DI ARUNDHATY ROY
A volte nei vecchi cliché c’è un fondo di verità. Non può esserci una pace vera senza giustizia. E senza opposizione non ci sarà vera giustizia. Oggi, non è solo la giustizia in se stessa a essere sotto attacco, ma l’idea di giustizia.
L’assalto alle sezioni vulnerabili e fragili della società è così totale, crudele e abile che la sua sottile audacia ha intaccato la nostra definizione di giustizia. Ci ha forzato a limitare le nostre vedute e a ridurre le nostre speranze. Anche tra i benintenzionati, il nobile concetto di giustizia viene gradualmente sostituito dal più semplice, e molto più fragile, discorso dei “diritti umani”.
Questo è un cambiamento allarmante. La differenza consiste nel fatto che le nozioni di uguaglianza e parità sono state sfruttate liberamente e sciolte dall’equazione. È un processo di logoramento. Quasi inconsciamente, stiamo cominciando a pensare alla giustizia per i ricchi e ai diritti umani per i poveri. Giustizia per il mondo delle multinazionali, diritti umani per le sue vittime. Giustizia per gli americani, diritti umani per gli afgani e gli iracheni. Giustizia per le caste alte degli indiani, diritti umani per i dalit e gli adivasi (se questi). Giustizia per gli australiani bianchi, diritti umani per gli aborigeni e gli immigrati (a volte nemmeno questo). Sta diventando più che evidente che violare i diritti umani costituisce una parte necessaria del processo di realizzazione di una struttura economica e politica coercitiva e ingiusta nel mondo. Sempre più spesso, le violazioni dei diritti umani vengono ritratte come la sfortunata, quasi accidentale, conseguenza di un altrimenti accettabile sistema economico e politico. Come se fossero un piccolo problema che può venire eliminato con un po’ di attenzione in più da parte di alcune organizzazioni non governative.
Per questa ragione, nelle aree di intenso conflitto – in Kashmir e in Iraq, ad esempio – i professionisti dei diritti umani vengono guardati con una certa diffidenza. Molti movimenti di opposizione, nei paesi poveri che combattono le enormi ingiustizie e contestano i principi che si nascondono sotto ai concetti di “liberazione” e “sviluppo”, vedono le organizzazioni non governative dei diritti umani come missionari moderni arrivati per attutire la brutalità dell’imperialismo – per placare la rabbia politica e per mantenere lo status quo.
Sono solo poche settimane che l’Australia ha rieletto John Howard, il quale, tra le altre cose, ha trascinato la nazione a partecipare all’invasione e all’occupazione illegale dell’Iraq.
Questa invasione sicuramente passerà alla storia come una delle guerre più codarde di tutte. È stata una guerra in cui una banda di nazioni ricche, dotate di sufficienti armi nucleari da poter distruggere il mondo intero diverse volte, si è scagliata irosamente contro una nazione povera, falsamente accusata di possedere armi nucleari, ha usato le Nazioni Unite per costringerla al disarmo, poi l’ha invasa, occupata e adesso è in procinto di venderla.
Parlo dell’Iraq, non perché ne stanno parlando tutti, ma perché è un esempio di ciò che accadrà. L’Iraq segna l’inizio di un nuovo ciclo. Ci offre l’opportunità di vedere la congiura tra le multinazionali e il potere militare, che ha finito per farsi conoscere come “impero”, all’opera. Nel nuovo Iraq, il vero conflitto sta per cominciare.
Mentre la battaglia per il controllo delle risorse terrestri si intensifica, il colonialismo economico per mezzo dell’aggressione militare ufficiale sta inscenando un ritorno. L’Iraq è il culmine logico del processo di globalizzazione delle multinazionali in cui si sono fusi il neocolonialismo e il neoliberalismo. Se potessimo sbirciare dietro al sipario di sangue, intravedremmo le spietate transazioni che hanno luogo nel retroscena.
Invaso e occupato, l’Iraq è stato costretto a pagare 200 milioni di dollari americani (270 milioni di dollari) come “risarcimenti” per i profitti perduti alle multinazionali, quali Halliburton, Shell, Mobil, Nestle, Pepsi, Kentucky Fried Chicken e Toys R Us. Oltre al debito disumano di 125 miliardi di dollari americani che l’ha costretto a rivolgersi all’Imf (Fondo monetario internazionale), che aspettava tra le quinte come l’angelo della morte, con il suo programma di ricostruzione strutturale. (Benché in Iraq non sembrano essere rimaste molte strutture da ricostruire).
Allora qual è il significato di pace in questo mondo selvaggio, dominato dalle multinazionali e militarizzato? Cosa significa pace per i popoli dell’Iraq, della Palestina, del Kashmir, del Tibet e della Cecenia occupate? O per i popoli aborigeni dell’Australia? O per i curdi della Turchia? O per i dalit e gli adivasti dell’India? Che cosa significa pace per i non musulmani nei paesi islamici, o per le donne dell’Iran, dell’Arabia Saudita e Afghanistan? Che cosa significa per i milioni di persone che sono state sradicate dalle proprie terre da progetti di irrigazione e sviluppo? Che cosa significa pace per i poveri che vengono attivamente derubati delle proprie risorse? Per loro, pace significa guerra.
Sappiamo molto bene chi trae beneficio dalla guerra nell’epoca dell’impero. Ma dobbiamo anche chiederci chi trae beneficio dalla pace nell’epoca dell’impero? Vendere la guerra è un crimine. Ma parlare di pace senza parlare di giustizia può facilmente diventare la difesa di una specie di capitolazione. E parlare di pace senza smascherare le istituzioni e i sistemi che perpetrano l’ingiustizia va ben oltre l’ipocrisia.
E’ facile accusare il povero di essere povero. E’ semplice credere che il mondo sia caduto nella spirale di un crescente terrorismo e della guerra. Ciò consente a George Bush di dire: «sei o con noi, o con i terroristi». Ma questa è una scelta falsa. Il terrorismo è solo la privatizzazione della guerra. I terroristi sono i liberi mercanti della guerra. Coloro che credono che l’uso legittimo della violenza non sia solo prerogativa dello stato.
E’ ipocrita fare una distinzione morale tra l’inesprimibile brutalità del terrorismo e la carneficina indiscriminata della guerra e dell’occupazione. Entrambi i tipi di violenza sono inaccettabili. Non possiamo sostenerne uno e condannarne un altro.
Arundhati Roy
Questo è un estratto redatto dalla conferenza Sydney Peace Prize 2004 distribuito dall’autrice
Fonte: http: //www. commondreams. org
Traduzione di Tanja Tion
Fonte :www.liberazione.it
11.11.04