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La Redazione

 

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NIENTE E' PIU' EFFICACE DELLA TORTURA

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A cura di Vichi genio
Il 13 Maggio 2005
48 Views

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Lo sporco segreto della tortura funziona

DI NAOMI KLEIN

Recentemente mi è capitato di intravedere gli effetti della tortura durante un incontro in onore di Maher Arar. Si tratta del canadese di origine siriana, più noto al mondo come vittima della pratica della ‘rendition’ (‘restituzione’), cioè dei nuovi metodi americani di affidare a stati esteri il compito di torturare i loro prigionieri. Arar si trovava all’aeroporto di New York per un cambio di aereo quando i funzionari USA lo hanno trattenuto e poi ‘restituito’ alla Siria. Lì è rimasto dieci lunghi mesi, in una cella non più grande di un loculo, da dove veniva prelevato solo per essere picchiato.

Il Canadian Council on American-Islamic Relations, che è una importante organizzazione per la difesa dei cittadini, lo voleva onorare per il coraggio che aveva dimostrato. Il pubblico presente gli ha tributato una lunga e sincera ovazione in piedi, però nell’aria si respirava anche un certo timore. Molti dirigenti delle varie organizzazioni si sono tenuti a una certa distanza da Arar, e gli hanno risposto solo vagamente. Qualche oratore non è stato capace nemmeno di pronunciare il nome dell’ospite d’onore, come se avesse qualcosa di contagioso. Forse avevano ragione: Arar è finito in una cella infestata dai topi per l’accusa, sostenuta da una tenue ‘prova’ in seguito svanita, di “associazione”. E se questo può capitare ad Arar, un tecnico software di successo e padre di famiglia, chi può sentirsi al sicuro?

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Durante uno dei suoi rari discorsi Arar ha affrontato direttamente l’argomento paura. Ha affermato che un commissario indipendente ha cercato di raccogliere le prove che la polizia non esita a infrangere le regole quando si tratta di indagare sui Mussulmani Canadesi. Il commissario ha sentito decine di storie di minacce, molestie e visite domiciliari irregolari. Però, ha detto Arar: “nessuno si è lamentato pubblicamente. La paura glielo ha impedito.” La paura di essere il prossimo Maher Arar.


Negli Stati Uniti, fra i mussulmani, la paura è ancora più forte. Il Patriot Act consente alla polizia di sequestrare i registri di moschee, scuole, biblioteche o gruppi associativi qualunque con la semplice scusa di legami terroristici. Quando questa sorveglianza continua si affianca all’onnipresente terrore della tortura il messaggio diventa subito chiaro: siete sotto sorveglianza, il vostro vicino può essere una spia, il governo può sapere tutto di voi. Se fate qualcosa di sbagliato potreste scomparire all’interno di un aereo diretto in Siria, oppure in “quel buco nero che è Guantanamo”, per prendere in prestito una frase di Michael Ratner, il presidente del Centro per diritti costituzionali.


Però questa paura dev’essere modulata in modo delicato. La gente da spaventare deve sapere quanto basta per essere spaventata ma non tanto da pretendere giustizia. Ecco perché il Ministero della Difesa fa capire che non tutto quello che avviene a Guantanamo è regolare, per esempio con le foto dei prigionieri in gabbia, però non permette che ci siano foto come quelle sfuggite ad Abu Ghraib. Ecco perché il Pentagono ha approvato un libro di un ex interprete militare, consentendogli di parlare degli abusi sessuali sui prigionieri, ma vietandogli di fare cenno alla pratica diffusa di far assalire i prigionieri dai cani lupo. Questa stillicidio studiato delle notizie, combinato con le smentite ufficiali, produce uno stato d’animo che in Argentina è stato descritto come: “sapere/non sapere”, un ricordo della loro “sporca guerra.”


“Naturalmente, gli agenti dei servizi segreti sono portati a nascondere i loro metodi illegali, – riferisce un rappresentante dei diritti civili americani, Jameel Jaffer, – ma, allo stesso tempo hanno interesse a farlo sapere, in quanto, in un certo senso, possono trarre beneficio dal fatto che la gente sappia che essi sono disposti a contravvenire alle leggi. Se la gente si rende conto del tipo di minacce e della loro credibilità, allora essi ne possono approfittare.”


E le minacce sono arrivate a destinazione. In una denuncia presentata contro la sezione 215 del Patriot Act, da parte dell’associazione per la difesa dei diritti civili, Nazih Hassan, presidente della Comunità Mussulmana di Ann Arbor, Michigan, ha ben illustrato il nuovo clima che si è creato. Non ci sono più iscrizioni, la partecipazione è diminuita, i contributi in denaro sono calati, i membri della direzione si sono dimessi, secondo Hassan tutti hanno paura di fare qualcosa che li possa mettere in qualche elenco di sospetti. Un socio ha testimoniato, anonimamente, di “aver cessato di parlare di politica o società” per paura di attirare l’attenzione su di sè.


Ecco il vero scopo delle torture: spargere il terrore, non soltanto fra la gente in prigione a Guantanamo, o nelle celle di isolamento siriane ma anche, e soprattutto, fra tutti quelli che sentono parlare di questi abusi. La tortura è un meccanismo concepito per spezzare la volontà di resistenza, non solo del singolo individuo in prigione, ma sopratutto della collettività in genere.


Il punto non è controverso. Nel 2001 è stato pubblicato uno studio, da parte di una organizzazione di medici per i diritti umani sui prigionieri sopravissuti alle torture, nel quale si leggeva: “ i carnefici spesso tentano di giustificare i loro metodi di tortura o di maltrattamento con la necessità di avere delle informazioni. Questa giustificazione nasconde il vero scopo della tortura… Lo scopo è quello di disumanizzare la vittima, di spezzare la sua volontà, e, allo stesso tempo, di fornire degli esempi spaventosi a coloro che vengono in contatto con le vittime. In questo modo la tortura può spezzare o comprometter la volontà e la coesione di intere comunità.”


Malgrado tutto ciò sia ormai noto, negli Stati Uniti si continua a dibattere sulla tortura come una semplice questione morale se sia lecito o meno ricavare informazioni in quel modo, e non come strumento di intimidazione e terrore di stato. Però c’è un problema: nessuno afferma che la tortura sia un efficace mezzo di interrogatorio, e meno di tutti quelli che la praticano. Il 16 febbraio scorso il direttore della CIA, Porter Goss, ha testimoniato davanti al Senato che la tortura: “non funziona. Ci sono metodi più efficaci per trattare i prigionieri.” In una pubblicazione, recentemente declassificata, un funzionario del FBI in servizio a Guantanamo afferma che metodi estremi di coercizione non hanno prodotto “più di quanto l’FBI riesce a ottenere con le tecniche investigative normali.” Lo stesso manuale dell’esercito recita che la forza: “costringe la persona a dire tutto quello che egli pensa che gli interrogatori vogliano sapere.”


Ed ecco che gli abusi cominciano a moltiplicarsi. L’Uzbekistan è la nuova meta delle ‘restituzioni’; il “modello El Salvador” viene importato in Irak. L’unica spiegazione ragionevole del diffuso e continuo uso della tortura viene da una fonte a sorpresa: Lynnie England, il soldato sotto accusa per gli atti di Abu Ghraib. Quando nell’affazzonato processo le è stato chiesto perché lei e i suoi colleghi avevano obbligato i prigionieri a denudarsi e a costruire una piramide umana, ha risposto: “Era un mezzo per metterli sotto controllo.”


Proprio così. La tortura come mezzo di interrogatorio non dà risultati. Ma se si tratta di ottenere il controllo sociale allora niente è meglio della tortura.

Naomi Klein

Fonte: www.commondreams.org/
Link:http://www.commondreams.org/views05/0512-23.htm
12.05.05

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