DI JIM KUNSTLER
clusterfucknation
I G 20 sono arrivati a Washington, e hanno mantenuto l’intera città in apnea finché non hanno annunciato di essere serissimamente intenzionati a tappare tutte le falle che stanno facendo sprofondare lo scafo del globalismo. Be’, fingere di stare facendo qualcosa, a questo sono costretti. Nel frattempo, quella che era finora una povera comparsa di nome Realtà, sulla nave ha conquistato il centro della scena del salone principale. E il suo numero è più eterodosso di un balletto di travestiti nel film “Cabaret”.
Siffatto spettacolo della realtà, autentico reality show, sta inviando segnali clamorosi agli abitanti del vero e veramente affollato mondo. Il principale di questi segnali dice che l’orgia commerciale e finanziaria degli scorsi decenni è finita. Il baraccone dell’ipersviluppo a base di materie prime a basso costo ha chiuso i battenti. Il sudaticcio passamano di rischi e premi è terminato. Non c’è istituzione mondiale che tenga a gestire la paralizzante emicrania di questo doposbornia. Sta alle singole nazioni riuscire a cavarsela.
Ohimé, l’azzoppamento finanziario si sta ancora diffondendo per il globo e molta strada gli resta da percorrere prima di spremere la residua carica di sfiga sulle cosiddette economie avanzate. Finora la ciurmaglia di anatre zoppe dell’economia USA ha fatto tutto il possibile, tranne le due cose veramente indispensabili: esporre i titoli finanziari truccati, nocciolo del problema, alla luce del giorno, in modo da determinarne l’effettivo valore; e permettere che le compagnie che ne hanno fatto smercio ne paghino le conseguenze, fallendo. Per adesso, invece, ci si limita a spalare contante nel rimorchio di ogni impresa che faccia capolino al carico-scarico del Tesoro. Alla fine l’unico risultato sarà quello di aver demolito il valore di quel contante.
La prudentissima esibizione del Presidente eletto Obama alla trasmissione 60 Minutes ha dimostrato che, nella sua posizione, può a malapena accennare qualcosa di significativo sulle difficoltà di questo paese, almeno finché la vecchia gang tiene le mani sulle leve della macchina economica – con loro la capacità di rottamarla prima del 20 gennaio 2009. Talmente tante sono le tribolazione che angustiano la nostra repubblica, che è arduo immaginare cosa debba fare il capo del governo federale, a parte rivestire il ruolo di super consulente psicologico per una nazione zeppa di gente sotto forte stress.
Il mondo è cambiato più velocemente di quanto ci si renda conto. La domanda principale è per quanto ancora gli americani barcolleranno in tondo cogli occhi sbarrati, prima di rimettersi in opera facendo cose concrete per questo paese – concrete nel senso di rapportate alle vere disponibilità degli anni a venire. Scendendo nei dettagli, come coltiveremo il cibo che ci nutre senza enormi quantità di gasolio e di derivati del petrolio, per non parlare di tutti gli altri prodotti di cui abbiamo bisogno, in un epoca che avrà scarsità di energia?
Forse il signor Obama si rende conto che non torneremo neanche per sogno alla routine cui si erano abituate le generazioni nate dopo il 1945. Vorrei suggerirgli di affrontare la situazione dividendo i problemi in due categorie. La prima concerne il modo in cui il governo riuscirà a gestire il completo crollo psicologico di chi si vedrà privato di botto del suo abituale livello di vita. Magari per un po’, diciamo per un annetto, il pubblico vorrà essere disponibile e fiducioso, specialmente con un presidente che ha avuto un’esperienza personale di ristrettezze, e che oltretutto parla in un inglese caloroso e comprensibile. Il signor Obama potrà cavarsela egregiamente, almeno per un po’.
Il secondo tipo di problema, tuttavia, sarà molto più arduo: la gestione fattuale e amministrativa di un imprescindibile ridimensionamento delle attività al cuore della vita quotidiana. Sarà davvero difficile, visto che attualmente il governo pare intento a entrare nella proprietà di un po’ di tutto, a partire dal sistema bancario per finire magari con l’industria pesante (se i big automobilistici di Detroit la spunteranno). La gestione Obama dovrà resistere alla tentazione di impedire alle imprese di fallire. Ciò che è in fallimento dev’essere tolto di mezzo, perché nuove attività trovino il loro spazio. Sarà anche indispensabile che i governanti dicano al pubblico la cruda verità, e cioè che il governo non ha il potere di fare tutto quello che ci piacerebbe facesse.
La rovina del sistema sanitario è il risultato della combutta tra compagnie assicurative avide e spietate, ospedali dediti al profitto e vampiresche industrie farmaceutiche, certo. Ma anche la popolazione porta responsabilità per la sua dieta suicida di burrito al doppio formaggio e bevande gassate. Che ne direste di un sistema sanitario nazionale che richiedesse un requisito di base: per partecipare non bisogna eccedere il proprio peso forma per più di cinque chili. Piuttosto duro, dite? Ma pure i tempi sono duri, e più stretti devono essere i paletti. Un sistema del genere avrebbe il grande vantaggio di essere assolutamente chiaro e semplice. Le organizzazioni non profit e quelle assistenziali useranno le loro risorse per educare gli obesi irresponsabili con diete ed esercizi, così che alla fine possano rientrare nel sistema.
L’irrisolvibile pasticcio dei trasporti ci dice che dobbiamo lasciar perdere l’automobile personale e il commercio su gomma, e che anche il settore aereo dovrà ridursi drasticamente. Quando cominceremo a discutere della ricostruzione di un sistema di trasporto pubblico che una volta il mondo ci invidiava? Ormai non importa più quanto gli americani amino le loro automobili, o quanto denaro sia stato investito nell’infrastruttura collegata. Arrivati a un certo punto, dobbiamo affrontare il fatto che la motorizzazione democratica di massa non può più essere in agenda. Né può esserlo un commercio basato su una motorizzazione sempre crescente. Questo implica anche, tra l’altro, che dobbiamo ricominciare a usare le vie d’acqua per il trasporto di cose e persone. Per esempio, qualcuno si è accorto che il porto di New York, probabilmente il più grande e attrezzato porto di acque profonde del mondo, una volta attivissimo, ha sul suo immenso perimetro un numero residuo di moli funzionanti ormai vicino allo zero? Già che ci siete, date un’occhiata ai porti di Louisville, di Cincinnati, di Kansas City, e a una ventina di altre città portuali interne situate su grandi fiumi navigabili. Quelli che troverete sono terreni edificabili, centri commerciali [1], spiazzi da picnic e terreni completamente spogli – tutto tranne che infrastrutture per il trasporto merci. Non possiamo più permettercelo. Questi posti devono tornare a funzionare.
A Washington, la scorsa settimana, i leader dei G 20 hanno fatto un sacco di rumore sulla crescente spesa interna. Nei decenni a venire questo non avverrà se non a fronte di un rimpiazzo delle importazioni – che è proprio quello che sembra: invece di importare le merci di cui si ha bisogno, le si fabbrica in patria, in cambio di un salario che permetta di vivere. Il rimpiazzo delle importazioni, già che ne parliamo, è esattamente il sistema adottato dagli USA nel XIX secolo per imporsi come la maggior nazione manifatturiera al mondo. Non impedisce il commercio con le altre nazioni, ma ovviamente i termini di tale commercio cambiano, decretando la fine del tipo di “globalismo” predatorio che ha condotto allo stato vigente di scriteriato squilibrio e distruzione indiscriminata.
Ritengo che le cose andranno così, che ci piaccia o meno, perché si tratta di eventi ciclici, e il ciclo in corso sta palesemente finendo sotto le rovine di intere economie, comportamenti, abitudini, pratiche e aspettative. Meglio o peggio che sia, dobbiamo passare a un modo nuovo di fare le cose.
Quella che secondo me, in America, costituisce la fantasia più pericolosa, è il desiderio di poter continuare a comportarci come facciamo adesso (la mia solita sineddoche di WalMart, Disney World e sistema autostradale), semplicemente sostituendo benzina e gas con “combustibili alternativi”. Toglietevelo dalla testa. In futuro utilizzeremo ogni possibile tipo di energia alternativa, e lo stesso dovremo vivere in modo completamente diverso da come abbiamo fatto negli ultimi sessant’anni. Il pubblico non se ne rende conto. Non so se, da parte sua, il Presidente eletto Obama lo faccia. Spero proprio di sì, e spero che parte della sua nuova politica sia chiarire lo stato di cose al pubblico, in termini efficaci e persuasivi. Saranno in molti i delusi, ma nel salone della nave della realtà è questa la musica che si suona, e il signor Obama dovrebbe essere abbastanza saggio da imparare la melodia.
Jim Kunstler
Fonte: http://jameshowardkunstler.typepad.com/
Link: http://jameshowardkunstler.typepad.com/clusterfuck_nation/2008/11/in-the-reality-lounge.html
17.11.087
Traduzione a cura di Domenico D’Amico per www.comedonchisciotte.org
nota del tradutore:
[1] Nell’originale “festival marketplaces”, aree commerciali destinate a rivitalizzare i centri città degradati dalla sempiterna emigrazione suburbana della classe media statunitense.