PALESTINA:MORTE, DELUSIONE E DEMOCRAZIA

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DI ROBERT FISK

Così la morte di Yasser Arafat sarebbe la nuova grande occasione che si presenta ai Palestinesi? L’uomo che ha personificato la lotta Palestinese – “Il Sig. Palestina” – è morto. In questa maniera le cose possono soltanto migliorare per i Palestinesi. La morte significa democrazia. La morte significa divenire uno stato. Che il finale decesso dell’anziano e corrotto leader della guerriglia debba essere visto come un segnale di ottimismo dimostra soltanto quanto catastrofico sia adesso divenuto il conflitto in Medio Oriente. È un po’ come a Fallujah. Più la distruggiamo, più crudeli siamo, e più luminose sono le probabilità per la democrazia Irachena. Più riusciamo nei nostri intenti, e più le cose peggioreranno. Questo è quello che ha detto George Bush Venerdì scorso: quella violenza aumenterà più si avvicinano le elezioni Irachene – una totale perversione mentale poiché la verità è che più violento diventa l’Iraq, e tanto meno sono le probabilità che una elezione si possa mai tenere.

Notate come Bush non sia stato neppure capace di menzionare il nome di Arafat. È la stessa vecchia storia. I Palestinesi devono avere una democrazia. Devono dimostrare di essere; loro – e non gli Israeliani – devono dimostrare di essere un degno “partner di negoziazione”. E qualunque nuovo leader – l’incolore Ahmad Qureia o l’altrettanto incolore e antidemocratico Abu Mazen – deve saper “controllare la propria gente”. Ossia esattamente quello che Arafat non era riuscito a fare anche se lui pensava che il suo lavoro fosse piuttosto quello di rappresentare la sua gente, che è poi proprio quello che la democrazia è supposta essere.

È degna di menzione la maniera nella quale questa narrativa è stata scritta. Gli Israeliani, con la loro occupazione continuativa, la loro continuativa e illegale costruzione di colonie per gli Ebrei e i soli Ebrei su terra Araba, i loro raid aerei, le loro esecuzioni dagli elicotteri e il loro fuoco sparato ai bambini che lanciano pietre, non fanno parte di questa equazione. Innocentemente starebbero soltanto aspettando di trovare un nuovo “partner di negoziazione”, adesso che Arafat è nella tomba. Ariel Sharon, giudicato “personalmente responsabile” dei massacri di Sabra e Shatila nel 1982 dal report della Kahan Commission, continua ad essere, rifacendoci alle parole di George Bush, “un uomo di pace”. Nessuno gli chiede se lui sia in grado di controllare il proprio esercito. O se sia in grado di controllare i propri coloni. Vuole smantellare le colonie a Gaza – anche se il suo portavoce ha detto che questo metterà la creazione di uno stato Palestinese nella “formaldeide”.

Allora diamo giusto uno sguardo indietro a quei tragici anni degli accordi di Oslo. Ci viene fatto credere che nel 1993 ai Palestinesi furono offerte la creazione di uno stato con capitale a Gerusalemme in cambio dell’accettazione del diritto di Israele ad esistere. Gli accordi di Oslo non dissero mai niente del genere. Essi piuttosto stabilirono un complesso sistema di ritiri Israeliani da terra Palestinese occupata e una tabella di marcia che secondo gli accordi gli Israeliani avrebbero dovuto rispettare. Sappiamo tutti che ogni fallimento di procedere in tal senso avrebbe rappresentato una umiliazione per Arafat – e lo avrebbe reso meno capace di “controllare” la sua gente.

E che cosa accadde? È importante, adesso che si suppone che questo sia un momento di “ottimismo”, riflettere sui fatti riguardanti il precedente “processo di pace”, per il quale l’Europa così come gli Stati Uniti spesero così tanto tempo, energia e – nel caso della UE – denaro. Secondo gli accordi di Oslo, la West Bank occupata sarebbe stata divisa in tre zone. La Zona A sarebbe finita sotto esclusivo controllo Palestinese, la Zona B sotto occupazione militare Israeliana in collaborazione con l’Autorità Palestinese e la Zona C sotto totale occupazione Israeliana. Nella West Bank, la Zona A conteneva soltanto l’1.1 per cento della terra mentre a Gaza – sovrappopolata, ribelle e insurrezionale – quasi tutto il territorio sarebbe finito sotto il controllo di Arafat. Lui, dopo tutto, doveva essere il poliziotto di Gaza. La Zona C nella West Bank conteneva il 60 per cento della terra, che avrebbe permesso ad Israele di continuare la rapida espansione degli insediamenti su terra Araba.

Ma una indagine dettagliata indica che non uno di questi accordi di ritiro venne onorato dagli Israeliani. E nel frattempo, il numero di coloni che vivono illegalmente su terra Palestinese dopo Oslo andò crescendo da 80.000 a 150.000 – anche se agli Israeliani, così come ai Palestinesi, era stato proibito di prendere “misure unilaterali” secondo i termini dell’accordo. I Palestinesi videro questo, non senza ragione, come una prova di mala fede.

Poiché i fatti sono a volte evasivi nel Medio Oriente, ricordiamo a noi stessi che cosa è accaduto dopo Oslo. Gli accordi di Oslo II (Taba), conclusi da Yitzhak Rabin nel mese di Settembre del 1995 – il mese che precedette il suo assassinio – promisero tre ritiri Israeliani: dalla Zona A (sotto controllo Palestinese), dalla Zona B (sotto occupazione militare Israeliana in collaborazione con i Palestinesi) e dalla Zona C (sotto esclusiva occupazione Israeliana). Questi ritiri avrebbero dovuto essere completati entro l’Ottobre del 1997. L’accordo di status finale riguardante Gerusalemme, i rifugiati, l’acqua e gli insediamenti avrebbe invece dovuto essere completato entro l’Ottobre del 1999, momento nel quale l’occupazione si sarebbe dovuta intendere conclusa. Tuttavia nel mese di Gennaio del 1997, ad una manciata di coloni Ebrei venne riconosciuto il 20 per cento di Hebron, malgrado secondo gli accordi di Oslo l’obbligo per Israele fosse quello di abbandonare tutte le città della West Bank. Entro l’Ottobre del 1998, ossia un anno più tardi, Israele non aveva ancora portato ad implementazione gli accordi di Taba.

Il primo ministro Israeliano, Binyamin Netanyahu, negoziò un nuovo accordo al Wye River, dividendo il secondo ridispiegamento militare promesso a Taba in due fasi – ma onorò soltanto la prima di queste. Netanyahu promise di ridurre la percentuale della terra della West Bank sotto esclusiva occupazione Israeliana dal 72 al 59 per cento, trasferendo il 41 per cento della West Bank alle zone A e B. Ma nel 1999 a Sharm el-Sheikh, il primo ministro Israeliano, Ehud Barak, ridimensionò l’accordo che Netanyahu aveva preso al Wye River, spezzettando ulteriormente le due fasi stabilite dal suo predecessore in tre, la prima delle quali avrebbe trasferito il 7 per cento dalla Zona C alla Zona B. Tutta l’esecuzione degli accordi si arrestò là.

Quando infine Arafat si recò a Camp David ad incontrare Barak, ci dicono che gli fossero stati offerti il 95 per cento della West Bank e di Gaza ma che lui invece preferì rifiutare per entrare in guerra con la seconda intifada. Uno studio delle mappe, tuttavia, indica che – con l’esclusione di Gerusalemme e dei suoi estesi confini, con l’esclusione delle maggiori colonie Ebree e con l’inclusione di un cordone sanitario Israeliano – ad Arafat era stato offerto soltanto il 64 per cento di quel 22 per cento della Palestina sotto mandato che gli era rimasto. A quel punto una nuova ondata di kamikaze Palestinesi, solitamente diretta ai civili Israeliani, distrusse la pazienza di Israele verso Arafat. Sharon, che aveva provocato la seconda intifada passeggiando sul Temple Mount accompagnato da mille poliziotti, decise che Arafat era un “terrorista” della stessa risma di Bin Laden e ogni ulteriore contatto si concluse lì.

Questa non è intesa essere una scusante per l’OLP o per lo stesso Arafat. La sua arroganza, la sua corruzione e la sua piccola dittatura – inizialmente incoraggiata dagli Israeliani e dagli Americani, che prestarono i loro ragazzi della CIA per “addestrare” i servizi di sicurezza Palestinesi – assicurarono che nessuna democrazia avrebbe potuto prosperare in “Palestina”. E sospetto che mentre provava una personale disapprovazione per i kamikaze, Arafat si fosse reso cinicamente conto che avevano un loro uso; servivano a dimostrare che Sharon non era in grado di dare ad Israele la sicurezza che aveva promesso per la sua elezione, questo almeno fino a quando non ha deciso di costruire il nuovo muro – che sta rubando ulteriore terra Palestinese. Ma questa è soltanto una parte della storia – e la scorsa settimana Bush e Blair sono tornati di nuovo al vecchio gioco di vedere soltanto l’altra parte. I Palestinesi – le vittime di 39 anni di occupazione – devono dimostrarsi degni della pace con i loro occupanti. La morte del loro leader ci viene quindi venduta come una gloriosa occasione che dà speranza. Ma tutto questo fa parte dell’auto delusione di Bush e di Blair. La realtà è che la prospettiva in Medio Oriente è più deprimente che mai.

Ah sì – visto che ci verrebbe posta questa stessa domanda se Sharon fosse andato ad incontrare il suo creatore in maniera ugualmente misteriosa – ma di che cosa è morto esattamente Arafat?

Robert Fisk

Da: www.independent.co.uk
Tradotto da Melektro per www.peacelink.it 18.11.04

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