NETANYAHU E l’11 SETTEMBRE

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DI MAURO MANNO
21e33

Leggiamo da Ha’aretz dell’17 aprile scorso che il caporione del Likud, il ben noto alle cronache Benjamin Netanyahu, ha affermato, riguardo all’11 settembre, che:

“«Stiamo traendo beneficio da un grande evento, cioè dall’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono e quindi dalla guerra americana in Iraq», riporta Ma’ariv citando l’ex primo ministro. Secondo lo stesso giornale, Netanyahu avrebbe aggiunto che questi avvenimenti «hanno fatto oscillare l’opinione pubblica americana in nostro favore».” (Link)

Le affermazioni di Netanyahu corrispondono alla realtà. Dopo l’11 settembre infatti il clima si è messo al bello per Israele. Le trattative di Oslo volute dai laburisti e osteggiate proprio da Netanyahu e Sharon, allora uniti nel Likud, è stato definitivamente sepolto. Il timido processo negoziale non era in realtà nulla di risolutivo in quanto mirava ad annettere allo stato ebraico la parte di Gerusalemme abitata dai palestinesi e la maggior parte dei territori occupati (quelli ricchi di acque sorgive soprattutto) lasciando le zone più povere, dopo averle frammentate, al cosiddetto “stato palestinese”. Riservando oltretutto agli israeliani il controllo delle sue frontiere. Un progetto noto a chi ha studiato la storia del sionismo: prendersi la maggior parte della terra, dividere i palestinesi in bantustans ed escluderli dallo stato ebraico che altrimenti perderebbe la sua preziosa natura ebraica e razzista.

Le trattative di Oslo dovevano portare a sanzionare diplomaticamente tutto ciò facendo ingoiare l’amara pillola ad una parte malleabile dei palestinesi, all’Olp di Arafat. Tuttavia Yasser Arafat, che ancora aveva coscienza di quello che avrebbe fatto ai palestinesi se avesse avvallato il piano israeliano, rifiutò di piegarsi ai dictat convergenti di Israele e della Lobby ebraica americana che allora dominava l’Amministrazione Clinton, e per questo fu liquidato. Ad eliminarlo furono Sharon e Netanyahu, i dirigenti del Likud il cui governo era succeduto ai laburisti. I due erano i principali responsabili politici dell’assassinio di Rabin, nonché gli artefici del clima di violenza che aveva portato alla crisi del processo negoziale (si ricordi la provocatoria visita di Sharon alla Spianata delle Moschee).

Affermare che Sharon e Netanyahu sono stati gli affossatori di Oslo può far pensare, a chi non è addentro alla politica sionista, che il cosiddetto processo di pace fosse un processo vero che avrebbe realmente portato alla pace e alla stabilità nella regione. Questo non corrisponde alla realtà perché i palestinesi non accetteranno mai le riserve indiane o bantustans che Israele vuole per loro. Essi potrebbero anche accontentarsi, un giorno, di uno staterello ma solo se esso si estendesse su tutti i territori palestinesi occupati da Israele nel 1967 (Cisgiordania, Striscia di Gaza, Gerusalemme Est) e se esso fosse effettivamente indipendente da Israele. I palestinesi vogliono uno stato vero, seppur piccolo, uno stato unitario che confini con i paesi arabi Siria, Giordania, Egitto, uno stato con capitale la città storica di Gerusalemme Est, dove si trova la moschea di Al Aqsa da dove si dice che il profeta Maometto ascese al cielo.
Le differenze tra Likud e laburisti sulla politica verso i palestinesi non differisce di molto. Perché allora eliminare Rabin e Arafat, i due elementi su cui era fondato il processo di Oslo? Il Likud rifiuta ogni trattativa e al suo posto ha stabilito un processo di separazione unilaterale dai palestinesi, senza alcuna trattativa, e dunque alle sue esclusive condizioni. Oslo prevedeva una autonomia (che i laburisti volevano solo amministrativa ovviamente) per Gerusalemme Est, stabiliva il congelamento della colonizzazione e bloccava la costruzione del muro dell’apartheid. Su questa base dovevano risolversi le trattative. Sharon e Netnyahu questo non potevano accettarlo. La separazione unilaterale del Likud ha annullato di fatto ogni possibilità di compromesso. Gli accordi di Annapolis, che dovrebbero riaprire le trattative, sono già falliti in partenza. Sono una maschera che Israele utilizza per coprire la faccia brutta della sua politica di separazione unilaterale. Le trattative non procedono mentre procede l’israelizzazione di Gerusalemme Est, la colonizzazione delle regioni ricche di acqua della Cisgiordania e la costruzione del muro. La funzione di questo mostruoso serpente di cemento (nonché ecomostro) è di assicurare a Israele la maggior parte della Cisgiordania e spezzettare la popolazione palestinese, nonché togliere la possibilità che i futuri bantustans in cui essi saranno rinchiusi possano un giorno confinare con i paesi arabi.
Netanyahu ha quindi ragione di dire che Israele “sta traendo beneficio” dall’11 settembre. E non solo per quanto riguarda la politica verso i palestinesi. Anche per quanto riguarda la strategia verso i paesi arabi. L’eliminazione dell’Iraq di Saddam Hussein ha rafforzato, almeno provvisoriamente, la posizione di dominio israeliana sul Medio Oriente. Dico provvisoriamente perché, contemporaneamente, ha creato un vuoto che ha permesso all’Iran di assumere un ruolo molto più importante di quello che aveva prima, quando era in qualche modo ostacolato proprio dall’Iraq di Saddam. Fa meraviglia se lo stesso Netanyahu se la prende ora con l’Iran?

“Netanyahu, scrive sempre Ha’aretz, ha paragonato Ahmadinejad ad Adolf Hitler ed ha definito il programma nucleare di Teheran simile alla minaccia che i nazisti facevano pesare sull’Europa alla fine degli anni ‘30. Egli ha aggiunto che l’Iran differisce dai nazisti per un unico aspetto. Ha spiegato che «laddove il regime nazista aveva scatenato un conflitto globale prima di sviluppare armi nucleari, l’Iran sta costruendo ordigni nucleari prima di iniziare un conflitto globale»”.

Paragonare i nemici di Israele a Hitler è un trucco ormai vecchio, prima di Ahmadinejad è toccato a Saddam Hussein, al libico Gheddafi, al siriano Assad, e tanto tempo fa a Nasser (che in realtà fu il primo della lista). Netanyahu, naturalmente dimentica che Israele ha già armi nucleari e termonucleari nonché i sottomarini con cui portarle a distanza ravvicinata dalle coste iraniane. Tutto questo però fa parte del clima favorevole che l’11 settembre a creato per Israele. Dopo l’Iraq, Netanyahu (ma non solo lui) prepara il terreno per la guerra contro la Repubblica Islamica dell’Iran.

Chi ha creato il clima favorevole a Israele?

Cosa sia stato a creare questo clima, lo sappiamo. La risposta è l’11 settembre e ora ce ne dà conferma lo stesso Netanyahy. Ma chi è l’artefice dell’11 settembre? Il dubbio che non sia stato il responsabile ufficiale, cioè Osama bin Laden, serpeggia e trova ascolto ampiamente nel mondo. Non voglio qui affrontare il tema dell’inchiesta ufficiale che attribuisce (assai frettolosamente) gli attentati al terrorista saudita. Essa fa acqua da tutte le parti e le sue contraddizioni sono state messe in luce da altri più bravi e informati di me. Voglio solo ricordare ai lettori alcuni aspetti del passato politico transatlantico di Netanyahu. Nel 1996, mentre ferveva il processo di Oslo, Benjamin Netanyahu e i suoi amici likudisti americani facevano circolare negli Stati Uniti un documento intitolato “Un taglio netto”. Il documento riguardava la politica israeliana ma era anche un invito agli ebrei americani di adoperarsi secondo le sue linee guida per modificare la politica USA in Medio Oriente. Nel documento si poteva leggere:

“Il governo di Benjamin Netanyahu si presenta con un certo numero di idee nuove. Pur essendoci alcuni che consigliano la continuità, Israele ha l’opportunità di fare un taglio netto col passato; può forgiare un processo di pace e una strategia basati su un fondamento completamente nuovo, un fondamento che rilanci l’iniziativa strategica. Per rendere sicure le strade e i confini[1] nel futuro immediato, Israele può (tra le altre misure) operare strettamente con la Turchia e la Giordania per contenere, destabilizzare e far battere in ritirata alcuni dei suoi più minacciosi nemici. Questa strategia richiede un taglio netto rispetto alla parola d’ordine ‘pace globale’ e il passaggio a un concezione tradizionale di strategia basata sull’equilibrio delle forze. Israele è ora in grado di modificare il suo ambiente strategico, in cooperazione con la Turchia e la Giordania, indebolendo, contenendo e perfino facendo battere in ritirata la Siria. Questo sforzo può convergere sulla rimozione di Saddam Hussein dal potere in Iraq, un importante obiettivo strategico israeliano per diritto, come mezzo per frustrare le ambizioni regionali della Siria. La Giordania ha recentemente lanciato una sfida alle ambizioni regionali siriane suggerendo la restaurazione del regno Hashemita in Iraq. Siccome il futuro dell’Iraq potrebbe influenzare profondamente l’equilibrio strategico del Medio Oriente, è comprensibile che Israele abbia interesse a sostenere la casa reale Hashemita nel suo sforzo di delineare un nuovo l’Iraq. Il nuovo piano israeliano deve indicare un taglio netto col passato, abbandonando una politica che si fonda sulla ritirata strategica e ristabilendo il principio della guerra preventiva invece di quello della ritorsione soltanto e, infine, cessando di far assorbire colpi alla nazione senza rispondere. Il nuovo piano strategico israeliano può rimodellare la regione mediorientale in quei modi che permettano ad Israele di avere lo spazio di concentrare le proprie energie su ciò che è oggi la cosa più necessaria per il paese: ringiovanire la propria idea nazionale. In definitiva, Israele può fare ben più che limitarsi semplicemente a gestire, attraverso la guerra, il conflitto arabo-israeliano.(…). Quando Israele sarà un paese economicamente forte, libero, potente e in buona salute internamente, non si dovrà più limitare a gestire il conflitto arabo-israeliano; lo potrà trascendere”.

Oltre a Benjamin Netanyahu, gli autori erano Richard Perle, Douglas Feith e David Wurmser. Lo stesso anno, uno degli autori, David Wurmser, scrive un altro documento, questa volta per l’Istituto israeliano per gli Studi Politico-Strategici Avanzati. Il titolo è “Far fronte agli Stati in disfacimento: Una strategia occidentale e israeliana per un nuovo equilibrio delle forze in Medio Oriente”. La nuova proposta sionista non riguarda solo Israele ma gli Stati Uniti ed Israele. Vi troviamo scritto:

“Il futuro dell’Iraq influenzerà profondamente l’equilibrio strategico in Medio Oriente. La battaglia per dominare e delineare un nuovo Iraq rappresenta, per estensione, la battaglia per dominare, a lungo, l’equilibrio delle forze nel Levante. L’Iraq ha tentato di impossessarsi del suo vicino, il Kuwait, commettendo un errore catastrofico che ha accelerato la sua discesa nel caos interno. Questo caos ha creato un vuoto in un’area geo-strategica centrale, ricca di risorse umane e naturali. (….) Sarebbe allora prudente per gli Stati Uniti ed Israele abbandonare la ricerca per una ‘pace globale’ che includa un accordo di ‘pace in cambio di terra’ con la Siria, dal momento che questa strategia immobilizza gli Stati Uniti in tentativi futili di puntellare i tiranni locali e gli stati innaturali che essi governano. Gli Stati Uniti ed Israele, invece, possono usare la competizione per l’Iraq al fine di modificare l’equilibrio delle forze a vantaggio dei loro amici nella regione come la Giordania”. (Sottolineature e corsivi nostri).

Nei due documenti, il Likud e i neoconservatori sionisti americani, che poi si ritroveranno nell’Amministrazione Bush, già dettano il programma di politica estera e geo-strategica di quel futuro governo. Il loro piano però richiedeva l’alleanza con un certo numero di neoconservatori goyim. Questi saranno essenzialmente Cheney e Rumsfeld.

Netanyahu, il Likud, i neocon e il PNAC

Nel 1997 appare il Project for the New American Century o PNAC (Progetto per un nuovo secolo americano) un istituto di ricerca con base a Washington. Tra i suoi fondatori spiccano Dick Cheney e Donald Rumsfeld. Ma non sono soli. Il Presidente ne è William Kristol, ebreo sionista e direttore del Weekly Standard, il settimanale di cui si dice che circoli ancora oggi, più di qualsiasi altra pubblicazione, tra i membri dell’Amministrazione Bush. Kristoll è anche una prestigiosa firma della TV Fox News. Tra i suoi membri più importanti vi sono i soliti neoconservatori sionisti, Paul Wolfowitz, Richard Perle, Lewis Libby. Oltre a Cheney e Rumsfeld, vi sono anche altri goyim, William J. Bennett, Jeb Bush, fratello di George, Richard Armitage, Zalmay Khalilzad, Ellen Bork ed altri.[2] La maggior parte però sono ebrei likudisti, amici e soci in affari politici di Netanyahu.
Le idee nuove propugnate dal PNAC riguardano la strategia americana globale, all’interno della quale però il Medio Oriente assume una posizione fondamentale. Il gruppo propugna una politica globale che mette in secondo piano la diplomazia, le istituzioni internazionali, i ‘processi di pace’ e promuove l’unilateralismo, l’azione militare, il regime change e la sovversione. Essendo, secondo il PNAC, lo spiegamento di forze della Guerra Fredda ormai obsoleto, occorre mettere in cantiere una aggressiva agenda imperiale di espansionismo e dominio globale delle forze armate USA. Non è chiaro ancora però dove principalmente debbano esplicitarsi l’azione militare unilaterale, il regime change e la sovversione.
Tutto diventa molto più chiaro nel 1998 quando il PNAC decide di scrivere la famosa lettera al Presidente Bill Clinton. Donald Rumsfeld e Paul Wofowitz, scrivono al presidente, Bill Clinton, spronandolo a rimuovere Saddam Hussein dal potere ricorrendo all’uso della potenza militare USA. La lettera sosteneva che Saddam, se fosse riuscito ad ottenere armi di distruzione di massa, sarebbe stato una minaccia agli Stati Uniti, ai suoi alleati nel Medio Oriente e alle risorse di petrolio nella regione. La lettera dichiarava anche che “la politica americana non può continuare ad essere paralizzata da una mal indirizzata insistenza sull’unanimità nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU”. Si argomentava inoltre che una guerra con l’Iraq sarebbe giustificata dallo spregio di Saddam Hussein per la politica di “contenimento” dell’ONU e per la sua “persistente minaccia” agli interessi degli Stati Uniti. La lettera proponeva un atteggiamento prepotente degli USA in Medio Oriente, in modo da spingere la “comunità internazionale” ad appoggiare la guerra e Israele. La guerra poi effettivamente andò avanti nonostante le riserve dell’ONU, di parte dell’Occidente e di tutto il resto del mondo. La lettera del 1998 al presidente Clinton mostra che una seconda Guerra del Golfo era una conclusione prevista e chiarisce i progetti di Rumsfeld, Wolfowitz e Perle, cinque anni prima dell’invasione dell’Iraq.[3] Rory Bremner, citando la lettera disse “questo è quello che vogliono e basta -cambio di regime-, non Blair, né l’ONU, né Hans Blix, né Francia, Germania, Russia, Cina, né la minaccia del terrorismo, o le riserve arabe, o la mancanza di prove, o le marce per la pace …. potranno intralciare la loro strada”.
Ancora più esplicito è il documento del PNAC del settembre 2000, due mesi prima delle elezioni che porteranno Bush alla Casa Bianca e un anno prima dell’11 settembre. É un rapporto di 90 pagine intitolato “Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze, e risorse per un nuovo secolo”.
Dopo aver ribadito, ovviamente, che “l’America dovrebbe cercare di preservare ed estendere la sua posizione di leadership globale mantenendo la superiorità delle forze armate USA”, il documento si concentra sul Medio Oriente e raccomanda di migliorare la pianificazione e lo spiegamento militare in Iraq per ridurre gli sforzi dovuti all’imposizione della zona interdetta al volo (No Fly Zone) e alleggerire le porta-aerei. Quindi sostiene che è necessario usare il successo degli Stati Uniti nella Guerra del Golfo (1991) come esempio del perché il mondo necessita della potenza militare americana. Il rapporto dichiara inoltre che: “mentre il conflitto irrisolto in Iraq fornisce un’immediata giustificazione (per la presenza militare USA) la necessità di una presenza sostanziale delle forze americane nel Golfo trascende la questione del regime di Saddam Hussein”. Cioè: bisogna stabilirsi solidamente in Medio Oriente, per realizzare il piano di regime change e sovversione che poi prenderà il nome di Grande Medio Oriente; per consolidare il regime di Israele e permettergli “di concentrare le proprie energie su la cosa più necessaria per il paese: ringiovanire la propria idea nazionale”. Perché sia chiaro che si vuole la presenza militare USA in Medio Oriente per modificarne l’ambiente politico, ecco subito un riferimento all’Iran.

“Inoltre sul lungo termine — afferma il documento — l’Iran può dimostrarsi una grossa minaccia agli interessi USA nel Golfo analogamente all’Iraq. E anche se migliorassero le relazioni USA-Iran, mantenere le forze militare in avanguardia nella regione sarebbe un elemento essenziale nella strategia di sicurezza degli USA, visti gli interessi americani di lunga data in quelle zone”.

Quindi dopo l’Iraq, deve essere il turno dell’Iran e, anche se “migliorassero le relazioni USA-Iran” (con un bel regime ch’ange a Teheran), le truppe USA devono restare nella regione.
Un bel piano sionista, indubbiamente. Ma come realizzarlo? Accetteranno mai gli americani di andare in guerra, anzi in una lunga serie di guerra, per Israele contro paesi che non rappresentano, malgrado le bugie PNAC, nessuna minaccia per gli Stati Uniti? Non sarà facile convincerli. A meno che…..

L’11 settembre

Gli strateghi del PNAC temono che realizzare il loro piano “rivoluzionario” prenderà molto tempo in condizioni normali. Bisogna forzare la mano a queste benedette condizioni normali. Il rapporto si chiude su questa affermazione:
“Il processo di trasformazione, anche se porterà un cambiamento rivoluzionario, risulterà molto lungo, se non si dovesse verificare un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbour”.

La nuova Pearl Harbour era già in programma e si sarebbe chiamata 11 settembre.
Come non ho voluto parlare prima della versione ufficiale dei fatti dell’11 settembre, che attribuisce la responsabilità a bin Laden, così non mi interessa ora analizzare tutti quei fatti già accertati o ancora sospetti riguardanti il coinvolgimento del Mossad nel crollo delle Twin Towers, né la partecipazione di questo o quel rappresentante della lobby allo sfruttamento economico dell’evento. Non parlerò quindi del caso degli oltre 100 agenti del Mossad che monitoravano i movimenti di Mohammed Atta e soci, dei quattro agenti del Mossad che riprendevano con telecamere a distanza il crollo delle torri dopo aver cercato con un camioncino superattrezzato il luogo migliore per le riprese, ovviamente prima che gli aerei giungessero sull’obiettivo. Non dirò delle comunicazioni precedenti tra Mossad e CIA sulla immediatezza degli attacchi, da almeno un mese prima dell’11 settembre. Non dirò delle speculazioni sui titoli delle compagnie aeree americane o su società con sede nelle Torri Gemelle, alcuni giorni prima degli attentati; speculazioni che hanno portato enormi guadagni ad un gruppo di borsisti e rappresentanti del capitale finanziario, e di cui erano a conoscenza sia i servizi segreti americani, sia il Mossad. Non diremo della fortuna accumulata da Larry Silverstein, noto ebreo sionista e proprietario del WTC 7, edificio fatto da lui abbattere con una demolizione controllata a ore di distanza dal crollo delle Torri. Non diremo delle sue speculazioni colossali realizzate con l’affitto, solo pochi giorni prima dell’11 settembre, di vasti locali delle Torri stesse. Non diremo della distruzione dei dati riguardanti i movimenti di borsa precedenti l’11 settembre, conservati, guarda caso, proprio nel WTC 7 di Silverstein. Evidentemente quel crollo doveva assolutamente cancellare molte prove scottanti. Frammenti, anche importanti, di un legame tra Mossad, rappresentanti della lobby e tragedia dell’11 settembre sono già noti. Tutta la storia non potrà mai essere ricostruita.
Faccio un ragionamento politico e ricostruisco, su base di documenti, una strategia politica i cui autori sono in calce ai documenti citati. Questi autori sono neoconservatori americani ed ebrei-americani, uniti in un sodalizio sionista con organizzazioni della lobby ebraica (PNAC; JINSA, AIPAC, ecc), con l’industria militare, con organizzazioni private nel campo della difesa, con i servizi segreti USA e israeliani. Tra di essi, un posto di rilievo lo occupa certamente Benjamin Netanyahu. Il sionismo likudista di Sharon e Netanyahu non è estraneo agli attentati dell’11 settembre. L’attuale capo del Likud e autore delle parole riportate all’inizio di questo articolo è, senza dubbio, l’elemento di raccordo, nell’ambito dei fatti dell’11 settembre, tra Israele e Stati Uniti. Diversamente da Sharon, che non parlava nemmeno l’inglese, Netanyahu, da lungo tempo, in America è di casa. Parla perfettamente l’inglese, ha tentato una carriera da attore a Hollywood, è amico della cantante Barbara Streysand, ebrea sionista neoconservatrice, gode di legami profondi con gli ambienti ebraici influenti a Washington, opera in combutta con i neoconservatori ebrei, i giornali ebraici come il New York Times e il Washington Post riservano ampi spazi ai suoi articoli o a quelli che ispira ai suoi amici giornalisti, ecc.
E si, assolutamente, sugli attentati dell’11 settembre e sugli effetti benefici per Israele Netanyahu la sa lunga e potrebbe fornire informazioni di prima mano…. la sua mano.

Mauro Manno
Fonte: http://21e33.blogspot.com
Link: http://21e33.blogspot.com/2008/04/netanyahu-e-l11-settembre.html
17.04.08

NOTE

[1]Si tratta quindi di un’iniziativa contro i palestinesi (“per rendere sicure le strade”) e i paesi arabi (“i confini”).

[2] I membri più importanti del PNAC (i nomi di coloro che sono sicuramente neoconservatori ebrei sionisti sono preceduti da un’asterisco): Gary Bauer, cristiano sionista fanatico, ex candidato presidenziale, presidente dell’organizzazione American Values . *William J. Bennet, ex segretario dell’educazione e direttore dell’Ente nazionale per il controllo della droga, co-fondatore di Empower America, autore del Book of Virtues, presidente di Americans for Victory Over Terrorism. Ellen Bork, vice direttrice del PNAC, e moglie del mancato candidato di Reagan alla Corte Suprema, Robert Bork. *Rudolf Ely Boschwitz senatore e lobbista. Jeff Bush, governatore della Florida (fratello di George W. Bush). R. James Woolsey, ex direttore della CIA per Bill Clinton, vice-presidente alla Booz Allen & Hamilton. *Eliot A. Cohen, professore di Studi Strategici alla Hopkins University. Thomas Donnelly, direttore delle comunicazioni della Lockheed Martin. Steve Forbes, multi-miliardario, editore di Forbes Magazine, ex candidato alla presidenza. *Aaron Friedberg, direttore del Centro di Studi Internazionali. Frank Caffney, editorialista, fondatore del Center for Security Policy. *Reuel Marc Gerecht, direttore della Middle East Initiative. *Fred C. Ikle, Centro di Studi Strategici e Internazionali, *Donald Kagan, professore della Yale University, editorialista conservatore con vari legami col Dipartimento di stato. *Fred Kagan, Academmia Militare di West Point. Jeane Kirkpatrick, ex ambasciatore statunitense. *Charles Krauthammer. *William Kristol, fondatore e presidente del PNAC, editorialista del Weekly Standard. *Christopher Maletz.*Daniel McKivergan.*Richard Perle, fondatore del PNAC, strettamente legato alla destra israeliana, ex membro della Defense Policy Board. *Norman Podhoretz, Hudson Institute. Dan Quayle, ex vice presidente degli USA. *Stephen Rosen, Professore di sicurezza Nazionale e affari militari alla Harvard University. Henry Rowen, ex presidente della Rand Corporation. *Gary Smitt. *Vin Weber, ex parlamentare, lobbysta, vice presidente di Empower America. George Weigel, commentatore politico, cattolico sionista (!). *Paula Dobriansky. *Alvin Bernstein del National Defense University. *Eliot Cohen ( Nitze School of Advanced International Studies, Johns Hopkins University, membro del Defense Policy Board . *David Epstein, Ufficio del Segretario alla Difesa. *Dan Goure (Center for Strategic and International Studies. Mark Lagon, Comitato per Rapporti Esteri del Senato. James Lasswell, GAMA Corporation. *Abram Shulsky, The RAND Corporation. *Joshua Muravchik, dell’American Enterprise Institute e del Washington Institute for Near East Policy, *Dov Zakheim, System Planning Corporation, sottosegretario della Difesa -controllore finanziario- e primo ufficiale finanziario del Pentagono.

[3] Ecco i nomi degli altri firmatari della lettera a Clinton: *William Kristol, Richard, *Elliot Abrahms, V. Allen, Gary Bauer, Jeffrey Bell, William J. Bennett, Richard Armitage, *Rudy Boshwitz, Jeffrey Bergner, *Eliot Cohen, Seth Cropsey, *Midge Decter, Thomas Donnelly, Nicholas Eberstadt, *Hillel Fradkin, *Aaron Friedberg, Francis Fukuyama, Frank Gaffney, *Jeffrey Gedmin, *Reuel Marc Gerecht, *Charles Hill, Bruce P. Jackson, *Eli S. Jacobs , Michael Joyce, *Donald Kagan, *Robert Kagan, Jeane Kirkpatrick, *Charles Krauthammer, *John Lehman, *Paula Dobriansky, Clifford May, *Martin Peretz, *Richard Perle, *Norman Podhoretz, *Stephen P. Rosen, *Randy Scheunemann, Gary Schmitt, *William Schneider, Jr., *Richard H. Shultz, *Henry Sokolski, *Stephen J. Solarz , *Vin Weber, *Leon Wieseltier , Marshall Wittmann, *Robert B. Zoellick.

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