DI SHERGALD
Dissident Voice
Il terrorismo è un tipo di violenza molto particolare, che si spiega mediante la sua motivazione. Nel 1937, la Società delle Nazioni lo ha definito come “l’insieme di atti criminali diretti contro lo Stato e intesi o calcolati per creare una condizione di terrore nell‘animo di particolari persone o di un gruppo o dell’opinione pubblica generale”. L’ONU poi, nel 1999, ha perfezionato la definizione, applicando il termine terrorismo a “qualsiasi atto criminale inteso o calcolato allo scopo di provocare uno stato di terrore tra il grande pubblico o un determinato gruppo di persone…”. Tali atti, secondo l’ONU, sono “inaccettabili, qualunque siano le considerazioni politiche, filosofiche, ideologiche, razziali etniche, religiose o di altra natura invocate a loro giustificazione (GA Res. 51/210 Misure per eliminare il terrorismo internazionale).”
Questa definizione di terrorismo in ogni caso non prende in considerazione le circostanze scatenanti da cui emergono i cosiddetti “terroristi”, quali invasioni militari, resistenza all’occupazione militare o atti esplicitamente intesi come reazione contro una nazione impegnata nell’uccisione di civili innocenti.
L’importanza di dare una risposta corretta è resa necessaria dal fatto che Israele ha sfruttato gli attentati suicidi palestinesi a fini propagandistici nella sua campagna durante la seconda Intifada, etichettando i palestinesi come terroristi e giustificando così l’occupazione militare, nonostante la sua durata quarantennale.
L’ultimo sforzo in questa direzione è stato chiaramente evidente nel lungo documentario Peace, Propaganda, & The Promised Land, nel quale Israele si mostra come vittima e giustifica l’occupazione militare della Palestina, facendola apparire un mezzo essenziale per fermare il terrorismo, a dispetto del fatto che il suo vero scopo sia soltanto quello di continuare la colonizzazione del territorio palestinese.
Lo scorso anno, il film sugli attentatori suicidi palestinesi Paradise Now provocò la reazione da parte degli israeliani le cui principali proteste erano rivolte al modo troppo benevolo in cui erano raffigurati i protagonisti, ovvero come persone motivate dalla rabbia per l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza.
Quest’anno un nuovo documentario, Suicide Killers, del regista francese Pierre Rehov potrebbe provocare altrettante lamentele nella frangia opposta. Rehov ha intervistato alcuni palestinesi imprigionati con l’accusa di aver cercato di farsi esplodere, deducendone che queste persone sono influenzate da una cultura religiosa che reprime il desiderio sessuale e incanala la frustrazione risultante nel furore omicida.
L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (A.M.P.A.S.), che assegnò il premio Oscar del 2006 a Paradise Now (diretto da un palestinese) come miglior film straniero, stava considerando l’ipotesi di candidare Suicide Killers come miglior documentario del 2007, ma dopo la proiezione a New York e San Francisco l’Academy bocciò la decisione di selezionare il film come finalista nella categoria dei documentari.
La conclusione di Rehov riguardo alla motivazione che si cela dietro gli attentati suicidi dei palestinesi è interessante sebbene puramente speculativa e potrebbe essere carica di pregiudizi personali, come si intuisce da un’intervista con un reporter del San Francisco Chronicle (vedi sotto).
Negli anni passati si è animatamente discusso circa quale sia la vera motivazione che spinge gli attentatori suicidi palestinesi a indossare esplosivi cercando così di uccidere cittadini israeliani. La serie di attacchi durante la seconda Intifada ha causato la morte di circa 800 israeliani.
Alcuni cronisti palestinesi affermano che gli attentatori si nutrono di vendetta e di mancanza di speranza, sentimenti causati da decenni di occupazione israeliana che ha soffocato la vita economica e sociale dei territori palestinesi e dalle azioni militari israeliane che hanno ucciso e ferito centinaia di civili. Nel 2002 il legislatore palestinese Hanan Ashrawi dichiarò alla BBC che gli attentatori suicidi sono “spinti alla disperazione e al risentimento dalle attività israeliane”.
La giornalista e funzionaria delle Nazioni Unite, Nasra Hassan, autrice di dettagliate interviste con gli attentatori palestinesi, ha evidenziato che uno degli obiettivi principali di queste persone sia quello di diffondere la paura nei cuori degli israeliani. Membri di Hamas hanno affermato che gli attentati suicidi sono una tattica legittima contro l’aggressione israeliana.
Uno studio sui mancati attentatori suicidi palestinesi condotto da uno psicologo israeliano, che ricordo intervistato in tv, mostrava come queste persone fossero tutte accomunate da un’unica caratteristica generale: la mancanza di paura (non sono in grado di fornire un link dello studio in questione). Altri studi di ricercatori israeliani dimostrano che gli attentatori palestinesi sono motivati da diversi fattori, inclusa la religione e il desiderio di vendicare le morti di altri conterranei.
Rehov,
intervistato a proposito del suo film Suicide Killers, è arrivato ad una conclusione differente:
“Ho studiato psicologia” afferma Rehov “e ci sono molti particolari collegati agli esibizionisti, il cui intento è distruggere l’innocenza. Mi sono accorto che tali persone negli ultimi istanti delle loro vite assumono lo stesso comportamento. Questa considerazione è arrivata nel momento in cui ho capito che c’è un collegamento col sesso nell’atto estremo che vogliono commettere. Sapevo delle 72 vergini del credo religioso islamico e sapevo anche come la frustrazione sessuale può condurre una persona a diventare serial-killer”.
“Suicide Killers non è politicamente corretto”, ha affermato il regista. Minimizza il ruolo che l’occupazione territoriale israeliana ha sulla rabbia palestinese ed enfatizza la repressione sessuale che secondo Rehov contribuisce alla diffusione delle azioni degli attentatori.
Di certo, il tipo di ipotesi teorizzata da intellettuali come Rehov non è nuova. La repressione sessuale è una vecchia nozione freudiana e se non fosse per il fatto che la sua essenza sia stata rifiutata da psicologi con attitudine scientifica che la vedono come poco più di un mito deificato, privo di equivalenti empirici, potrebbe essere presa seriamente. Mettendo l’accento sulla repressione sessuale e sulla brama da parte degli attentatori delle 72 vergini promesse, menzionate chiaramente da qualcuno nelle interviste, la teoria sessuale di Rehov ci mostra gli attentatori palestinesi come spinti da un movente religioso, come può essere l’Islam più radicale. Una teoria di questo tipo rafforza opportunisticamente i recenti sforzi propagandistici israelo-americani di reinterpretare il conflitto israelo-palestinese all’interno della cornice della Guerra al Terrore o all’islamismo radicale di Al Qeda, tema per altro enfatizzato nel documentario Peace, Propaganda, & The Promised Land.
Nella questione, gli Stati Uniti sembrano i soli tra le nazioni occidentali ad affibbiare il marchio terroristico ad organizzazioni quali Hamas o Hezbollah, dimenticando che entrambe furono create rispettivamente per combattere l’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi e del Libano, che continua anche oggi.
In Europa i membri di questi gruppi sono considerati “militanti” o “resistenti” o anche “combattenti per la libertà” piuttosto che “terroristi” e per rispettare tale differenza di “interpretazione” tra i due continenti, gli organismi preposti all’informazione, come la CNN, scambiano tali termini a seconda se la notizia deve essere diffusa in Europa o in America.
Nel contesto della seconda Intifada, che ha provocato una terribile serie di attentati suicidi, la teoria sesso-religiosa sembra davvero poco adeguata, data l’entità di tutti gli altri fattori in gioco, non ultima la lunga occupazione militare che va avanti da decenni. Sembra piuttosto chiaro che l’uccisione di numerosi innocenti palestinesi, adulti e bambini, che precedeva e coincideva con gli attacchi terroristici mettendo in atto una violenza ciclica e incessante, sia la causa di azioni di rappresaglia, sebbene questo non possa spiegare perché un palestinese decida volontariamente di diventare un attentatore suicida e un altro no. Non tenterò di sviscerare i fattori interni o caratteristici, le variabili della personalità, se si preferisce, ma piuttosto l’origine situazionale, contestuale o comportamentale della motivazione che possono specificamente incentivare l’attentatore suicida palestinese.
Gli studi sugli attentatori suicidi condotti in genere da politologi e psicologi possono essere di aiuto nel capire perché un individuo possa volontariamente scegliere un tale ruolo, ma non possono necessariamente essere validi anche per capire quale sia la motivazione alla base degli attentati suicidi durante la seconda Intifada.
In altri contesti, gli attentatori suicidi possono essere autentici terroristi, spinti da ragioni religiose, ideologiche o politiche, volti a diffondere il terrore all’interno di un determinato gruppo della popolazione civile. Escludendo gli attacchi suicidi sporadici degli esponenti di Hamas che avvennero nel 1990, la motivazione degli attentatori palestinesi durante il noto periodo della seconda Intifada potrebbe avere realmente poco a che fare con il terrorismo com’è generalmente inteso.
Secondo le parole della Risoluzione ONU del 1999, se stessimo riferendoci ad Al Queda o all’OLP prima di Oslo che agiscono per il riconoscimento politico della loro causa, allora potremmo parlare di terrorismo. Ma la motivazione tipica dei terroristi non sembra poter essere applicata agli attentatori suicidi dell’Intifada. Sebbene essi si diano da fare per gettare gli israeliani nel panico, difficilmente si può affermare che il terrorismo sia il loro scopo.
E dunque, qual è il fattore che distintivo rispetto al terrorismo comunemente inteso e che ha potuto motivare gli attentatori suicidi palestinesi durante la seconda Intifada?
Secondo il Dott. Abdel Aziz Rantisi, il pediatra coordinatore degli attentati, leader di Hamas, si tratterebbe della rabbia contingente e del desiderio di vendetta e di ritorsione, o almeno questo è ciò che egli ha ammesso prima del suo assassinio. Per ricapitolare quello che Rantisi ha riferito, precedentemente alla seconda Intifada, egli dovette raschiare il fondo del barile per radunare volontari che indossassero esplosivi ed entrassero il Israele. Di conseguenza, ci furono solo incidenti sporadici durante il periodo di Oslo e nessun attentato suicida tra il 1998 e il 2000. Comunque, una volta che ebbe inizio la seconda Intifada e che i palestinesi iniziarono a morire, solo nel corso del primo anno più di cinquanta attentatori suicidi penetrarono nel territorio israeliano. E non si trattò solo di esponenti di Hamas; la Jihad Islamica e alte organizzazioni associate a Fatah erano coinvolte nel reclutamento dei volontari.
Nell’intervista al Time Magazine, Rantisi fornì delle indicazioni circa le motivazioni che spingono alcuni palestinesi ad indossare gli esplosivi.
Ma con l’interruzione del processo di pace nell’estate del 2000 e l’inizio dell’ultima Intifada a settembre, gli aspiranti martiri iniziarono ad unirsi alle fila di Hamas senza bisogno di essere persuasi. “Noi non abbiamo bisogno di fare un grande sforzo, come avveniva in passato” ha dichiarato al Time la scorsa settimana Abdel Aziz Rantisi, leader storico di Hamas. Il notiziario in TV lavora per loro. “Quando si vedono i funerali o l’uccisione di civili palestinesi il sentimento nei conterranei diventa molto forte”, spiega Rantisi.
Invece, Alison Weir nel suo documentario
Off The Charts: Media Bias and Censorship in America, fornisce i nomi, l’età, le date i luoghi in cui 27 bambini palestinesi vennero uccisi dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) prima che un solo attentatore suicida penetrasse in Israele dopo l’inizio della seconda Intifada.
I 27 bambini, il più giovane dei quali era solo di 4 mesi mentre il più grande aveva 17 anni, furono uccisi in Cisgiordania e a Gaza, quasi tutti con un colpo alla testa. Molti altri ragazzi furono feriti e, nei soli primi tre mesi, 159 persero un occhio presumibilmente a causa dei proiettili di gomma sparati dai fucili dell’IDF. Sebbene sia poco chiaro dai dati forniti da Weir, alcuni di questi bambini avrebbero potuto partecipare all’Intifada, la resistenza istituita dai ragazzi e delle ragazze palestinesi lanciatori di sassi.
Dal momento che uno studio israeliano sugli effetti dei proiettili di gomma sulla popolazione civile palestinese ha rivelato che mediante questo metodo sono morte solo tre persone nel primo anno, senza dubbio per uccidere la maggioranza di questi bambini vennero impiegati proiettili veri e siccome quasi tutte le morti furono causate da un colpo alla testa, è evidente che l’IDF aveva l’intenzione di uccidere, per quanto non sia chiaro se avesse l’ordine di farlo o meno.
Bambini innocenti e adulti civili continuarono a morire durante la seconda Intifada assieme a bambini e adulti israeliani capitati nelle vicinanze degli attentati suicidi in Israele. Da ogni fazione, la ritorsione di solito innesca una violenza ciclica e l’aumento delle morti. Da parte palestinese, anche solo la strage dei bambini perpetrata dall’IDF sembrerebbe un motivo sufficiente per reagire. Il giordano-palestinese Rami Khouri, redattore del Beirut Daily Star citò una relazione dell’Health Development Information and Policy Institute [1] con sede a Ramallah, che seguiva le morti e i ferimenti infantili nonché gli altri effetti che i primi due anni di Intifada hanno avuto sui più piccoli.
Nei soli due anni della seconda Intifada, da settembre 2000 a novembre 2002:
– Circa il 36% della popolazione palestinese ferita (per una stima di più di 41.000) è costituita da bambini, di cui sono stati uccisi 86 al di sotto di 10 anni e 21 neonati con meno di 12 mesi.
– 245 studenti e scolari palestinesi sono stati uccisi; 2.610 ragazzi sono stati feriti mentre andavano o tornavano da scuola.
– La politica di Israele di chiusura ad ampio raggio ha paralizzato il sistema sanitario palestinese, colpendo in modo più duro i bambini, particolarmente vulnerabili rispetto al provvedimento di punizione collettiva. Le chiusure interne hanno colpito duramente i piani sanitari, inclusi i programmi di vaccinazioni, gli esami dentistici e le visite diagnostiche di routine prima di iniziare la scuola, con ripercussioni su oltre 500.000 bambini.
– Durante i primi due mesi dell’Intifada, il tasso di infezioni alle vie respiratorie nei bambini è aumentato dal 20% fino al 40%. Quasi il 60% dei bambini a Gaza soffrono di infezioni parassitarie.
– Un numero enorme di bambini palestinesi mostra sintomi di traumi come disturbi del sonno, nervosismo, diminuzione dell’appetito e del peso, sentimento di disperazione e frustrazione e pensieri anomali di morte.
– Ci sono stati 36 casi di donne palestinesi con le contrazioni fermate ai posti di blocco alle quali è stato rifiutato il permesso di raggiungere centri medici o di essere prelevate da un’ambulanza. Almeno 14 di loro hanno partorito al posto di blocco e otto dei piccoli sono morti poco dopo essere stati messi alla luce. (dall’articolo “
Ehud Olmert’s Profound Ethics and Deep Lies“)
Come se lo sterminio dei bambini non fosse abbastanza, nella seconda Intifada si registra che tra i 4.000 palestinesi uccisi in cinque anni, più dell’80% rientrava nella categoria di civili innocenti, adulti e bambini. Nello stesso periodo più o meno 1.000 israeliani furono uccisi con le stesse proporzioni, ovvero 80% della popolazione civile e il resto soldati dell’IDF.
A dire il vero, tali assassini sembrano essere una causa sufficiente perché atti di rappresaglia abbiano luogo, sia da una parte che dall’altra. Farsi saltare in aria, almeno secondo l’opinione di Rantisi, è condizione necessaria per la maggioranza di attentatori. Il suo contributo rivela per prima cosa che nel momento in cui le uccisioni dei palestinesi diminuirono, e si profilava la speranza della pace all’orizzonte, come durante il periodo di Oslo, i volontari disposti a partire per le missioni suicide erano davvero pochi. Quando la violenza scoppiò e la gente innocente iniziò a perire, assieme alle speranze di pace, vennero a galla la rabbia, l’odio, le rivendicazioni e la vendetta. “Quando i sentimenti diventano molto forti”, i volontari suicidi prolificano.
Qui di seguito si può leggere il commento di Jonathan Cook ad un episodio di attentato suicida che vede come protagonista una nonna. Nell’articolo Cook ci offre qualche spunto in più sulla motivazione, chiarendoci che il terrorismo difficilmente sta alla base di tali atti.
A dispetto della tendenza del giornalismo attuale, incline a dare maggior rilievo alle notizie inusuali, molti media israeliani minimizzarono l’incidente. Non sorprende il fatto che Fatma al-Najar non fosse una fanatica impazzita rivolta solo alla distruzione di Israele.
È d’altra parte difficile non fermarsi e chiedersi quale motivazione ci fosse dietro alla missione suicida della donna; secondo la famiglia, uno dei suoi nipoti è stato ucciso dall’esercito israeliano, un altro è sulla sedia a rotelle dopo che gli è stata amputata una gamba e la sua casa è stata distrutta.
Come non pensare agli anni di shock che lei e la sua famiglia hanno sofferto vivendo in una prigione all’aria aperta sotto l’occupazione brutale e ora, dalla “smilitarizzazione”, i mesi agonizzanti di miseria nera, il lento morire di fame, i ripetuti attacchi aerei e la perdita di beni essenziali come l’acqua o l’elettricità.
O non riflettere su come deve essere stato per lei passare ogni giorno sotto una nube di paura, sentirsi impotente contro una forza in gran parte invisibile e maligna e non sapere quando lei o i suoi cari avrebbero potuto essere vittime di una mutilazione.
Non è possibile non immaginare che lei abbia desiderato con tutta se stessa il momento in cui i soldati fautori della distruzione della sua famiglia si fossero mostrati per un istante, avvicinandosi fino al punto in cui lei avesse potuto vederli e toccarli e prendersi la sua rivincita.
Ancora gli osservatori occidentali, che dovrebbero rappresentare al meglio i loro valori illuministi, sembrano incapaci di comprendere cosa possa portare una nonna a trasformarsi in un attentatore suicida. La loro empatia li guasta così come la loro umanità.
L’occupazione israeliana della Palestina è, di certo, il problema. Senza la colonizzazione dei territori palestinesi, che va avanti sotto la protezione dell’occupazione, e le sofferenze che ha causato al popolo palestinese, Israele non avrebbe mai sperimentato la cultura degli attentatori suicidi.
L’attentatore suicida della seconda Intifada non è un terrorista, ma un vendicatore. Opinioni contrarie ripetono semplicemente la linea di propaganda offerta dai governi israeliano e americano che desiderano mostrare gli israeliani come vittime del terrore e i palestinesi come i suoi perpetratori. È per questa sola ragione che Israele deve continuare la sua brutale occupazione militare e spiegare la sua attuale abilità nell’uccidere i palestinesi con impunità, 600 solo 2006.
Nota: [1] (anche noto come HDIP) venne fondato nel 1989 da un gruppo di ricercatori, di medici e di esperti di sviluppo, impegnato nel miglioramento dello stato di salute dei palestinesi.
Shergald
Fonte: http://www.dissidentvoice.org
Link: http://www.dissidentvoice.org/2007/05/inside-the-mind-of-the-palestinian-suicide-bomber/
09.05.2007
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di AGLAIA KOCHELOKHOV