editore americano, uno storico rinomato, e molti militanti politici. Iniziammo a parlare dei palestinesi, e la conversazione degenerò presto sulla questione di stabilire se questi ultimi «meritassero» o no di avere uno stato. L’Intifada, e gli attentati suicidi che l’hanno accompagnata, giustificavano agli occhi di molti i 37 anni di occupazione, e cancellavano i crimini commessi contro gli arabi che si trovavano sotto la sua dominazione.

Tutto ciò mi ricordava conversazioni tenute in Sud Africa, e bisogna anche dire che l’immagine dei palestinesi, nell’opinione israeliana, non era molto lontana da quella che avevano numerosi bianchi sudafricani nei confronti dei neri. I sondaggi mostrano che per molti israeliani, l’Arabo è «sporco», «primitivo», «violento », senza considerazione per la vita umana.

Sharon fece entrare nel suo governo uomini che si richiamavano apertamente alla pulizia etnica, con misure che oltrepassavano nettamente il trasferimento forzato delle popolazioni alle quali si abbandonò il regime dell’apartheid. Uno di quegli uomini era il ministro del Turismo, Rehavam Ze’evi, avvocato del «trasferimento» degli arabi fuori d’Israele e dei territori occupati. Perfino la stampa israeliana lo qualificava apertamente di razzista. Ze’evi fu ucciso nel 2001 da alcuni palestinesi, i quali dichiararono che la politica di quest’uomo lo rendeva un bersaglio legittimo.

Ma le opinioni di Ze’evi non sono morte con lui. Un deputato influente del partito Likud, Uzi Cohen, ha dichiarato che Israele ed i suoi alleati occidentali dovranno esigere che una parte della Giordania sia staccata dal regno ed eretta a stato Palestinese, nel quale gli arabi dei territori occupati avranno 20 anni per emigrare «volontariamente». «Nel caso essi non dovessero partire, bisognerà avvisarli della loro espulsione con la forza», aggiunge Cohen. Uzi Cohen è uno dei 70 parlamentari che hanno depositato una proposta di legge che tende all’instaurazione di una « Giornata nazionale del ricordo » di Rehavam Ze’evi, e la creazione di una istituzione destinata a perpetuare il suo «messaggio».

Nel 2001, Uzi Landau fu nominato da Sharon ministro della sicurezza, una funzione di cui ha approfittato per proporre, apertamente, la deportazione dei palestinesi verso la Giordania, perché erano un ostacolo all’espansione di Israele in Cisgiordania.

Sharon non si oppose che raramente ad un tale discorso, e, quando lo faceva, non era per condannare il razzismo o l’immoralità. Una volta, Sharon rispose a dei membri del suo partito, il Likud, che facevano pressioni su di lui per deportare i palestinesi, che non poteva farlo, «perché la situazione internazionale non lo avrebbe tollerato».

«Ci sono dei fanatici oggi che parlano del Grande Israele», commenta Krausz, i sopravvissuti al genocidio, sempre a Johannesburg. «Ci sono alcuni che dicono che è scritto nella Bibbia che questa terra è nostra, che Dio ce l’ha donata. Per me, è fascismo».

Espropriazione coloniale

Yossi Sarid, un deputato israeliano di sinistra, si esprimeva in questo modo, a proposito di un ministro che reclamava la partenza forzata degli arabi: «I suoi propositi mi ricordano quelli tenuti da altri popoli, in altri paesi, e che hanno contribuito all’annientamento di milioni di ebrei». Essi ricordano anche quelli di PW Botha, un uomo che accederà poi alla presidenza del Sud Africa. Nel 1964, quando era il ministro incaricato degli «Affari della gente di colore», Botha disse: «io sono di quelli che pensano che non ci siano delle zone di residenza permanente, se non per una parte solamente dei Bantus, nella zona bianca del Sud Africa: questa questione è cruciale per l’avvenire del Sud Africa. Se noi accettiamo il principio di una residenza permanente dell’uomo nero in zona bianca, allora questo è l’inizio della fine della civilizzazione che conosciamo in questo paese».

Ci fu un tempo nel quale moltissimi israeliani parteggiavano per il punto di vista di un certo Ze’evi, o quello di un certo Cohen. Ma nel corso degli ultimi dieci anni, molti hanno accettato il progetto della creazione di uno stato palestinese, come mezzo per liberarsi dalla responsabilità della sorte della maggioranza degli arabi. Separazione. Apartheid.

Salvo che l’apartheid sudafricana era una cosa diversa di una semplice separazione. «L’apartheid era una questione di territorio», analizza John Dugard, avvocato sudafricano ed esperto delle Nazioni Unite per i diritti umani. «Con l’apartheid, il progetto era di custodire per i bianchi le terre migliori del paese, e di inviare i neri nelle parti meno abitabili, le meno attraenti del paese. E si può vedere continuamente questo fenomeno, qui nei territori palestinesi occupati, in particolare adesso con il muro, che rappresenta veramente un furto della terra. Si vedono i palestinesi spossessati delle loro case distrutte dai bulldozer. Si possono stabilire certi paralleli con la situazione sudafricana, poiché molto tempo dopo l’apartheid, i trasferimenti delle popolazioni si sono tradotti anche in demolizioni. Ma non allo stesso livello che si è visto a Gaza e in Cisgiordania».

Arthur Goldreich è reticente su questo genere di paragone. «L’analogia sembra fondata, pure allettante. Personalmente, da tempo sono molto reticente, e lo resto, per ricorrere a questa analogia, perché io penso che sia troppo comoda. Tutto ciò non mi impedisce di pensare che ci siano somiglianze straordinarie fra tutte le forme di discriminazione razziale», spiega.

« Ci è possibile descrivere ogni bantustanismo al quale noi assistiamo attraverso le sue politiche d’occupazione e di separazione: ciascuno ha il suo vocabolario e le sue proprie implicazioni, e non è necessario cercare esempi esterni per trovarli», prosegue.

Kasrils è dello stesso avviso. «Si, ci sono paralleli enormi con l’apartheid sudafricana, ma l’inconveniente, quando si fa il paragone, è che questo ci allontana dal contesto locale», dice. «Sarebbe preferibile un’altra definizione. Io sono stato colpito dal fenomeno dell’espropriazione, dell’espropriazione coloniale. Storicamente la maggioranza delle espropriazioni nel corso dei secoli si fece con i coloni ed il trasferimento forzato delle popolazioni. In Sud Africa, ciò fu un processo che si sviluppò in 300 anni. Qui, si è concentrato in 50 anni: 1948, 1967, e oggi, in termini di aumento della pressione militare in Cisgiordania ed a Gaza a causa del muro, che io non chiamo muro di sicurezza, ma muro dell’espropriazione».

Hirsh Goodman è emigrato in Israele da trent’anni, dopo aver effettuato il servizio militare nell’esercito sudafricano. Suo figlio, al contrario, è andato in Sud Africa dopo aver fatto il servizio militare nell’esercito israeliano. «L’esercito l’ha inviato nei territori occupati, ed ha detto che non perdonerà mai al suo paese di averlo forzato a fare quello che ha fatto», dice suo padre, specialista di affari di «sicurezza» all’università di Tel-Aviv. Per Goodman, Israele ha qualche conto da rendere, ma è esagerato parlare di apartheid. «Se Israele trattiene i territori arabi occupati, cessa di essere una democrazia, in questo senso, l’apartheid significa avere due categorie di cittadini, creare una legislazione a due velocità, questo era l’apartheid. Con norme differenti per l’accesso all’educazione, alla salute, o l’apertura di un conto. Ma non si può dire che questo sia uno stato d’apartheid quando il 76% della gente dichiara di volere un accordo con i palestinesi. Si, c’è discriminazione contro gli arabi, gli etiopi e altri, ma questa non è una società razzista. Colonialismo, si, apartheid, no. Questa parola dell’apartheid significa molto per me, quindi detesto che se ne abusi».

Daniel Seidemann, un avvocato israeliano che si batte contro il comune di Gerusalemme sul fronte delle abitazioni e della pianificazione urbana, dice che in passato, non sopportava più il paragone con l’apartheid sudafricana, ma che è sempre più negativo respingere tale nozione oggi. «A livello viscerale, diciamo che la mia prima reazione era di pensare ‘Ah no! Noi no! Mio Dio, noi mai!’ Normale, quando l’apartheid era basata su una ideologia razziale, che strutturava le realtà sociali, politiche, economiche. Per un ebreo, riconoscere la predominanza d’una visione razzista per dominare i palestinesi è dura da digerire», dice. «Ma disgraziatamente, l’assenza di una ideologia razziale non è sufficiente a proteggervi, perché le realtà che sono emerse ricordano chiaramente, per certi versi, aspetti del regime dell’apartheid».

Ci si può allora domandare che cosa è successo per poter essere arrivati a questo paragone fra Israele e l’apartheid. Israele è la vittima delle circostanze, e costretto a praticare l’oppressione per la necessità della propria sopravvivenza? Oppure, la sete di terra è un ingrediente così potente del progetto sionista che la dominazione ne è stata la conseguenza inevitabile?

Krausz ha lavorato per qualche anno in Israele, poco dopo la nascita dello stato. «Io ho capito il conflitto, rendendomi conto che tentavo di prendere la terra sulla quale i palestinesi vivevano da molti secoli. Ho capito che per spiegare la guerra d’indipendenza del 1948 non era sufficiente una spiegazione manichea: molti arabi sono partiti, non volontariamente, ma perché sono stati forzati a farlo. Come si sarebbero comportati se non ci fosse stata la guerra, io non lo so», dice.

«So bene che al punto in cui mi è capitato di perforare alla ricerca del petrolio, ero sull’area di quello che era stato un villaggio arabo. Essendo di origine sudafricana, avevo l’abitudine di visitare amici e parenti, un cugino specialmente, il quale aveva creato un kibbutz con degli immigrati dal Sud Africa. Io giravo di qui e di là in quella regione, e visitavo ovunque quei villaggi arabi abbandonati, dove si erano fatte saltare le case con l’esplosivo».

Lo stato di paura

In Israele, almeno fino alla fine degli anni ‘70, le minacce che facevano pesare i suoi vicini arabi erano ben reali. Ma anche la paura giocava un ruolo nel comportamento dei bianchi del Sud Africa, il quali osservavano con orrore crescente, poi con terrore, il declino imperialista sul continente, e l’emergenza dei governi neri ovunque in Africa. Il Sud Africa fece un buon uso di tutti quei racconti di donne bianche violentate nel nuovo Congo indipendente, poi dei bianchi fuggiti in massa dall’Angola, dal Mozambico o dalla Rhodesia del Sud (oggi Zimbabwe, NDT); il potere dell’apartheid se ne serviva per impaurire i suoi cittadini bianchi, e giustificare davanti a loro le misure sempre più repressive contro il popolo nero. Di fatto, questa paura esisteva realmente. I sudafricani bianchi, come gli israeliani, si convinsero che la loro stessa esistenza era in gioco.

I critici dello Stato di Israele dicono volentieri che più le minacce sull’esistenza del paese prende terreno, e più il paese tende ad assomigliare al modello dell’apartheid, specialmente per ciò che riguarda l’appropriazione delle terre e la legislazione sui diritti di residenza, e che le somiglianze sono diventate finalmente più forti delle differenze tra i due paesi. Liel, l’ex ambasciatore d’Israele in Sud Africa, dice che non ce n’è mai stata intenzione in questo senso.

«I problemi esistenziali di Israele erano reali. Si ha sempre vergogna delle ingiustizie commesse. Noi abbiamo sempre cercato di governare in modo democratico. Sicuramente, a livello individuale, c’era molta discriminazione, molta, troppa. A livello governativo anche. Ma le nostre azioni non erano costruite sul razzismo. Esse erano principalmente delle considerazioni di sicurezza», dice.

Goldreich non è d’accordo con lui. «E’ una distorsione grossolana dei fatti. Liel mi sorprende. Nel 1967, durante al guerra dei Sei Giorni, nell’euforia generale, il governo israeliano – di proposito, non per grazia di Dio né incidentalmente – occupò la Cisgiordania e la striscia di Gaza, con le loro popolazioni palestinesi ormai imprigionate, con l’evidente intenzione di estendere il territorio del paese e di ridiscuterne le frontiere», risponde.

«Io stesso, con altri, ci impegnammo politicamente dopo la guerra dei Sei Giorni; cercammo disperatamente di convincere il nostro pubblico che un accordo di pace tra Israele e palestinesi sarebbe stato molto meglio, per la sicurezza, che l’occupazione dei territori e gli insediamenti dei coloni. Ma il governo amava di più i territori della sicurezza».

«Sono convinto che nello spirito di numerosi dirigenti governativi, la miglior cosa da fare era di sbarrazzarsi degli arabi».

Ma, come gli israeliani avrebbero scoperto, un tale sistema incontra necessariamente la resistenza di coloro ai quali lo si vuole imporre. L’apartheid si sfasciò perché la società sudafricana era esaurita, ma anche perché il mito delle vittime che i bianchi si erano forgiati finì per esaurirsi a sua volta. Israele non è ancora arrivato a questo punto. Molti israeliani si considerano ancora come vittime dell’occupazione.

Per Seidemann, la cosa più importante non era di vedere come il sistema dell’apartheid funzionasse, ma piuttosto come si è disintegrato. «Non poteva funzionare. L’apartheid esigeva una tale mobilitazione di energie da parte del Sud Africa, che questa fu una delle ragioni, al di là delle sanzioni economiche e delle pressioni internazionali, che portarono il governo De Klerk alla conclusione che non fosse più difendibile. Questo succederà anche in Israele», secondo lui.

Ma il conflitto può anche peggiorare, e portarci ad evocare paralleli ancora più scioccanti di quello stabilito con l’apartheid sudafricana.

Arnon Soffer ha lavorato molti anni come consigliere del governo incaricato della «minaccia demografica» costituita dagli arabi. Professore di geografia all’Università di Haifa, Soffer fa un pronostico pessimista sulla situazione nella striscia di Gaza una generazione dopo il ritiro israeliano.

«Quando voi avrete 2,5 milioni di persone che vivono nei territori chiusi, sarà una catastrofe umanitaria. Queste persone diventeranno animali ancora più feroci di oggi, con la forza della follia del fondamentalismo islamico. La pressione alle frontiere diventerà orribile. Ci sarà una guerra terribile. Allora se noi vogliamo rimanere vivi, bisognerà uccidere, uccidere e ancora uccidere. Uccidere tuta la giornata, tutti i giorni», dichiara questo universitario sul Jerusalem Post.

« Se non uccidiamo, cesseremo di esistere. La sola cosa che mi preoccupa, è come si farà affinché giovani e uomini inviati per massacrare siano capaci di ritornare a casa e di rimanere degli esseri umani normali».
Fine.

Fonte: http://www.guardian.co.uk/
Link: http://www.guardian.co.uk/israel/Story/0,,1704037,00.html
Chris McGreal – The Guardian
07.02.2006

Traduzione per www.comedonchsiciotte.org a cura di MARIA VITTORIA GAZZOLA

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