DI RITA PENNAROLA
La Voce della Campania
Mentre l’Italia diventa un Paese sempre più “sudamericanizzato”, con una forbice abissale che separa oligarchie opulente da vecchi e nuovi poveri, andiamo a cercare alcune ragioni nascoste del disavanzo pubblico, di quelle stesse spese folli che si rinnovano ad ogni legislatura che cambia. E portiamo alla luce due categorie, una pubblica, l’altra privata, che non temono la “quarta settimana”.
La notizia, travolta nell’euforico sciocchezzaio dei festeggiamenti di fine anno, è passata completamente inosservata. Nella notte fra il 22 e 23 dicembre a Napoli, capitale mondiale dell’immondizia, uno dei rari camion della NU in circolazione ha caricato insieme al cumulo di rifiuti abbandonati in strada da settimane un extracomunitario di 57 anni. Dormiva. Forse era ubriaco. In un primo momento, pare che non si sia accorto di nulla. Il suo corpo è stato triturato dalle pale meccaniche del mezzo prima che qualcuno, uditi i gemiti, provvedesse ad arrestare quell’orrendo tritacarne umano che, la notte dell’antivigilia di Natale, stava riducendo a brandelli il corpo di un immigrato clandestino arrivato a Napoli per cercare fortuna. «Ivan Kovardakov di origine moscovita – si legge nell’unica, scarna agenzia del 30 dicembre – ha subito un delicato intervento chirurgico di ricostruzione dell’anca e del femore».Così va il mondo e così continuano ad andare Napoli e questo Paese, in cui il divario fra oligarchie straricche e fasce di popolazione in avanzato scivolamento verso i limiti della sopravvivenza diventa ogni giorno più simile a una voragine, un buco nero che inghiotte – ora non solo metaforicamente – intere generazioni di esseri umani. Qualche dato. Secondo il rapporto annuale dell’Istat nel 2005 vivevano in condizioni di povertà oltre 7 milioni e mezzo di persone. Fanalino di coda, come sempre, il Sud: il 42,5% delle famiglie meridionali dichiara di non poter far fronte a una spesa imprevista di 600 euro, il 28,3% non ha avuto soldi per comprare vestiti; il 22,4% non ha potuto permettersi di riscaldare la casa in modo adeguato; il 21 ha avuto difficoltà a pagare le spese mediche. Il 7,4 per cento dichiara di non aver avuto i soldi per comprare il cibo.
A fronte di questo crescente esercito di precari dell’esistenza, mentre anche la Finanziaria 2007 sta facendo assaggiare i primi, consistenti rincari di tariffe e beni essenziali, andiamo a fare un po’ di conti in tasca a piccoli e grandi “nababbi” di casa nostra e soprattutto guardiamo a coloro che lo sono diventati (in senso relativo), potendo contare su retribuzioni elevate, fisse ed in continua escalation. Abbiamo preso a titolo di esempio due categorie tra le più fortunate, una nel settore pubblico, l’altra in quello privato: i magistrati e i funzionari ai massimi livelli di Telecom Italia, la holding recentemente finita nell’occhio del ciclone. E proprio avvicinandoci alla categoria del magistrati scopriamo subito nomi e numeri di un clamoroso spreco, tutto italiano, che si poteva e si doveva evitare.
COMMISSIONI USA E GETTA
Governo che viene, commissione che va. Potrebbe essere riassunta in questa semplice formuletta la storia infinita delle commissioni insediate al ministero della Giustizia per riformare codici e codicilli. Centinaia di esperti – magistrati, docenti universitari, avvocati – sottratti alle loro normali attività, riuniti in migliaia di sedute, retribuiti e profumatamente rimborsati con denaro pubblico (missione di viaggio, gettone di presenza, e poi soggiorni in hotel della capitale, pranzi, cene, aerei o treni), per poi essere “regolarmente” mandati a casa e sostituiti in blocco, ogni volta che cambia l’esecutivo di governo. Tutto cancellato. Non serve più. A luglio 2006, quando si è aperta l’era del guardasigilli Clemente Mastella, si è ufficialmente insediata la nuova Commissione di studio per la riforma del codice penale presiduta dal penalista e deputato del Prc Giuliano Pisapia. Tra esperti, consulenti e commissari effettivi, il team è composto da 28 professionisti, più quattro funzionari di via Arenula con mansioni di segreteria. Fra gli altri spiccano i docenti universitari Luciano Eusebi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, Luigi Ferrajoli ed Antonio Fiorella dell’Università degli studi Roma Tre e il partenopeo Sergio Moccia della Federico II. Fra i giudici, Antonio Balsamo e Piergiorgio Morosini del Foro di Palermo, Donato D’Auria del tribunale di Napoli, Franceco De Socio, pm a Voghera e i magistrati di Cassazione Giorgio Lattanzi e Giovanni Silvestri. Nel comitato scientifico fa il suo ingresso l’avvocato Franco Coppi, passato alla storia come difensore di Giulio Andreotti; fra i “tecnici”, il penalista partenopeo Fabio Foglia Manzillo.
«Ognuno di voi – ha raccomandato il ministro Mastella incoraggiando la sua task force – può dare la carica di ossigeno necessaria per mettere a punto questo progetto». La scadenza ultima per la consegna delle conclusioni è fissata al 31 luglio 2007. Solo 12 mesi per portare a termine la revisione del vecchio Codice Rocco di epoca fascista. Più facile andare sulla luna. E forse lo sa anche il ministro: «Fate il vostro lavoro il più velocemente possibile, è l’unico impegno che vi chiedo». Anche perchè di commissioni che avevano lavorato su questo delicato terreno istituzionale – e con risultati, a detta degli esperti, anche buoni – finora ne erano state mandate a casa ben tre. «Credo che oggi esistano le condizioni che non ci sono state in altre circostanze», sprona Mastella.
Ma intanto, solo a ripercorrere la storia di questa commissione, vengono i brividi per il denaro speso e le energie in buona parte sprecate. Andiamo a ritroso. Nella passata legislatura, sotto il ministro leghista Roberto Castelli, era stata insediata ed aveva lavorato per ben cinque anni la commissione capitanata dal magistrato Carlo Nordio, figura di alto profilo, notoriamente simpatizzante della destra. «Il presidente – ricordano a Napoli nell’entourage di Pietro Lignola, al vertice della Corte d’Assise Appello e membro della commissione Nordio – si spostava nella capitale un paio di volte al mese, restandovi alcuni giorni per partecipare ai lavori della commissione, cui ha dedicato molte energie ed impegno professionale. Le conclusioni cui erano pervenuti, per quanto ancora non definitive, riguardavano aspetti rilevanti, come ad esempio il livello di discrezionalità del giudice nella valutazione delle attenuanti o delle aggravanti al momento di decidere sulle esigenze di custodia cautelare». In pratica, le ragioni per le quali saltiamo sulla sedia ogni volta che un camorrista pluriassassino viene clamorosamente rimesso in libertà.
«E’ assurdo – commenta il costituzionalista e senatore Ds Massimo Villone, che con il recente volume Il costo della democrazia ha acceso i riflettori sullo sperpero evitabile della cosa pubblica – impiegare energie e risorse in commissioni che poi vengono sistematicamente sostituite col cambio delle maggioranze. Meglio sarebbe far lavorare team di professionisti bipartisan, il cui prezioso apporto scientifico sia ben al di sopra dei partiti e delle compagini governative». Il codice penale insomma, sia chiaro, non dovrebbe essere nè di destra nè di sinistra. Invece, tutti a casa. Istituita per decreto il 23 dicembre 2001 (scadenza prevista dopo i canonici 12 mesi), la Commissione Nordio era stata integrata e prorogata addirittura nove volte. 21 i membri che la componevano inizialmente. Nel 2003 diventano ben 44, molti dei quali provenienti da diverse parti della penisola. Fra gli altri, oltre allo stesso Lignola, i magistrati Antonio Sardiello di Brindisi, Sebastiano Sorbello di Asti, Mirko Stifano di Rovigo, Arturo Toppan di Treviso.
Chiediamo a un funzionario contabile del Parlamento quanto, grosso modo, ci è costata questa commissione. «Ad un calcolo semplice, considerando fra rimborsi, gettone e indennità di missione una spesa media pari a 250 euro al giorno per ciascun componente, pari a circa 1.000 euro al mese (nel caso di una seduta di un paio di giorni ogni due settimane, ndr), possiamo parlare di una spesa annua pari a circa 10.000 euro a testa. Il che significa che nei cinque anni di legislatura, per questa sola commissione da 44 membri, il costo potrebbe aver superato i 2 milioni di euro».
Fra i componenti di spicco del team guidato da Nordio c’era il penalista partenopeo Alfonso Stile, ordinario di Diritto penale alla Sapienza. «Ho lasciato presto la Commissione – spiega – perchè ci si chiedeva di lavorare in gran fretta e non condividevo questo metodo. Comunque, almeno nel mio caso, non è stato speso nemmeno un euro, dal momento che insegno a Roma, dove ha sede anche il mio studio professionale». Il problema vero è stato che «mentre la commissione lavorava alacremente per riformare il codice, il governo procedeva a colpi di decreto legge, come è accaduto ad esempio con la Cirielli, stravolgendo di fatto il senso stesso di quella corposa attività».
Prima delle commissioni Pisapia e Nordio, altri governi avevano destinato somme del bilancio dello Stato per insediare analoghi staff di professionisti con l’identico scopo. Non erano stati portati a termine, ad esempio, i lavori della commissione guidata dal celebre penalista piemontese Federico Grosso, voluta ai tempi del guardasigilli Giovanni Maria Flick nel primo governo Prodi. Analogo destino per la Commissione Pagliaro che, sotto il ministro Giuliano Vassalli, nei primi anni novanta era arrivata a buon punto prima di fare le valigie per tornare a casa. Lo spreco maggiore, secondo il professore Stile, sta soprattutto «in una organizzazione complessivamente sbagliata, che in molti casi vanifica il consistente dispendio di energie dei magistrati, degli avvocati e dei docenti universitari».
Ma non è ancora finita. Sempre a via Arenula un nuovo “doppione”, finora passato sotto silenzio, merita di essere portato alla luce. E’ quello che riguarda la commissione incaricata di riformare il codice di procedura penale. Presieduta da Giuseppe Riccio, docente alla Federico II e figlio del gavianeo Stefano Riccio, la nuova compagine è composta da 26 personalità e comprende, fra gli altri, i magistrati Tommaso Buonanno, procuratore aggiunto a Bergamo, il giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Raffaello Magi, il procuratore capo di Reggio Emilia Italo Materia, il pm partenopeo Giovanni Melillo, il giudice del tribunale di Napoli Maurizio Stanziola e, dalla Cassazione, Giuseppe Santalucia. Durante il governo Berlusconi l’identico compito era stato affidato alla Commissione presieduta dal penalista salernitano Antonio Dalia, affiancato dai magistrati partenopei Luciano D’Angelo ed Angelo Di Salvo, nonchè dai consiglieri di Cassazione Nicola Milo e Giovanni Silvestri. In tutto, 21 componenti iniziali, balzati poi a 31 unità nel gennaio 2005. Anche lì, tanto lavoro, centinaia di migliaia di euro volati via, e poi tutti a casa.
IN NOME DELLA TOGA
I primi, insomma, ad aggirare elementari principi di rigore in fatto di spesa del denaro pubblico sono stati i guadasigilli succedutisi nel corso delle legislatura: proprio loro che dovrebbero essere i massimi tutori della legalità. In ogni caso, che siano dirottate in commissioni di riforma dei codici oppure distaccate nei rivoli degli altri mille incarichi che annualmente vengono conferiti ai magistrati (al punto che da quest’anno il Csm è corso ai ripari, ponendo un tetto massimo al fenomeno), le toghe italiane rappresentano una fra le categorie del pubblico impiego meglio retribuite. E per le quali, finora, difficilmente può scattare la sindrome della quarta (e ormai anche terza) settimana, che attanaglia buona parte delle famiglie a reddito fisso. Diamo una rapida occhiata alle retribuzioni lorde, precisando che si tratta di quelle riferite al 2004 e che quindi avranno subito nel frattempo quanto meno gli adeguamenti Istat. Un magistrato di tribunale dopo appena tre anni di nomina percepisce uno stipendio di 5.800 e passa euro, cui se ne aggiungono mensilmente altri 3.000 circa fra indennità integrativa speciale ed indennità giudiziaria. In Corte d’Appello lo stipendio base passa ad oltre 8.500 euro, più le predette integrazioni. Eccoci in Cassazione: la retribuzione qui sfiora ogni mese i 15 mila euro, che arrivano a circa 27 mila nel caso di presidenti e procuratori generali. Il 23 gennaio 2006 un decreto legislativo finalizzato a modificare l’organico dei magistrati addetti alla Corte di Cassazione è stato finanziato con 629.000 euro per l’anno 2005 e con oltre 1 milione e 250 mila euro per il 2006.
Con quale produttività? Gli ultimi dati disponibili sul totale dei procedimenti pendenti nel nostro Paese risalgono al novembre di due anni fa. Cominciamo dall’area Civile. Quasi 4 milioni e settecentomila giudizi risultavano ancora in attesa di definizione (fra primo grado e Appello) a tutto il primo semestre 2005, contro i 4.571.514 dell’anno precedente. In Cassazione, 93.726 pendenti rispetto ai 91.963 di un anno prima.
Passiamo al penale, dove – sempre secondo rilevazioni 2005 del ministero – restavano “in attesa” oltre 5 milioni di giudizi, di cui oltre 30 mila in Cassazione. Ancor più aggiornati i dati sul tempo di giacenza media dei procedimenti nei tribunali italiani, relativi però alle sole Corti d’Appello: si va dai 1.234 giorni di Ancona ai 1.139 di Brescia, con altre punte oltre i mille a Campobasso, L’Aquila e Venezia (che arriva a quota 1.200 giorni). Non a caso il malessere serpeggia all’interno degli stessi ranghi della magistratura, dove le personalità maggiormente impegnate e spesso in prima linea contro la criminalità organizzata puntano l’indice su quella consistente parte della categoria che «vede con preoccupazione le innovazioni finalizzate a snellire il carico di lavoro» o che, per dirla con Brecht, «è assolutamente incorruttibile: non esiste alcun prezzo per costringerli a fare bene il proprio lavoro».
PRONTO, CHI INCASSA?
Lasciamo onori ed oneri del settore pubblico per tuffarci fra i paperoni del privato, dove ben oltre i casi Cimoli e Catania, ci aspetta un esercito di dirigenti e funzionari con appannaggi mensili da favola, al netto dei benefit. Stiamo parlando del colosso Telecom Italia, peraltro oggi nel mirino di di ben due inchieste giudiziarie. La prima riguarda il piano di scorporo di Tim – poi abbandonato – dalla rete fissa Telecom. Condotta dai pm milanesi Francesco Greco, Carlo Nocerino e Laura Pedio ed avviata in seguito ad un esposto presentato dall’attuale numero uno Telecom Guido Rossi, l’inchiesta ha portato nei mesi scorsi a perquisizioni e sequestri di documenti da parte della Guardia di Finanza. Aggiotaggio il reato ipotizzato. Sempre nel capoluogo lombardo i magistrati Stefano Civardi, Fabio Napoleone e Nicola Piacente seguono invece la pista di illeciti come l’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali, rivelazione di segreto di ufficio, appropriazione indebita, falso, favoreggiamento e riciclaggio in merito alle indagini sull’organizzazione capitanata da Giuliano Tavaroli che, dentro la corazzata telefonica italiana, avrebbe dato vita ad una vera e propria centrale di spionaggio privato.
Quanto è costato alle casse Telecom – e agli utenti che pagano la bolletta – un supermanager come il quarantasettenne Tavaroli? Qualche indiscrezione è filtrata al momento della sua uscita di scena. «Lo hanno coperto d’oro purché se ne andasse», maligna qualcuno all’interno. «I soliti tre anni di stipendio che si danno a un dirigente», precisa il diretto interessato. Sul quantum, ci dice qualcosa la hit parade degli uomini d’oro, alti funzionari per i quali complessivamente la società di Marco Tronchetti Provera sborsa ogni anno la bellezza di oltre 20 milioni di euro.
«Quella di Giuliano era una retribuzione equiparabile ai più elevati livelli», ci dice a mezza bocca un dipendente in odor di prepensionamento. «Tipo?», proviamo a chiedere. Qualche dato annuo trapela, ma lordo e relativo al 2004. Quasi 1 milione di euro avrebbe percepito in quel periodo Ramon Grijuela, mago della banda larga. Poco meno a Stefano Mazzitelli (superesperto in piattaforme virtuali) e Marco Ragazzini, ingegnere, proveniente dalla Telbios, specializzata in telemedicina e controllata Telecom. Stiamo viaggiando intorno ai 7-800 mila e passa euro annui. Lordi, ma del 2004. Scendiamo. Fra i 5 e i 600 mila euro l’anno ecco ad esempio il direttore commerciale clienti Marco De Lorenzo, o il responsabile customer operations Saverio Locati. E ancora, nella stessa fascia miliardaria (in lire), manager come Mauro Nanni, Riccardo De Angelis, Alessandro Talotta, Giancarlo Grimaldi, Sergio Fogli. «Stipendi altissimi – ringhia un dipendente Telecom anche lui con lo spettro della “terza settimana” – non giustificati rispetto al disagio economico e finanziario in cui oggi si trova il gruppo, e soprattutto se consideriamo che il salario medio di un dipendente di quinto livello si aggira sui 1.200 euro».
Mancano comunque da questo breve e sommario elenco «le persone definite dall’azienda strategiche – aggiunge il lavoratore – che hanno una retribuzione media di 1 milione di euro. L’AD (Riccardo Ruggiero, ndr) ha percepito lo scorso anno circa 7 milioni di euro. Tronchetti Provera, presidente, circa 5. Il numero due Carlo Buora, altrettanti». Napoletano, appena quarantaseienne, Riccardo Ruggiero è figlio di Renato Ruggiero, ministro degli esteri nel secondo governo Berlusconi. Non a caso il giovane Riccardo proviene dalla Fininvest, dove aveva incominciato la scalata nel 1986 come direttore vendite. Nel 2004 è stato incoronato dal Sole 24 Ore manager più pagato d’Italia, con 7,2 milioni di euro al lordo di tasse e altre ritenute. Il manager partenopeo non si limita al ruolo di numero uno in Telecom. Attualmente risulta infatti anche presente nei cda di colossi come Safilo, Tim Italia spa, Progetto Italia spa, Telecom Italia Sparkle e Duel, altra corazzata da oltre 500 mila euro in dote, della quale risulta procuratore. Ne sono azionisti la srl Pixidis, la spa Euphon, il quarantenne Giovanni Giusti ed il palermitano Antonio Di Noto. La società, che spazia nelle nuove applicazioni dell’informatica alla tv, ha realizzato fra l’altro progetti per ministero delle Finanze, Rai e Società Autostrade.
A peso d’oro
Bonus, stipendi e liquidazioni da capogiro. Ecco una classifica provvisoria dei manager e funzionari di Stato pagati – è il caso di dirlo – a peso d’oro. In cima alla hit c’è naturalmente lui, Giancarlo Cimoli, con 2 milioni e 700 mila euro dichiarati durante la permanenza (disastrosa) al vertice di Alitalia. Per “strappare” le sue competenze alle Ferrovie dello Stato la compagnia aerea di bandiera dovette sudare le proverbiali sette camicie. Per concedersi Cimoli chiese ed ottenne dal colosso ferroviario una liquidazione da oltre 6 milioni di euro. Ha lasciato i binari anche Elio Catania, premiato con una buonuscita da 7 milioni dopo aver lasciato perdite per 1,3 miliardi nel 2006. Prima della “cura” Catania l’azienda dichiarava utili per 31 milioni. Stiamo parlando di “spiccioli”, se confrontati alle “buonuscite” elargite nel 2004 all’ex numero uno Pirelli Giovanni Ferrario (17,7 milioni di euro) o al mitico Cesare Romiti quando dovette lasciare l’amata Rcs (16,8 milioni). E che dire del “povero” Giampiero Pesenti? Solo 7 milioni dopo vent’anni passati alla guida di Italcementi. Passiamo in casa Poste, dove l’AD Massimo Sarni riceve una retribuzione annua pari a quasi 3 miliardi delle vecchie lire. «Negli ultimi quattro anni – ricorda il quotidiano Liberazone – alle Poste è stata cambiata tutta la prima linea dirigenziale, con una spesa per le buonuscite di almeno 8 milioni di euro».
A quasi tutti è stata applicata la regoletta del tre: l’equivalente di tre anni di stipendio in cambio delle dimissioni. Poveretti. A noi resta la soddisfazione di aver retribuito con oltre 4 milioni di euro l’anno Paolo Scaroni finchè è stato alla guida dell’Enel e con 1,89 milioni il caro buon Luciano Moggi prima che la bufera giudiziaria lo allontanasse dal vertice della Juve. Più giù? Andiamo. Al direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli vanno 600 mila euro l’anno (ma ne dichiara altri 1 milione e 800 mila come guadagni all’estero). 450 mila per il numero uno Bankitalia Mario Draghi. Corrado Calabrò, presidente della Authority TLC, guadagna 440 mila euro l’anno; Vittorio Crecco, direttore generale Inps, viaggia a quota 270 mila. Fanalino di coda tra i paperoni di Stato è il premier Romano Prodi, che dichiara “appena” 200 mila euro l’anno.
“Porcherie” parlamentari
Un discorso a parte meritano, naturalmente, i politici. Parlamentari nazionali e regionali che riescono ancora, nonostante il malessere popolare per la cinghia sempre più stretta nella morsa della finanziaria, a mettere insieme compensi mensili e benefici di tutto rispetto. Allo stipendio base di 5.420 euro, per ogni parlamentare va aggiunto il rimborso spese di soggiorno a Roma: 4 mila euro al mese. Altri 4.190 arrivano tramite il gruppo parlamentare di appartenenza. Siamo arrivati ad oltre 13 mila euro. E gli ulteriori 3 mila per spese di telefonini (4 mila se sono senatori)? E le tessere per la circolazione autostradale, ferroviaria, marittima ed aerea, per tutti i trasferimenti per raggiungere Montecitorio… ne vogliamo parlare? I dati stavolta non sono frutto di leggenda, ma risultano attinti da un comunicato ufficiale emesso recentemente dalle Camere proprio per fare chiarezza.
Ben nutriti anche i nostri europarlamentari, cui vanno ogni 30 giorni non meno di 24.566 euro lordi tra stipendio base, diaria, attività collaterali, spese, portaborse e indennità varie. E quei poveri cristi dei consiglieri regionali? Li ha cucinati a dovere di recente la penna graffiante di Gian Antonio Stella a proposito della tanto conclamata la riduzione del 10 per cento dei loro emolumenti. Stella ricorda come il 6 ottobre scorso, proprio mentre annunciava una Finanziaria da lacrime e sangue, il governo Prodi «è stato chiamato a dir la sua su una legge della Toscana (la 36-2006) che interpretava in modo “elastico” il taglio deciso da Giulio Tremonti nella sua ultima Finanziaria. E poiché non ha trovato motivi per opporsi e impugnare tutto, le nuove norme sono state pubblicate sulla Gazzetta ufficiale del 28 ottobre. Diventando operative, sconti compresi».
In sostanza, grazie ad una serie di scappatoie, votate all’unisono da quella che Stella definisce la “Grosse koalition” all’italiana, quel taglio praticamente non c’è più. Ricorda Gerardo Mazziotti nel suo libro L’assalto alla diligenza che «lo stipendio mensile lordo del compagno Nichi Vendola, governatore della Puglia, è di ben 24.619,94 euro e quello di un consigliere della regione Sicilia è arrivato a 20.195,45 euro». Ed è di appena qualche giorno fa la raffica di dichiarazioni al vetriolo rese dal parlamentare diessino Cesare Salvi, autore con Massimo Villone de Il costo della democrazia. Commentando alcuni aspetti della Finanziaria Salvi parla di autentiche “porcherie”. Dentro il documento contabile sono ad esempio contenute deroghe grazie alle quali gli stipendi dei manager di Stato non saranno sottoposti ad alcun tetto, «perché si prevedono 500 mila euro “elevabili” a 750 mila e perfino una deroga ad libitum del ministro». C’è di peggio: «con una norma che grida vendetta, questa somma, di fatto indeterminata, viene rivalutata annualmente in base al tasso di inflazione: i manager pubblici sono oggi gli unici lavoratori in Italia a godere della scala mobile». Svelato infine il “mistero” sul taglio al compenso dei ministri: «La riduzione del 30 per cento dello stipendio dei ministri vale solo per coloro che sono contemporaneamente deputati o senatori». Quanto alle decurtazioni per i parlamentari e i consiglieri regionali, semplicemente «sono state tolte».
Hanno avuto maggior pudore in Brasile. Sì, proprio nella capitale delle diseguaglianze a fine dicembre il parlamento ha respinto la richiesta generalizzata di aumento delle retribuzioni. Sindacati, associazioni professionali, movimenti studenteschi, ma anche la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile avevano criticato l’aumento dei compensi – che dal 1° gennaio sarebbero passati dagli attuali 12.847 reais mensili (4.550 euro) a 24.600 reais (8.714 euro) – definendolo “immorale”.
Rita Pennarola
Fonte: http://www.lavocedellacampania.it
Link: http://www.lavocedellacampania.it/detteditoriale.asp?tipo=inchiesta1&id=57
Gennaio 2007