Neanche in Italia si riesce a respirare

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di Moravagine

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George Floyd è vivo e lotta insieme a noi

Il 2 giugno scorso, mentre Mattarella declamava quello che passerà alla storia come “il discorso della mascherina”, il cosiddetto “mondo social” era agitato dalla mobilitazione del “Blackout Tuesday”, in base alla quale si invitavano gli utenti di Instagram a pubblicare immagini completamente nere in segno di solidarietà con le proteste scoppiate negli USA dopo la morte di George Floyd a Minneapolis.

Sulla scia di altre iniziative simili (come il grottesco Ice Bucket Challenge di 6 anni fa), il nuovo verbo “virale” è stato dapprima irradiato dalle centrali dello show business, quindi ripreso dal parterre di vip e influencer della musica, del cinema e dello sport, giungendo infine a rimbalzare su milioni di profili in tutto il mondo: uno schema quasi perfettamente piramidale.

In Italia, dopo che il fenomeno era diventato “di tendenza” grazie al battage dei vari siti di gossip, il picco simbolico di questa mobilitazione virtuale si è avuto nella serata del 3 giugno, quando la conduttrice Myrta Merlino ha aperto la sua trasmissione “L’aria che tira” su La7 con un accorato sermone anti-Trump, inginocchiandosi poi solennemente per omaggiare George Floyd, mentre dalla regia mandavano le note dell’inno americano nella sua versione trasfigurata e distorta proposta da Jimi Hendrix a Woodstock.

L’aria giusta ha dunque preso a tirare anche da noi: nel fine settimana successivo le maggiori città italiane hanno ospitato manifestazioni e flash mob “contro il razzismo e la violenza”, durante le quali i partecipanti hanno agitato cartelli con slogan in lingua inglese, come “I can’t breathe”, “Black Lives Matter” et similia, e sono rimasti in ginocchio per 8 minuti e 46 secondi, il lasso di tempo impiegato dal poliziotto Derek Chauvin per porre fine alla vita di Floyd.

Dopo che già nella giornata di mercoledì una prima mobilitazione era stata indetta a Reggio Emilia, fra venerdì e sabato sono state coinvolte venti città (a Torino, Napoli e Firenze le manifestazioni più affollate), mentre domenica c’è stato il gran finale di questa prima ondata con gli “eventi” simultanei di Roma e Milano.

A promuovere le iniziative, com’è ormai prassi consolidata, una galassia di sigle virtuali la cui attività politica, fino all’altro ieri, si limitava a gestire una pagina Facebook: Razzismo brutta storia, NIBI: Neri italiani – Black Italians, Women’s march Rome, Giovani Europeisti Verdi; a dar manforte, altri movimenti un po’ più strutturati, come ExtinctionRebellion, Frydays for future e le immancabili 6000 sardine.

Nonostante i promotori avessero invitato tutti a “manifestare in sicurezza”, nelle piazze gremite il distanziamento sociale è andato a farsi benedire; a tal proposito, il dottor Andy Nganso, intervistato dall’Ansa in qualità di “organizzatore della manifestazione di Milano”, ha dichiarato: “Questa purtroppo è la democrazia, a volte succede così, i cittadini hanno voglia di manifestare e il nostro ruolo, come organizzatori, è quello di dare il massimo per garantire queste misure.” Incalzato dall’intervistatore che gli chiedeva, allusivo: “Non hai paura che con tutta questa gente possa succedere qualcosa?”, il dottor Nganso ha replicato: “Non ho voglia di rispondere a questo…un’altra domanda”.

Sull’obbligo di indossare le mascherine, invece, i manifestanti si son rivelati disciplinatissimi: guardando le immagini, si vedono solo persone ben mascherinate; curioso che molti abbiano scritto sulla propria “I can’t breathe”, “Non riesco a respirare”, riferendosi non ai problemi causati dal “dispositivo di protezione individuale”, ma alla frase pronunciata da Floyd mentre Chauvin premeva il suo ginocchio contro di lui, trasformando così un simbolo di imbelle sottomissione in uno di ardita ribellione.

Tre pesi e due misure

E così, mentre andavano sfumando le proteste dei cattivi, le adunate sediziose in arancione del 30 maggio, i volgari assembramenti melonian-salviniani del 2 giugno, i buoni tornavano a prendersi le piazze, disinfettandole dalle idee analfabete, dal sudore testosteronico e dalle goccioline assassine.

Il coro della stampa di regime si è prodotto in un’unanime celebrazione degli inginocchiati italiani, senza neppure una stecca, supportato anche da quelle testate più o meno giovanilistiche che di solito si occupano di tecnologie, di consumismo “intelligente”, di “nuove tendenze”, di quelli che le vetrine le ammirano e non le sfasciano.

Il mensile per donne “emancipate ed anticonformiste” Marie Claire, per dire, ha pubblicato un vero e proprio vademecum per partecipare alle manifestazioni antirazziste “in assoluta tranquillità”: fra le raccomandazioni, oltre a quella di stare “ben distanziati, mascherina d’ordinanza e gel disinfettante in tasca”, anche quella di non accettare “nessun oggetto” da untori sconosciuti, quindi niente “volantini, riviste, gadget”, vade retro alla possibilità di scambiarsi cartelli e bandiere e “men che meno le bottigliette o le borracce per bere”.

Una volta a casa, poi, appena prima di condividere la propria bontà col mondo, “gettare in un sacchetto della spazzatura mascherina, guanti, bottiglietta e chiuderlo bene, poi infilare tutti i vestiti nella lavatrice e avviare il lavaggio. E lavarsi benissimo le mani prima di toccare qualsiasi altra cosa in casa.”

Insomma, protestare ora è cool, anzi glamour (ma attenzione alla sicurezza): altri siti della stessa pasta ci hanno informato che fra i partecipanti alla manifestazione di Milano c’era l’influencer Chiara Ferragni, bardata come una fashion black bloc e sfoggiante un cartello con la scritta “Fuck racism”, mentre pochi giorni prima a Los Angeles s’era unita alla marcia l’ex velina Elisabetta Canalis, già nota per il suo impegno socio-politico.

La ben più autorevole Repubblica, invece, ha speso parole di miele per gli inginocchiati italiani, sottolineandone l’intelligenza, la responsabilità e il senso civico, glissando al contempo sui pur inevitabili assembramenti.

Assai più suggestivo è stato il pezzo scritto da Marco Damilano per l’Espresso (sottotitolo: “mentre destra ed estrema destra con le loro manifestazioni puntano sul disagio e sulla rivolta, c’è anche un’altra Italia che torna a protestare in nome della Costituzione e ora si ritrova dopo la morte di George Floyd”); in esso, l’autore distingue tre diverse piazze materializzatesi nella stessa città a distanza di poche ore: quella di estrema destra, quella di destra senza aggettivi e quella antirazzista, precisando che “La differenza delle piazze antirazziste è nella qualità, più che nei numeri” e paventando il rischio che il disagio sociale venga strumentalizzato dai cattivi fascistoidi e fascistissimi.

Egli ha fatto dunque di tre pesi due misure, interpretando perfettamente il pensiero dell’italiano neobenpensante : da un lato le piazze plebee che diffondono il contagio della loro ignoranza (oltre a quello del noto virus, avendo in uggia le mascherine), “dal lato opposto, c’è il ritorno in piazza di un’altra Italia, che protesta non per se stessa ma per i diritti di tutti”.

I professionisti dell’informazione si stanno intanto arrabattando per cercare, nel mare magnum dei manifestanti antirazzisti, nuove gretine da prima pagina: mentre si attendono intervistone a Denise Berhane, promotrice dell’iniziativa romana, ecco spuntare dal cilindro Stella Jean, stilista italo-haitiana che “ha stregato Piazza del Popolo citando la Costituzione” e l’autrice italo-somala Igiaba Scego, una che scrive per “decolonizzare la letteratura italiana”.

Il contagio delle idee

Sembra dunque che stia muovendo i primi passi un nuovo, variegato movimento di idee e di piazza in grado di catturare, per le settimane e i mesi a venire, l’attenzione ed il plauso di giornaloni e televisioni.

L’inginocchiarsi pare esserne la cifra simbolica, processo che ha trovato anche una sua rappresentazione istituzionale quando, l’8 giugno scorso, madame Boldrini si è scenograficamente genuflessa, assieme a cinque colleghi illuminati, dopo un appassionato intervento antirazzista alla Camera dei Deputati.

Provando a imbastire una critica semiotica di tale gesto, fa specie che sia stata adottata non la posa dell’oppresso George Floyd, ma quella del suo oppressore Derek Chauvin; tutto questo in un momento storico in cui viene meno la dimensione “classica” della genuflessione, quella in virtù della quale ci si inginocchia solo davanti al buon Dio: le nuove disposizioni sanitarie prevedono infatti il divieto di tale pratica durante la Santa Messa, così come è vietato ricevere in ginocchio l’Eucarestia.

I nuovi ribelli si mostrano quindi inginocchiati e imbavagliati. Per ora, si limitano a seguire le orme dei loro omologhi d’oltreoceano: nel denunciare gli abusi della polizia a stelle e strisce, ben pochi hanno menzionato analoghi misfatti perpetrati dalle nostrane forze dell’ordine, come i casi Aldrovandi e Cucchi, e nessuno, a quanto risulta, ha osato contestare le violenze su inermi cittadini perpetrate dalle divise di ogni colore durante la fase più truce del lockdown.

La stessa furia iconoclasta che sta imperversando presso i manifestanti del mondo anglofono, impegnati a tirar giù statue di odiosi negrieri ed a riscrivere la storia, ha trovato sinora da noi pochi e zoppicanti epigoni: la proposta dei “Sentinelli” milanesi di rimuovere la statua di Indro Montanelli ha diviso il fronte dei buoni, inducendo il prode Beppe Severgnini a sollevar la penna contro tale eccesso; successivamente, qualcuno è passato a vie di fatto, imbrattando la statua del giornalista collocata in un parco milanese, ma tale azione pare aver prodotto il classico effetto boomerang.

Ad ogni modo, è possibile isolare, all’interno di questo movimento di “un’altra Italia, quella che protesta per i diritti di tutti” (Damilano dixit), quattro anime distinte.

La prima fa capo ad un moto di nascente consapevolezza afro-italiana, il quale, oltre a riproporre storici cavalli di battaglia come lo ius soli e lo ius culturae, invoca visibilità e riconoscimento politico.

La seconda, rappresentabile come l’ala giovanile del movimento (“tanti giovani in piazza” è stato un altro leit motiv), si raggruppa intorno agli striscioni turbo-ambientalisti di ExtinctionRebellion e Fridays for Future: godendo già di buona stampa, sapranno dare il loro contributo.

Vi sarebbero poi le sardine, imprudentemente ibernate qualche settimana fa: la loro partecipazione è stata piuttosto discreta, ma si può ragionevolmente ipotizzare un più marcato coinvolgimento nelle prossime occasioni.

Infine, ha fatto capolino nelle piazze ciò che resta della sinistra “antagonista”, soprattutto nelle sue componenti “movimentiste”: i presidi di Napoli e Firenze, tenutisi davanti ai consolati americani, son stati principalmente cosa loro.

Si assiste dunque ad un fecondo contagio di idee, mentre il virus cattivo si gira dall’altra parte: ovunque ruggiranno le belve del razzismo, del fascismo e del sovranismo, i paladini del Bene Assoluto sapranno superare sofismi e divisioni.

Il più grande poeta afro-italiano

Ora, se tutto ciò fosse una cosa seria e non una messinscena mediatica col concorso più o meno inconsapevole di tante anime belle, il leader del movimento degli inginocchiati italiani non potrebbe che essere il sindacalista
Aboubakar Soumahoro, assurto agli onori delle cronache dopo aver guidato le proteste seguite all’omicidio del bracciante Soumaila Sacko, avvenuto nel 2018 nelle campagne di San Calogero, in Calabria, e soprattutto dopo essersi guadagnato la prima pagina de l’Espresso in funzione anti-Salvini ed essere stato ospite di Diego “Zoro” Bianchi nel suo “Propaganda live”.

Il buon Soumahoro, ahilui, ha il difetto di apparire troppo “rosso” e, soprattutto, assai poco “pop”: che appeal volete che abbiano i baraccati che raccolgono arance nella piana di Gioa Tauro o pomodori nella Capitanata?

Declinante appare la stella di Cecile Kyenge, scottata dalla bocciatura alle ultime elezioni europee: l’oculista italo-congolese, già promotrice dell’acerbo “Afro-italian Power Initiative” , non ha prodotto sul caso Floyd neppure un cinguettio, neppure un postuccio su Facebook né su altre bacheche.

Il vuoto da lei lasciato potrebbe essere colmato da Antonella Moro Bundu, consigliera comunale a Firenze e già candidata alla carica di sindaco nel 2019 per tutta la sinistra anti-nardelliana, da Articolo 1 a Potere al Popolo.

Intervistata da Radio Popolare, l’attivista fiorentina ha dichiarato, parlando da leader in pectore: “spero che nasca un movimento che prende in considerazione quello che accade qui, che chieda a gran voce che vengano abrogati, non rivisti o cambiati, i decreti sicurezza che istituzionalizzano quella che è la differenza tra gli ultimi, che spesso sono gli immigrati. Sono leggi che discriminano, e che portano a quel razzismo che vediamo sia in Italia che all’estero.”
Va detto che un movimento simile esiste già: si tratta di “Cara Italia”, la creatura di Stephen Ogongo, l’ex sardina romana che finì nell’occhio del ciclone per alcune improvvide dichiarazioni su CasaPound.

Sparito dai radar e di fatto ostracizzato dalla stampa dopo i suoi cinque giorni di celebrità, Ogongo si candida a rappresentare l’ala dura degli inginocchiati: su Twitter, è arrivato a bollare come “ipocrisia vergognosa e spaventosa” il già descritto gesto della Boldrini alla Camera.

Se quindi la politica ed il sindacato appaiono poco attraenti e “cool”, potenziali portavoce del sorgente movimento potrebbero giungere dal mondo dello sport.

Il neodisoccupato Mario Balotelli potrebbe avere un futuro in tal senso: nei giorni scorsi, dopo essersi fatto tatuare la scritta “Black power” sopra l’occhio destro ed essersi celebrato attraverso le sue vetrine virtuali, ha pure partecipato alla manifestazione antirazzista per George Floyd nella sua Brescia.

Troppo giovani sembrano invece la pallavolista Paola Egonu e la discobola Daisy Osakue, la protagonista del famigerato episodio dell’uovo in un occhio, “schifoso razzismo” derubricato poi a “ragazzata” quando si scoprì che uno dei lanciatori era figlio di un consigliere comunale piddino di Vinovo, nel torinese.

E alla fine, cosa c’è di più pop della musica pop?

Mentre esponenti della scena rap e trap nazionale tributano una manieristica adesione al “Black Lives Matter”, un contributo molto più incisivo alla causa potrebbe giungere da quello che è, a tutti gli effetti, il più grande poeta afro-italiano: Paul Yeboah, dai più conosciuto come BelloFigo.

Già noto al grande pubblico per le sue pungenti canzoni antirazziste (“Non pago affitto” la più celebre), il verseggiatore italo-ghanese seppe farsi apprezzare dall’universo antifascista quando “trollò” in diretta televisiva Alessandra Mussolini, nel dicembre 2016, episodio che gli costò l’ostilità dell’estrema destra e l’annullamento di alcuni concerti per motivi di ordine pubblico.

Sempre attento all’attualità (vedi la recente hit “Coronavirus”), autore impegnato (come si diceva una volta) e cultore della licenza poetica, pure romanziere autobiografico nella sua prima opera scritta,“Swag Negro”, il nostro si è espresso, incalzato dai suoi seguaci, anche sulle recenti vicende americane.

A questo proposito, ha dichiarato urbi et orbi attraverso Instagram: “Io non mi fido dei poliziotti americani perché lui probabilmente l’avrà ammazzato perché è nero, ce l’ha più grosso di lui, quindi i neri vengono ammazzati perché ce l’hanno più grosso“, fondendo brillantemente satira, sociologia, raffinata dietrologia.

Successivamente, è salito anche lui sulle barricate: “Dite agli americani di continuare a spaccare tutto perché solo così chi è razzista davvero può capire, perché quando ti spaccan tutto lì vedrai che è meglio la pace“, chiudendo con il profetico avvertimento: “fra poco arrivano in Europa, vedrete“.

Attendiamo trepidanti un suo pezzo di supporto alle proteste in atto: potrà diventare l’inno degli inginocchiati italiani.

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