NELLA TERRA DI NESSUNO

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blankDI DAHR JAMAIL


Il confine tra l’Iraq e la Giordania è una terra di desolazione.
Bobine di filo spinato si snodano nel deserto mentre vi si impigliano dei sacchetti di plastica ingrigiti dal sole, sventolati da venti caldi e secchi. Nella terra di nessuno, Jamail espone un’altra faccia delle conseguenze umane dell’occupazione statunitense subita dall’Iraq – la
sofferenza e la resistenza dei rifugiati Curdi-Iraniani e palestinesi.

Lunghe colonne di camion aspettano al confine giordano per portare i loro carichi di aiuti nell’Iraq straziato dalla guerra. Quando gli autisti iracheni vogliono entrare in Giordania, aspettano fino a 18 giorni per essere ammessi ad entrare. Il confine di al-Karama è una terra di attesa, ma non solo per gli autisti dei camion. Ci sono altre persone che hanno aspettato di entrare in Giordania ben più a lungo. Il campo dei rifugiati situato in quest’area desolata è chiamato il campo della terra di nessuno perché, letteralmente, è proprio questo: un’area in mezzo a due paesi, senza altri sbocchi.

“Se mi lasci qui morirò” ha detto l’anziano Merza Shahawaz mentre gemeva per un dolore ai reni, “Ti prego, aiutami”. Dentro al campo, nella sua tenda coperta da un rivestimento in plastica, sua moglie lo stava aiutando ad alzarsi. Non può sedersi senza che lei lo regga.

“Ti chiedo di aiutarmi. Supplico le persone dotate di spirito umanitario perché ci aiutino adesso”, ha mormorato quest’uomo 66enne con un bisogno
disperato di dialisi. I suoi familiari gli siedono vicino, versando lacrime e scacciando mosche dal proprio viso.

Il suo figlio 42enne supplica, “Stiamo tutti morendo lentamente qui.
Puoi vederlo con i tuoi occhi. Chiedo aiuto. Mio padre sta morendo davanti agli occhi della sua famiglia, ma nessuno sta facendo qualcosa per lui. Non vogliamo che il destino dei nostri figli sia questo. La morte è meglio di questa vita. Se i nostri bambini crescono in questo modo significa che sono morti”.

Questo è un esempio della sofferenza di tanti altri in questo campo di più di 700 persone.

Sciopero della fame

I rifugiati Curdi-Iraniani hanno una lunga storia di sofferenza.
Inizialmente lasciarono l’Iran a causa della persecuzione del governo, più di 20 anni fa. Alcuni di loro erano membri della milizia curda dei peshmerga che combatterono contro il fondamentalismo islamico e che sono stati abbastanza fortunati da scappare vivi. Molti di loro sono partiti
per l’Iraq, dove il regime di Saddam Hussein li ha piazzati nel campo rifugiati di al-Tash, situato 80 miglia ad ovest di Baghdad, che contiene più di 12.000 Curdi-Iraniani.

Molti di questi sono rifugiati. Dopo l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nella primavera del 2003, affermano di essere stati minacciati da gruppi armati, così hanno dovuto andarsene. Diversi rifugiati che ho intervistato nel campo della terra di nessuno dicono di essere stati obbligati a partire da Al-Tash su pressioni del governo fantoccio iracheno.

Ci sono anche rifugiati palestinesi, iracheni, giordani e siriani.

Al tempo dell’invasione il governo giordano ha accettato di fornire protezione temporanea agli Iracheni che se ne andavano dal caos nel loro paese. Ma quando i Curdi-Iraniani del campo di Al-Tash hanno raggiunto il confine giordano, li è stato negato l’accesso. Ad altri è stato impedito di entrare perché non avevano passaporti validi. Con i
rifugiati dalla Palestina e dall’Iraq in aumento, il governo giordano ha pensato di aver raggiunto i suoi limiti, negando l’accesso a rifugiati futuri.

Anche se la locale organizzazione giordana di carità Hashemite (Jordanian Hashemite Charity Organization) – che aiuta in vece dell’alto commisariato delle Nazioni Uniti per i rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees – UNHCR) – CARE International ed altre organizzazioni lavorano per assistere i rifugiati, sembra non essere abbastanza.

Un lenzuolo sbrindellato legato alla recinzione che circonda il campo della terra di nessuno svolazza nel vento. Si legge: “Noi rifugiati Curdi-Iraniani siamo entrati in sciopero della fame perché non abbiamo ricevuto attenzione dall’UNHCR, che attua una politica demagogica nei
confronti della nostra giusta causa e non ha risposto alla nostra richiesta, ossia lo stanziamento in paesi terzi. Morire una volta è meglio che morire ogni giorno”.

Sull’altro lato della recinzione un telo offre ombra ai 21 uomini in sciopero della fame, i quali chiedono un assistenza maggiore da parte dell’UNHCR.

Omar Abdul Aziz ha 39 anni. Viveva ad Al-Anbar presso il campo di Al-Tash, vicino a Ramadi, prima di venire qui. “Abbiamo vissuto per 23 anni al campo di Al-Tash”, spiega, “Dopo la guerra le condizioni di sicurezza erano orribili, in quanto le forze di occupazione non
controllavano i confini, l’intelligence iraniana venne in Iraq ed iniziò ad eseguire dei raid ad Al-Tash, così dovemmo andarcene”.

L’uomo, seduto su una stuoia, parla con voce fievole: ha poche forze dopo nove giorni di sciopero della fame. “Sono in sciopero della fame perché l’UNHCR non ha fatto nulla per noi. Questo non è il luogo adatto perché ci vivano donne e bambini, ed il nostro futuro è incerto. Non ci sono soluzioni qui, possiamo solo muoverci da campo a campo, da deserto a deserto”.

Nella tenda, le mosche ronzavano languidamente e si posavano sui volti di questi uomini oppressi, mentre Aziz continuava. “Non vogliamo andare in Iraq perché è instabile e non è il nostro paese. Quel che ci è successo è dovuto all’illegale invasione americana dell’Iraq. Chiediamo al popolo americano, appellandoci alla sua umanità, di toglierci da questa situazione orribile. Siamo gli orfani della comunità internazionale. La comunità internazionale non ha aperto bocca sulla nostra situazione, e in particolare gli Americani”.

Altri, mentre languivano nelle tende cercando riparo dal sole bruciante del deserto, dicevano di essere stati per più di due anni nelle orribili condizioni in cui versava il campo, dove serpenti, scorpioni e tempeste di sabbia sono una realtà quotidiana.

“Qui siamo depressi e stiamo morendo”, mi ha detto Zama Shakary. La frustrazione di quest’uomo 45enne è stata sfogata con rabbia verso l’UNHCR. “Condoleeza Rice va a stringere le mani a Barzani, ma non fa
nulla per noi che siamo qui. Mi sono imposto di continuare lo sciopero della fame anche se dovessi perdere conoscenza per 10 volte, se non l’UNHCR non risponderà aiutandoci. Degli esseri umani non possono vivere in questo modo”.

La maggior parte dei rifugiati chiede di ristabilirsi, ma non
necessariamente in un altro campo rifugiati. “Stiamo chiedendo di essere ricollocati in un altro paese. Sono in sciopero della fame da 9 giorni, e le mie richieste sono che, se muoio, si sappia che lo faccio per la vita, io non vivo per la morte”, ha detto Suwady Rashat. L’uomo, 43enne, ha aggiunto, “Voglio dire al popolo americano che il governo iracheno ci ha privato di tutto quello di cui avevamo bisogno, e ciò è dovuto all’invasione, che non ha portato dei benefici reali per gli Iracheni”.

Vicino a lui siede un bimbo di sei anni tormentato dalle mosche, con uno sguardo triste, perduto. “Oggi sono qui perché mio padre è al nono giorno di sciopero della fame”, mi ha detto, “Per favore, c’è bisogno che qualcuno ci aiuti qui”.

Un altro uomo del campo, Hassan Sadiq, ha vissuto negli Stati Uniti per un anno prima della recente invasione. E’ tornato in Iraq appena prima dell’invasione, poi è venuto nel campo della terra di nessuno mentre in Iraq dilagava il caos. Prima di andarsee in America, Sadiq si era trasferito in Iran per per sfuggire alla persecuzione del regime iracheno, in quanto lavorava come difensore dei diritti umani, lì. Inizialmente aveva passato un certo periodo di tempo nel vicino campo di Ruwaished – un altro campo rifugiati a un’ora di strada dalla Giordania – dove è sceso in sciopero della fame per 36 giorni in protesta verso l’UNHCR, che, secondo lui, non stava facendo nulla per assisterlo dall’essere estradato in Iraq.

“Ora l’UNHCR vuole chiudere questo campo e rispedirci a Ruwaished.
Quando mi trovavo lì ero costantemente sotto la minaccia di essere estradato in Iraq. Ora sono preoccupato che ci trasferiscano a Ruwaished, che non è altro che una gabbia nel deserto”. La sua situazione riflette quelle di molti altri, nel campo. “Vorrei dire al governo americano che mi ricordo di quando George Bush disse di star
combattendo per la libertà. Ma, per Dio, qui ho bisogno di libertà e tutti si sono dimenticati di noi. Gli Stati Uniti ci hanno ignorato fin dal 1974. Il governo americano è responsabile della nostra permanenza qui: abbiamo abbandonato le nostre case per via della guerra”.

Il campo era pieno di problemi sanitari – senza acqua pulita o assistenza medica, con diarrea, problemi respiratori minori,
infiammazioni agli occhi, casi di disidratazione in abbondanza. Molte persone affermano di aver problemi a respirare quando ci sono le tempeste di sabbia, cioè molte volte a settimana.

In un’altra tenda un uomo mi ha detto che il suo figlio 13enne è stato ucciso sulla strada da un camion che passava. Sua moglie ha abortito mentre è scoppiata una battaglia vicino al confine iracheno mesi fa. Ci sono stati problemi al campo, al di là delle condizioni mediche suddette
e dei sintomi di depressione. Lo sciopero della fame era indirizzato all’UNHCR perché questa non fa abbastanza per aiutarli; comunque, l’UNHCR è riuscita a spostare tutto il campo in Giordania, di recente.

Posto lugubre

Il 29 maggio, con l’assistenza dell’organizzazione giordana di carità Hashemite e di CARE International, l’UNHCR ha trasferito i 743 residenti del campo della terra di nessuno nel campo rifugiati di Ruwaished. La lunga battaglia per ottenere il permesso dal governo giordano è finita con l’accordo che l’UNHCR avrebbe ricercato con zelo altre soluzioni per i rifugiati, che sono stati trasferiti con tre convogli.

Jaqueline Parleviet è il responsabile delle protezioni per l’UNHCR ad Amman, in Giordania. “Lo sciopero della fame è finito grazie al trasferimento”, fa nota Parleviet. “Tutti i rifugiati con cui ho parlato erano felici di essere trasferiti. I problemi e la resistenza che abbiamo incontrato nel campo se ne sono andati quando li abbiamo trasferiti”.

Ora l’UNHCR sta studiando delle soluzioni che contemplino o un ritorno volontario o lo stabilimento in un altro paese per ogni rifugiato del campo di Ruwaished, che è ora popolato da circa 880 persone. Il campo di Ruwaished, anche se perlomeno si trova dentro un paese, rimane ancora un
luogo tetro. Non ci sono alberi in vista, ma si può notare una
recinzione di ferro nel ben mezzo del deserto.

Pur essendoci alcuni miglioramenti – i residenti possono andarsene per brevi periodi in modo da fare compere nella vicina Ruwaished, CARE International sta tenendo dei corsi scolastici e di avviamento professionale, e l’organizzazione giordana di carità Hashemite sta fornendo cibo, fornelli da cucina, acqua e altri beni di prima necessità
– lo stato d’animo rimano cupo.

Rahma Shaban ha lasciato la Palestina nel 1948. Sotto il sole intenso del mezzogiorno, mi dice di essere stata costretta a lasciare l’Iraq per via delle terribili condizioni di sicurezza dopo l’invasione. “Baghdad è un luogo grandioso”, ha aggiunto, “Ma ho bisogno della sicurezza per i
miei bambini”. Altri rifugiati criticano il nuovo governo iracheno per le loro difficoltà. “Non posso criticare gli Iracheni per i nostri problemi”, ha detto Donia Baltergy, “Critico quelli Iracheni che collaborano con gli invasori”.

Ha iniziato a piangere mentre continuava a parlare della sua condizione nel campo. “E’ difficile per noi vivere in questo luogo inclemente”, ha detto mentre congiungeva le mani in modo supplichevole, “Siamo seduti qui da due anni. Non ci lasciano andare, non li piace che parliamo con
la stampa, non ci danno diritto a nulla”.

Come l’ex campo della terra di nessuno, il campo di Ruwaished è piagato dalle tempeste di sabbia e dagli scorpioni e i residenti continuano ad avere problemi di salute e di depressione. C’era ben poca speranza in un
cambiamento, quando li ho visitati, e molti rifugiati hanno espresso il loro malcontento verso l’UNHCR e le altre organizzazioni che non fanno di più per assisterli.

Secondo Parleviet, alcuni dei rifugiati somali e sudanesi sono stati trasferiti negli Stati Uniti e in Australia, insieme ad altri 387 Curdi-Iraniani precedentemente spostati in Svezia. “Ora abbiamo casi pendenti per il Regno Unito e l’Irlanda”, ha aggiunto. Nonostante piccoli casi di successo, i rifugiati trasferiti di recente dalla terra di nessuno sono ancora in mezzo al deserto, vicini ad una delle zone di più grave conflitto al mondo.

Infelici di quello che è divenuto l’Iraq, il paese che la maggior parte di queste persone ama e ha dovuto lasciare, continuano a sfogarsi sugli Stati Uniti. In piedi davanti ad una piccola tenda marrone usata per insegnare la salute femminile nelle classi, Rahma Shaban ha esclamato
tra le lacrime, “Gli Americani dicevano che stavano venendo ad aiutare gli Iracheni. Ora vediamo le loro bugie, provate dal fatto che l’unica loro azione è stata farci soffrire nel dolore, impedendo il nostro futuro e il futuro dei nostri bambini”.

E finché la loro situazione non cambierà, probabilmente, anche questi sentimenti persisteranno.

Data: 12 luglio 2005

Fonte: Left Turn Magazine

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Traduzione dall’inglese a cura di CARLO MARTINI per www.comedonchisciotte.org

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