NEUROECONOMIA: IL CERVELLO AL SERVIZIO DEI SOLDI

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FONTE: MACIENCIA.WORDPRESS.COM

In ogni momento otteniamo prove dell’irrazionalità dell’uomo comune. Basta osservare il comportamento che spinge una persona a scegliere, per esempio, una Coca-Cola quando in realtà preferisce il sapore della Pepsi o, addirittura, nel momento di scegliere una transazione borsistica piuttosto che un’altra.

Da un punto di vista scientifico, non c’è logica. O, al meno, non secondo il modo attraverso cui i teorici dell’economia liberale classica hanno disegnato il loro Homo economicus: un essere che risolve dubbi basandosi su preferenze razionali, soprattutto se queste riguardano il suo portafogli.

Ciò che, tuttavia, non hanno previsto, è stata l’influenza nella presa di decisioni, di qualcosa di tanto irrazionale come le emozioni personali. Decifrare questo mistero è diventata l’ossessione dei grandi lupi di Wall Street, delle multinazionali del marketing e anche di alcune università di Stati Uniti, Germania e Giappone, che si sono lanciate in una pazza corsa per svelare le chiavi emozionali del comportamento economico dell’uomo, la neuroeconomia.

La febbre di dominare questo campo scientifico risponde alla necessità del mercato di accaparrarsi una fiducia che permetta di affrontare, con garanzie, un futuro sempre più incerto. Il punto di partenza delle ricerche svolte è che, finora, nessuno è stato capace di dimostrare che i calcoli economici sbagliati scaturiscono solo da una descrizione imperfetta del sistema. Questo, per lo meno, è il punto di vista espresso dal geofisico francese Didier Sornette nel suo libro Why Stock Markets Crash.

La sua teoria presuppone che gli investitori agiscano per cooperazione imitativa, un modo di procedere simile a quello delle mandrie di animali. Questo comportamento irrazionale è quello che spinge il mercato per primo a formare le cosiddette bolle, poi i periodi di instabilità e, infine, le cadute catastrofiche. I pronostici di Sornette hanno azzeccato gli andamenti negativi del Nikkei nel 1999 e, due anni dopo, la crisi dell’indice Nasdaq.

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A partire da quest’evidenza, gli scienziati si sono fatti in quattro per dimostrare che, di fronte ad un’operazione finanziaria, il cervello non realizza un solo calcolo, come invece credevano gli economisti classici, ma processa separatamente rischi e profitti. Come sono arrivati a questa conclusione? Attraverso ricerche con volontari, connessi a macchine ultra sofisticate, ai quali venivano somministrati giochi di lotteria o simulatori di borsa.

Durante questi processi, i neuroscienziati hanno scoperto che stimoli come l’assunzione del rischio o il rifiuto di offerte, generano nel cervello reazioni chimiche a catena, che influiscono decisivamente nella presa di decisioni.

Per esempio, sono già riusciti a identificare la connessione tra la fiducia e i livelli di ossitocina, un ormone prodotto dalla regione subcorticale del cervello durante le relazioni sessuali e altri tipi di legami sociali. L’ossitocina eccita una piccola struttura chiamata insula, che si occupa di valutare i rischi e i profitti. Il primo a dimostrarlo è stato l’austriaco Ernst Fehr, dopo aver diviso un gruppo di volontari in due squadre, e averli sottoposti a un simulatore di investimenti in borsa. Il primo gruppo è stato cosparso con un prodotto innocuo a base di ossitocina artificiale. Il secondo ha ricevuto un liquido a effetto placebo.

Il risultato è stato che, delle 29 persone del primo gruppo, 13 hanno investito il limite massimo di denaro permesso in una scelta che comportava un alto rischio per il loro portafogli.

Il professore di Neuroscienza Cognitiva all’Università di Princeton Jonathan D. Cohen e una squadra di psicologi, matematici ed economisti hanno dato una svolta alla scoperta indotta da Ernst Fehr scannerizzando il cervello di una dozzina di volontari mentre erano sottoposti a un gioco, noto come “gioco dell’ultimatum”, che consiste nel dare dieci dollari a un giocatore affinché li condivida con un altro. Gli scienziati lasciavano libero il partecipante di dividere la somma a suo piacimento; sia a metà –opzione più giusta- sia proponendo una somma minore al proprio compagno di partita per aumentare il beneficio. Se il secondo giocatore accettava l’offerta, il denaro si divideva secondo quanto accordato, ma se la rifiutava, entrambe rimanevano senza niente.

Il risultato dell’esame, pubblicato sulla rivista Sciente, ha rivelato che la maggior parte dei partecipanti si rifiutavano di accettare somme inferiori a due o tre dollari perché si sentivano ingannati. “Dal punto di vista economico ciò non ha senso”, conclude Cohen.

Il problema è che, senza aver convinto la comunità scientifica dei vantaggi di questa ricerca, i neuroeconomisti hanno iniziato a dirigere la loro attenzione all’economia politica. Anche l’atto di votare è dominato dal timore, la ripugnanza o il desiderio di ottenere qualcosa di eccitante?

Fonte: http://mqciencia.wordpress.com
Link: http://mqciencia.wordpress.com/2010/11/30/neuroeconomia-el-cerebro/
30.11.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SILVIA SOCCIO

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