di Alessia Vignali
comedonchisciotte.org
Luce nella notte dell’inverno, il Natale ha ancora parecchio da dire alle “anime in viaggio” di tutti, atei o credenti che siano. Non foss’altro per via del fatto che è ricchissimo di simboli come ogni festività. Simboli che per l’uomo sono tutto… e che dell’uomo dicono tutto.
Una saggezza millenaria si deposita infatti nella simbolica del mito, ricolmo di spezzoni narrativi gravidi di senso, sicché potremmo dire, con la psicoanalisi, che “il mito è il sogno millenario dell’umanità, in cui si sedimenta la saggezza dei popoli”. Così come il sogno, di cui rappresenta la miglior trasformazione in arte selezionata e cesellata nel tempo e dalle generazioni, il mito è tra le forme di pensiero più evolute di cui disponiamo, in cui si condensano migliaia di pensieri in una singola immagine.
Il mito è dunque evolutivo ed emancipativo, il suo messaggio radica nella profondità della vita.
Esso è evolutivo anche grazie alla sua natura insatura e polisemica: al suo cospetto ognuno deve attivarsi, dev’essere creativo e trarre da esso quel significato che in quel momento gli serve, sempre che lo voglia e sempre che sia “aperto allo sconquasso” che ogni esposizione a significati forti, veicolo di verità, sempre comporta. E’ per questo che, come ogni libro importante ci sembra diverso a ogni lettura, il mito si dischiude all’uomo in tempi diversi, assecondandone la crescita e le necessità: anche quella di non interpellarlo, se si è in una fase di eccessivo timore.
“Un bambino è nato per noi”, afferma il teologo Alessandro Sacchi nel titolo di un suo recente saggio. La sua venuta squarcia il gelo dell’inverno e l’anno vecchio, con le loro ferite, i loro errori, le loro cadute… Perché la vita può riparare ai suoi errori solo dandosi la chance del bambino, che è sempre un Messia venuto da chissà dove. Il bambino porta al passato il riscatto, la redenzione, il vero futuro. Questo, per i fedeli e per chi tenda l’orecchio al riecheggiare dei misteri cui il mito allude, non accade soltanto nell’anno zero, ma in ogni anno.
Per dirla con Rudolf Steiner, “ciò che una volta avvenne in Palestina si compie in ogni notte di Natale, per chi sa trasformare la dottrina in sensazioni e sentimenti dell’anima.” Per Steiner la “vera vita” era raggiungibile soltanto attraverso il recupero del sentimento. “L’uomo ha perduto il contatto immediato con la vita”, diceva; “considerata con gli occhi dell’anima, la vita d’oggi appare “fredda, arida, ottusa, di fronte ad una concezione della vita più profonda e più calda. Ce ne accorgeremo specialmente all’avvicinarsi di una delle grandi feste: Natale, Pasqua, Pentecoste. Ben poco è rimasto di ciò che in tali ricorrenze così profondamente commuoveva l’anima dei nostri antenati! Di quella viva e penetrante intuizione dei rapporti tra l’uomo e l’universo e della sua essenza divina che sempre esisteva in loro e si accentuava ancor di più nei giorni di festa. Queste feste erano qualche cosa di reale per l’anima… e l’anima sentiva diversamente in quei giorni che negli altri giorni dell’anno”. (Steiner, R, 1907, Natale Pasqua Pentecoste).
In realtà, miti e festività erano visioni ed eventi omnicomprensivi in grado di scandire il tempo e capaci di conferire al suo scorrere un senso umano. Essi collocavano l’uomo, solo e nudo, in seno a una comunità che gli facesse sentire il suo valore e il suo ruolo in quel “tutto” più o meno armoniosamente costituito dalla natura e della comunità.
Simbolicamente il Natale ci riconnette all’originario. Siamo al cospetto del mistero dell’essere, nel paradosso incessante della vita che come uno scoppio di gioia annulla la morte… ma celebriamo anche il valore del legame, dell’appartenenza, dell’amore. Celebriamo l’attesa, la lentezza delle cose. E la bellezza: l’incantesimo del manifestarsi della vita sotto il baluginar dei fiocchi di neve, in una mangiatoia.
L’Originario, il Magico intimoriscono: ecco perché spesso scegliamo, dinanzi all’occasione di stupore offerto della festa più bella dell’anno, la via più semplice, quella di nasconderci dentro allo stereotipo del Natale, nel suo guscio vuoto. Scegliamo di “lasciarci vivere” travolti dal nonsense di gestualità ritualizzate un po’ prive di senso.
Alcuni subiscono la corvée di panettoni multicrema e parenti poco amati, poco indagati, coi quali evitare discorsi per non incappare nella consueta litigata, più che scoprire affinità o incuriosirsi dell’altro, questo sconosciuto sempre schivato. Una sana salvaguardia da intimità fastidiose, non davvero volute? Oppure una perdita d’occasioni d’incontro?
Altri vanno via, verso mete esotiche o analoghe corvée al freddo e al gelo magari in Lapponia, per scampare il pericolo di un triste confronto, sempre in agguato, con il Natale come dovrebbe essere e come mai è.
Pochi, in realtà, riescono a essere così liberi da chiedersi: che senso ha tutto questo? Qual è il significato che voglio conferirvi IO? Come voglio che sia il mio Natale, quest’anno? Come celebro e riconosco davvero chi amo, ammesso che desideri farlo e non mi assuma la dignitosa scelta di sottrarmi a tutto questo, ma con consapevolezza?
Il profeta Giovanni andò nel deserto per annunciare la venuta del Figlio. Per farlo gli fu necessario porsi ai margini della società, contestare alla radice il genere d’esistenza da essa prescritto. Il battesimo da lui istituito era davvero una “nuova nascita” del sé denudato dagli orpelli di una società ripudiata.
Il “ritorno su di sé” (conversione), reso possibile soltanto da un allontanamento dei modi oramai istituzionalizzati, è consueto del mito: accade a San Francesco, a Siddartha, allo stesso Gesù. Si tratta di figure esemplari che ci ricordano come nessuno possa davvero metterci a contatto con la verità, nemmeno le narrazioni più profonde o l’arte più grande, se non riusciamo a isolarci da quel che “si deve” pensare. Il “si deve pensare” protegge, come ogni schema acquisito di pensiero, dalla verità. Wilfred Bion prescrisse all’analista di essere “senza memoria, senza desiderio” proprio per porlo nudo davanti alla novità della vita, privo di preconcetti e aperto al mistero.
Il compito di un buon analista è, in realtà, proprio quello di aprire ogni uomo al mistero, al non conosciuto.
Se non riusciamo ad accedere a quanto davvero giace dentro di noi, il nostro desiderio sepolto, non riusciremo a “capire” l’essenza del Natale, a farne esperienza utile per noi.
Solo così il Natale diventa festa dell’Incontro… in quello che è il vero senso del sentirsi vivi nell’amore e dall’appartenenza.
Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista
Dipinto di Gino Covili
Pubblicato da Tommesh per ComeDonChisciotte.org